lunedì 22 dicembre 2008

Kyoto2 - Intervista con Oliver Tickell

Nel tuo libro tracci un giudizio severo del trattato di Kyoto. Perchè è fallito?

Una delle ragioni per cui è fallito consiste nel fatto che non c'era un limite a livello globale sulle emissioni di anidride carbonica. Inoltre ci sono paesi industrializzati che non avevano alcun limite da rispettare. Senza un limite globale è possibile che le emissioni continuino a crescere. Quello che è successo in effetti è che i paesi industrializzati hanno trasferito molte attività verso paesi in via di sviluppo. Inoltre, nel trattato di Kyoto, c'erano anche dei meccanismi di flessibilità come il mercato dell'anidride carbonica. Ma questi meccanismi di flessibilità non producono una riduzione delle emissioni. Sono buoni progetti in quanto tali, ma il loro effetto è irrilevante. Di fatto è difficile sapere cosa sarebbe successo se non fossero mai esistiti. Come conseguenza di questa situazione, le emissioni invece che diminuire sono aumentate. Secondo il Global
Carbon Project, dopo il 2000 le emissioni sono aumentate di 4 volte il tasso di crescita che avevano in precedenza.

Se Kyoto non ha funzionato perchè dovrebbe funzionare Kyoto2?

Al tempo del trattato di Kyoto c'era un minore senso di allarme. Di fatto l'obiettivo principale del trattato di Kyoto consisteva nel creare il mercato dell'anidride carbonica. La riduzione effettiva
delle emissioni non era considerata importante in questa fase. Oggigiorno di fronte a nuove ricerche e i primi effetti visibili del riscaldamento globale c'è un maggiore senso di urgenza. Questa è anchela conseguenza del fatto che nell'ultimo decennio la lotta al cambiamento climatico è andata indietro invece che fare passi avanti. Questo succede mentre l'effetto serra è già realtà quotidiana in diverse parti del mondo, come abbiamo visto con l'aumento di uragani e
siccità e con lo scioglimento rapido della calotta artica.

Qual'è la principale differenza tra il trattato di Kyoto e l'approccio che proponi in Kyoto2?

La proposta di Kyoto2 è il risultato dell'analisi di ciò che non ha funzionato. Un esempio è la proposta di un limite globale alle emissioni. Una delle principali ragioni del fallimento del trattato di Kyoto consisteva nel definire un tetto alle emissioni a livello nazionale. Questo non ha senso anche perchè nell'era dell'economia globale tu puoi avere una fabbrica inquinante a Singapore, che usa brevetti giapponesi e produce per l'Europa. Allora la domande sorge:
come puoi affermare la responsabilità tra nazioni in questa situazione? Il principio dovrebbe essere che chi inquina paga, evitando che chi paga non passi i costi in pieno ai consumatori. Per
fare questo secondo me abbiamo bisogno di un sistema serio di mercato per acquistare diritti alle emissioni. E attraverso questo mercato possiamo raccogliere una somma considerevole, mille miliardi di dollari all'anno, più del piano di salvataggio delle banche lanciato
dal governo Bush. Questi soldi possono essere utilizzati per lottare sia contro gli effetti che le conseguenze del cambiamento climatico. Cambiare il settore energetico, dando sussidi alle fonti rinnovabili, aiutare le nazioni in via di sviluppo a cambiare tecnologia e adattarsi alle conseguenze e salvare le foreste che sono un deposito fondamentale di anidride carbonica.

Ma il mercato delle emissioni non è stato la maggiore ragione del
fallimento del protocollo di Kyoto? Perchè continuare su questa strada?

Il fatto è che sotto il protocollo di Kyoto i crediti per le emissioni erano di fatto immaginari. C'erano tanti progetti in cui i tagli alle emissioni erano impossibili da dimostrare. Nella mia proposta invece ci sono veri e propri diritti alle emissioni. Di fatto il sistema che propongo è abbastanza simile al mercato europeo delle emissioni che assegna diritti chiari. E' un sistema molto più solido per il commercio. L'aspetto fondamentale è che ci sono permessi per produrre
gas serra e che questi permessi sono venduti a livello globale. A volte le persone scopriranno che hanno troppi permessi, altri troppo pochi. Il mercato è la maniera più efficace per garantire flessibilità in questo sistema. L'altra differenza principale nella mia proposta è
che le emissioni vengono controllate a valle nei punti in cui i carburanti fossili sono concentrati, ad esempio pozzi di estrazione, raffinerie. E' molto più facile controllare pochi siti di produzione
piuttosto che milioni di inquinatori.

Il mercato delle emissioni in questo modo non diventa una specie di sistema di tassazione globale sul modello delle proposte fatte sulla Tobin Tax in questi anni?

Certamente. E' una specie di sistema di tassazione globale. Si possono raccogliere mille miliardi di dollari all'anno con questo sistema. Soldi che sono sufficienti per coprire dell'impatto del cambiamento climatico e liberare l'economia globale dalla sua dipendenza dai carburanti fossili. E una volta che l'energia alternativa è diventata una fonte competitiva con l'energia prodotta da petrolio e carbone, il suo costo scenderà e non ci sarà più bisogno di sussidi. Negli ultimi
anni abbiamo visto cosa sta succedendo con l'aumento del prezzo petrolio. Le fonte rinnovabili sono l'unica maniera per evitare la crisi energetica in cui siamo entrati.

Ma questo progetto richiederebbe una potente agenzia governativa internazionale. Come pensi sia possibile farlo, con le Nazioni Unite che sono a un minimo storico di credibilità e influenza?

Questo dipenderà tutto dalla volontà del mondo politico. Le Nazioni Unite sono più della somma degli Stati che vi partecipano ma la sua forza dipende fondamentalmente dalla loro disponibilità. Se i governi membri saranno capaci di sostenere questa direzione, questo non lo so.
Se non ci sarà il loro appoggio la lotta al cambiamento climatico fallirà. Temo che questo sarà il caso. Questa è una questione molto delicata. I governi trovano difficoltà a essere corraggiosi e creativi di fronte a questo problema. Ma dobbiamo continuare a sperare che ce la possano fare.

Che dire allora del governo italiano che si rifiuta di rispettare i
limiti definiti dall'Unione Europea per la lotta all'effetto serra?

Mi sembra una dimostrazione di pigrizia, un'atteggiamento miope da parte di un paese che ha solo da guadagnare dal cambiamento economico portato dalla lotta all'effetto serra. L'Italia è un paese bagnato dalla luce del sole che ha ottime possibilità come produttore di energiasolare. Abbiamo visto come in Spagna e Portogallo c'è stata una corsa all'energia solare e la stessa cosa è successa pure in Germania che certo non ha il sole dell'Italia. Eppure l'Italia rimane indietro.
Perchè? Dovrebbe essere nell'interesse stesso dell'Italia di avviare questo cambiamento economico.

Il nostro governo dice che tanto i tagli sono inutili, e Berlusconi ha più volte affermato che l'effetto serra sarà un problema dei nostri nipoti.

Che dire allora dell'aumento delle temperature e degli incendi che succedono già ora? Dovete prepararvi per problemi con l'approviggionamento acqua, con lo scioglimento dei ghiacciai al Nord e la desertificazione nelle regioni del sud. Più tardi si affronta il problema peggio sarà per tutti ed in particolare per voi italiani. Alcune regioni del vostro paese potrebbero diventare completamente inabitabili se non si prende il problema seriamente ed in tempo.

Con la crisi finanziaria molti politici affermano che non ci sono più i soldi per la lotta al cambiamento climatico. Che le priorità sono cambiate.

E' esattamente il contrario. Se c'è una cosa che la crisi finanziaria ci dovrebbe insegnare è che sistemi complessi possono crollare da un momento all'altro se si crea instabilità. La stessa cosa vale per il clima. Ci sono una serie di feedback positivi. Se la calotta polare artica scioglie, per esempio, diminuisce la riflettività del pianeta, ed aumenta l'effetto serra. E' come un effetto domino, simile a quello che abbiamo visto con il crollo delle banche. E' una cosa da non
prendere sottogamba, se non fermato in tempo rischia di diventare irreversibile. Poi il cambiamento climatico è di una gravità di tutto altro ordine di grandezza. Il pianeta rischia davvero di diventare inabitabile. Mi sembra una cosa un po più grave che avere difficoltà
ad ottenere prestiti.

giovedì 16 ottobre 2008

Camera senza vista sul mercato di Londra

La camera non è niente di speciale. Una stanzetta con armadio a muro che ospita un letto e un tavolino, al terzo piano di un casermone dell'edilizia popolare anni '50 nel quartiere di Mile End, a est di Londra. «450 sterline al mese escluse le spese», afferma l'agente immobiliare. «Mi chiami entro domani se la vuole. È un affare di questi tempi».
«Casa dolce casa», sospiravano compiaciuti i padri di famiglia borghesi della Londra vittoriana di ritorno alla loro dimora. Ma oggi per tanti londinesi la parola «casa» non evoca solo immagini di quiete, ma soprattutto preoccupazione e insicurezza. La crisi finanziaria che sta facendo traballare i pilastri dell'economia britannica è in buona parte frutto delle speculazioni fatte sul mercato delle abitazioni nell'ultimo decennio. Dal 2000 al 2007 il valore medio delle case è più che raddoppiato, in una bolla immobiliare senza precedenti, con cui si è prolungato artificialmente uno dei più lunghi cicli di crescita dell'economia britannica dal dopoguerra. Ed è proprio sulla casa che si abbattono le prime conseguenze del crollo delle borse.
Con la crisi dei mutui si sta aggravando il crollo del mercato immobiliare, cominciato nell'estate 2007. Secondo Halifax, la banca specializzata nel settore dei mutui che è stata appena salvata dal governo, negli ultimi dodici mesi il valore medio delle case è diminuito del 13% ed è destinato a scendere ulteriormente. Ma il crollo dei prezzi delle case non si traduce in un miglioramento della situazione abitativa. La prima conseguenza della crisi è il blocco quasi totale di una nuova ondata di costruzioni: 180.000 case che, secondo il governo, avrebbero dovuto alleggerire il mercato immobiliare.
«L'economia va male», dicono in coro gli esperti, e che l'economia vada male nessuno lo sa meglio di chi in questi giorni sta vedendo la casa portata via dalla banca. Anche qui come negli Usa si sono concessi mutui come fossero noccioline e adesso si vedono le conseguenze di questa dissennata corsa al mattone. Nell'ultimo mese le insolvenze sono aumentate del 17% . E secondo Shelter, Ong che si occupa di senza tetto e persone con problemi abitativi, almeno 900mila famiglie hanno problemi a pagare le rate.
Private delle casa, queste persone si trovano costrette a cercare una casa in affitto, e le agenzie immobiliari fanno fatica a rispondere alle domande. «Riusciamo a coprire solo un terzo delle richieste», conferma al telefono un'impiegata della Foxton's, una delle principali agenzie immobiliari. Basta scorrere gli annunci per camere e case in affitto: i prezzi puntano al rialzo e diventa sempre più difficile a Londra trovare una camera decente sotto le 500 sterline al mese, spese escluse, senza trasferirsi nelle cinture più esterne.
«Gli affitti stanno salendo», conferma Mike Heath di Shelter. « Così i primi ad essere colpiti dalla crisi sono quelli che già prima si trovavano ai margini del mercato abitativo. Molti si rivolgono a noi in questi giorni per richiedere informazioni o accedere ai nostri servizi. A causa del costo elevato degli affitti, e con l'inflazione sui beni di largo consumo in crescita, la gente si vede costretta a tagliare bisogni essenziali, pur di tenere la casa».
La crisi economica alimenta un clima di sospetto nel mercato immobiliare, le cui prime vittime sono gli inquilini a basso reddito. A chi cerca casa spesso vengono chieste informazioni sulla propria condizione lavorativa, copie dell'estratto conto e lettere di referenza dai precedenti padroni di casa. E per chi una casa l'ha già affittata, in questi mesi sono arrivate raffiche di rialzi. Con l'aumento dei interesse dei mutui negli ultimi mesi, tanti padroni di casa che avevano acceso un mutuo per poi affittare la casa (con un contratto denominato buy-to-let) si sono rifatti aumentando gli affitti.
Mentre aumentano le insolvenze e gli affitti salgono alle stelle, la situazione si fa difficile pure per chi una casa ha deciso di comprarla. Dopo anni di prestiti facili le banche sono spaventate e chiedono garanzie pesanti agli aspiranti proprietari. «Dopo questa crisi, una casa la devi ricevere in eredità, o avere un bel gruzzolo in banca per comprarla», afferma David Smith, coordinatore della campagna «Our Homes, Our London» dell'organizzazione civica London Citizens che raggruppa sindacati e organizzazioni religiose.
«Si tratta di un vero e proprio apartheid nell'accesso ai diritti fondamentali», afferma Smith. «Il problema della casa si riflette sulla qualità della vita delle persone. Distrugge matrimoni e famiglie. In diverse comunità che fanno parte della nostra organizzazione le persone vivono già in una situazione di sovraffollamento». Basta farsi un giro tra le case popolari dell'Ocean Estate a Shadwell, per imbattersi in situazioni abitative da romanzo di Dickens. Famiglie pakistane e bengalesi di sette o otto persone, ammassate in una casa con due stanze da letto. Quello che era uno dei più grandi «council estates» della capitale verrà presto abbattuto per fare posto ad appartamenti di lusso per una nuova ondata di lavoratori finanziari che non arriverà mai.
Ed è proprio la svendita dell'edilizia popolare il principale imputato della crisi abitativa. È dal 1979, con la salita dei conservatori al potere che è diminuito il numero di case pubbliche. In quell'anno una Thatcher fresca di elezione lanciò il provvedimento Right-to-Buy (diritto all'acquisto), e il suo portavoce Heseltine annunciò che avrebbe portato una «rivoluzione sociale» nel paese. Con questa iniziativa, gli inquilini delle case popolari acquisivano il diritto a comprare l'appartamento in cui vivevano a prezzi modesti. Ma poiché il contratto non comprendeva la proprietà terreno, alcuni sono stati costretti ad andarsene sull'onda di progetti di rinnovamento e demolizione di vecchi palazzi, con in mano soldi insufficienti per comprare una casa sul mercato privato.
Dopo 27 anni di svendite, oggi la stragrande maggioranza delle case popolari sono in mani private, o assegnate a housing associations, organizzazioni a metà tra pubblico e privato, preoccupate prima di tutto ad abbassare le spese e aumentare gli introiti. Così se ne è andato uno dei patrimoni più consistenti di edilizia pubblica a livello europeo. La furia privatizzatrice thatcheriana, continuata sotto i governi Labour, ha lasciato dietro di sé un deserto abitativo, in cui la casa è diventata un macigno sulle spalle delle famiglie a basso reddito. «La gente ha lottato per decenni per avere garantito un diritto alla casa, con proteste e scioperi degli affitti», racconta Ellie, un'attivista per il diritto abitativo. «Ora ci troviamo di nuovo a dover ricostruire un movimento per la casa e riguadagnare ciò che abbiamo perduto in questi anni».
Le proposte innovative per rispondere alla crisi abitativa non mancano. La campagna di London Citizens «Our Homes, Our London» propone ad esempio l'introduzione di «Land Trust Schemes», in cui la proprietà dei terreni viene affidata ad un'organizzazione no-profit gestita dalla comunità locale, mentre gli inquilini possono acquistare le abitazioni a prezzi contenuti. In questo modo secondo London Citizens si potrebbe abbassare il costo delle abitazioni fino al 60% ed assicurare che i terreni rimangono proprietà delle comunità. Un progetto pilota è stato iniziato a Stratford, nell'est di Londra e l'organizzazione spera di diffondere l'iniziativa in altri quartieri.
«Questa iniziativa tuttavia non può sostituire un'edilizia pubblica che offra case a prezzi ragionevoli», avverte Smith. «Case economiche», aveva promesso il primo ministro Gordon Brown nel luglio 2007 di fronte alle prime avvisaglie della crisi. Ma dopo l'arrrivo della tempesta finanziaria e con il governo che ha accumulato un debito ingente per salvare le banche, ci sono forti dubbi che rimangano risorse per «salvare» chi ha bisogno di una casa.

«Senza tetto né diritti in balìa dell'avidità»

Londra è la sede di alcune delle principali ong che si occupano del problema della povertà nel Terzo Mondo. La London Coalition Against Poverty (Lcap) - un gruppo di azione civica che è stato fondato ad Hackney un'anno e mezzo fa - invece si occupa della povertà che imperversa qui e ora nell'angolo nord-est della «capitale del capitale».
Il quartiere popolare, nella zona nord-orientale di Londra, confina con la zona in cui si stanno costruendo le principali strutture per le Olimpiadi del 2012. E con i cantieri olimpici è arrivata pure la gentrificazione, sotto la forma di progetti di rigenerazione urbana che tentano di far affluire abitanti ad alto reddito. Nonostante la cattiva nomea di una zona in cui si trova il famoso «Murder Mile», un miglio quadrato con un'altissima incidenza di omicidi e violenze, gli investitori sperano di riuscire a fare qui quello che ha avuto successo in molte altre zone: trasformare una zona popolare nel nuovo quartiere alla moda per la classe creativa e i lavoratori del settore finanziario.
L'aumento degli affitti, portato dalla speculazione edilizia, sta peggiorando le condizioni di vita di un quartiere che già prima faceva fatica ad arrivare alla fine del mese. Il primo sintomo del degrado sociale è l'alto numero di senza tetto che vivono nell'area, persone a cui viene negata ogni forma di assistenza, in un quartiere che è stato governato per decenni dal Labour Party. «Le autorità locali, che sono gli organismi preposti ad aiutare i senza tetto, negano loro un diritto alla casa che viene sancito dalla legge», spiega Carl Taylor, segretario di Lcap. «Noi chiediamo a questi enti di fare semplicemente quello che è un loro obbligo fondamentale».
Quali sono le autorità responsabili per il problema dei senza tetto?
Ogni sobborgo della città ha un ente chiamato unità per i senza tetto. Questi enti dovrebbero fornire ai senza tetto un'abitazione se rispondono a una serie di criteri di vulnerabilità. In realtà fondamentalmente questi uffici non fanno altro che scacciare le persone, cercando cavilli burocratici per evitare che si iscrivano al registro dei senza tetto. Secondo la legge britannica le persone hanno dei diritti fondamentali quando perdono la casa. Ma questi diritti non vengono rispettati.
Non ci dovrebbero essere posti nelle case popolari per i senza tetto?
In teoria sì, ma le liste di attesa sono interminabili. Questo è il risultato di anni di svendita dell'edilizia pubblica. Le case popolari sono state quasi completamente privatizzate così i senza tetto sono costretti a vivere per strada. E spesso si tratta di persone in condizioni estreme, gente ammalata, persone vittime di angherie e violenze. Molti di questi vanno a riempire gli ostelli per i senza tetto gestiti dalle Ong, che spesso sono sovraffollati o in cattive condizioni.
Come state agendo contro questa situazione?
Quello che facciamo è una strategia a metà tra supporto legale ed azione diretta. Da un lato offriamo ai senza tetto consulenza per le questioni burocratiche. Dall'altro le sosteniamo direttamente presentandoci in massa davanti all'ufficio, quando devono fare il colloquio con gli impiegati dell'unità per i senza tetto.
Questo è un modo per dare coraggio alle persone che spesso si sentono impotenti di fronte ai dinieghi della burocrazia. Inoltre ci permette di fare pressione sulle autorità locali, perché possiamo dimostrare che stanno violando la legge. I risultati sono evidenti, gli enti preposti sono infastiditi da questo tipo di azione e sono diventati molto più reattivi alle nostre richieste.
Con il crollo del mercato immobiliare la situazione abitativa è destinata a peggiorare?
Da un lato c'è un crollo dei prezzi delle case, quindi uno potrebbe pensare che diventi più facile per le persone acquistare una casa. In realtà chi sta approfittando di questo calo dei prezzi sono le compagnie immobiliari e le organizzazioni abitative (Housing Associations) che già gestiscono le ex case popolari. Le persone comuni in questo momento non hanno assolutamente soldi per approfittare del crollo del mercato.
Cosa possono fare le autorità locali per risolvere la situazione della casa?
Le autorità locali in base alla legge possono requisire case private vuote per coprire l'emergenza abitativa. Questo di nuovo è un diritto sancito dalla legge. Tuttavia questa opzione al momento è ancora improbabile, almeno fin al momento in cui il diritto di proprietà continuerà a venire prima del diritto alla casa.

sabato 4 ottobre 2008

Rimpasto anti-crisi di Brown, torna in sella Mandelson

Nel 2004 il Labour lo aveva parcheggiato a Bruxelles, nella posizione di commissario europeo per il commercio, chiamato a portare in Europa il verbo mercatista del New Labour. Ieri Gordon Brown lo ha richiamato in patria a salvare il paese dalla crisi dei mutui. L’insediamento di Peter Mandelson è il colpo a sorpresa del rimpasto effettuato da Gordon Brown per rimettere in fila il governo e ad approfittare dell’emergenza economica ricostruire il consenso perduto dopo un anno disastroso al governo.
Il primo ministro chiama in aiuto quello che è stato uno degli inventori del New Labour, un blairiano di ferro che era considerato un nemico di Gordon Brown. L’attuale primo ministro non gli perdonò di aver appoggiato Tony Blair invece che lui alla guida del partito, dopo la morte improvvisa di John Smith nel 1994. Blair lo prese sotto le sue ali e vista la sua esperienza come produttore televisivo gli affidò il coordinamento della comunicazione del partito per la vittoriosa campagna del 1997, che spedì a casa, gli odiati conservatori. I modi efficaci e senza scrupoli con cui ha influenzato la rappresentazione del Labour party nei media nazionali gli sono valsi l’epiteto di «principe delle tenebre».
Alla fama di manipolatore non hanno certo giovato gli scandali in cui è incappato mentre era al governo. Nel primo governo Blair, fu ministro con compiti di coordinamento e responsabile per il progetto del Millenium Dome. Il mastodontico spazio espositivo, costruito sulle rive del Tamigi, doveva essere un monumento alla «Cool Britannia» del periodo New Labour. Sin dall’esposizione inaugurale, dedicata al nuovo millennio, l’opera si rivelò un flop con un enorme buco in bilancio.
Ma Mandelson si dovette dimettere per uno scandalo privato: un prestito senza interessi da un compagno di partito. Dieci mesi dopo, nell’Ottobre 1999, fu rimesso al governo come Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord. Ma dopo poco più di un anno fu costretto a dimettersi nuovamente. Questa volta per aver fatto pressione perché un imprenditore indiano ottenesse la cittadinanza britannica.
Di fronte agli attacchi giunti da destra e sinistra dopo l’annuncio del ritorno di Mandelson, Gordon Brown ha risposto che «persone capaci sono necessarie per fronteggiare tempi difficili. Lui ha un’esperienza senza rivali come commissario europeo per il commercio». L’altra carta giocata da Brown per dimostrare la sua leadership di fronte alla crisi economica è la creazione di una «commissione economica nazionale», una specie di consiglio dei ministri ristretto, che si dovrebbe riunire una volta a settimana per fronteggiare la crisi finanziaria e i suoi impatti sull’economia reale. Questa commissione sarà in consultazione con 17 «ambasciatori del business», tra cui figurano i manager di alcune delle più grandi multinazionali inglesi: la banca Barclay’s, la catena commerciale Sainsbury’s, la Vodafone, la Borsa di Londra, la fabbrica di armamenti BAE Systems. Un altro chiaro segnale che il Labour è ostinatamente amico del business, anche in tempi di sventura.
Per il resto il rimpasto rivela poche sorprese. Più che altro di movimenti tattici di pedine, che premiano sia gli accoliti di Brown che i Blairiani che sono rimasti fedeli durante la crisi di fiducia nel governo degli ultimi mesi. Il possibile successore David Miliband mantiene il ministro degli esteri, mentre suo fratello Ed, sottosegretario alla presidenza del consiglio, guadagna responsabilità su clima ed energia. Così Brown spera di riassestare l’esecutivo che dopo la conferenza del Labour, il mese scorso, ha accorciato la distanza dai conservatori nei sondaggi, che rimangono comunque con dieci punti di vantaggio. Nella conferenza del partito conservatore che si è chiusa ieri, il leader del partito, David Cameron ha promesso «un impegno tanto forte sul sociale come quello che era stato fatto sull’economia dalla Thatcher». Con questo rimpasto Brown invece punta tutto sull’economia.

mercoledì 1 ottobre 2008

Lo tsunami di Wall Street si abbatte sulla City

Un nuovo 1929? Canada square, la piazza centrale di Canary Wharf, il nuovo polo finanziario di Londra, fatto costruire dalla Thatcher nella zona dei Docklands, sarebbe la perfetta scenografia per una apocalisse finanziaria, con i grattacieli giganteschi schiacciati sotto il cielo plumbeo e sferzati dal vento. Ma George, banchiere, 58 anni di cui 35 passati nel settore finanziario ostenta sicurezza. «La situazione non è poi così male come sembra. Noi stiamo meglio degli Stati Uniti. Sono sicuro che le cose miglioreranno. A meno che il Congresso americano non riesca finalmente ad approvare il piano di salvataggio finanziario giovedì prossimo. Oppure che i cinesi si mettano a svendere le azioni delle nostre banche.
Allora siamo proprio fregati». L'ondata di panico di Wall Street causata dalla mancata approvazione da parte del Congresso americano del piano di salvataggio del sistema finanziario si è abbattuta nella notte sulle rive del Tamigi. Alle 8 la borsa di Londra sembrava impazzita con perdite di oltre il dieci per cento, che colpivano in particolare i titoli bancari ed assicurativi. Ma la speranza che il piano bocciato del congresso possa essere approvato giovedì dopo i festeggiamenti per il nuovo anno ebraico hanno risollevato le quotazioni. E a fine giornata l'indice FTSE 100 chiuderà in positivo segnando addirittura un + 4,36%. Ma nel frattempo continuano ad addensarsi le nubi su alcune banche inglesi. Le azioni della HBOS specializzata nei mutui, hanno perso oltre il 20%, dopo che si era sparsa la voce che il piano di salvataggio da 12 miliardi di sterline lanciato da Lloyds TSB, una delle banche che sta approfittando di questo momento di crisi, non sarebbe andato in porto. E intanto si fanno sempre più intense le voci su un piano finanziario britannico sul modello di quello proposto da Bush al Congresso, dato che ieri il premier britannico Gordon Brown era a colloquio con il governatore della Banca di Inghilterra Mervyn King. Se così fosse sarebbe l'ennesimo intervento statale nel mercato finanziario, dopo che il governo ha appena nazionalizzato parte di Bradford & Bingley, banca specializzata nei mutui, lasciando al colosso spagnolo Santander i depositi bancari e la rete di filiali. È la seconda banca che viene nazionalizzata dal governo britannico, ad un anno distanza dall'acquisizione di Northern Rock, che fu la prima vittima europea della crisi dei mutui.
Così facendo il governo ha voluto evitare di ripetere le scene di risparmiatori in fila agli sportelli per ritirare i risparmi. Ed è diventato suo malgrado uno dei maggiori operatori finanziari del paese. Nel tardo pomeriggio, di fronte al grande display della Reuters che segna una catena di rimbalzi positivi si respira un clima di attesa. I banchieri camminano con passo spedito, le facce tirate e i negozi di lusso sotto il grattacielo di Canada One, sembrano a corto di clienti. «Sono tutti al lavoro - racconta George - c'è chi sta facendo degli ottimi affari in questi giorni comprando pezzi di compagnie che navigano in cattive acque». Paura di perdere il posto di lavoro? «Poca. Pensa che la maggior parte degli impiegati della Lehman sono già stati riassunti». Eppure per l'economia reale si preannuncia un futuro difficile. «Le banche ridurranno gli impiegati delle proprie filiali, alcuni supermercati arretreranno, molte ditte di costruzione falliranno» - sostiene Martin un broker quarantenne con la faccia sconsolata.
La recessione infatti è oramai realtà. Si prevede che nel 2009 il prodotto interno diminuirà dello 0,2%, dopo un 2008 fermo all'1,1 %. L'economia britannica rischia di perdere 500.000 posti di lavoro. Molti di questi direttamente collegati al settore finanziario da cui in Gran Bretagna dipende un quinto della forza lavoro. «C'è molta preoccupazione», racconta Tony che lavora come informatico all'ufficio Reuters di Canary Wharf. «Hanno bloccato le assunzioni e stanno tagliando le consulenze». «La gente tiene la testa bassa aspettando che la tempesta passi - ammette Chris, un avvocato abbronzato che lavora in uno studio commerciale - Alcuni miei amici hanno già perso il lavoro. Ma il problema più che altro è per quelli che cercano lavoro, non ci potrebbe essere momento peggiore». C'è addirittura chi teme una serie di suicidi di banchieri, dopo che la settimana scorsa, Kirk Stephenson, direttore della compagnia finanziaria Olivant si è buttato sotto un treno, dopo aver perso milioni di sterline nel crollo del mercato azionario. Ma se adesso pure i ricchi piangono, non sembra esserci molta compassione da parte dei tanti lavoratori comuni che tengono in piedi Canary Wharf. «Non cambia mica niente», dice Dimat, un cameriere albanese che lavora a Smollensky's, uno dei ristoranti ai piedi dei grattacieli. «Tanto questi i soldi per venire al ristorante li hanno messi da parte. Gente da servire ce ne sarà sempre».

mercoledì 7 maggio 2008

Scozia, a passo stentato verso l'indipendenza

TESTO Londra Sulle televisioni e sui giornali inglesi ieri campeggiava una mappa della Scozia coperta al centro dalla tinta blu scuro dei collegi uninominali conquistati dallo Scottish National Party, con il rosso del Labour ricacciato verso il sud della regione e nelle zone urbane di Edimburgo e Glasgow e il giallo dei liberaldemocratici isolato all'estremo nord. «La Scozia ha scelto un nuovo cammino politico, questo è un momento storico», affermava il leader dell' Snp Alex Salmond già venerdì pomeriggio, rompendo gli indugi di fronte all'incertezza degli spogli.
Doccia scozzese
Per la prima volta nella storia scozzese l'indipendentista Scottish National Party è il primo partito, guadagnando oltre 20 seggi rispetto alle elezioni precedenti. Tuttavia questo voto restituisce l'immagine di una Scozia spaccata di fronte alla scelta dell'indipendenza con il risultato di un parlamento in bilico e di un futuro incerto.
E' ancora lontano il giorno in cui gli scozzesi porteranno via la croce di Sant'Andrea dalla bandiera del Regno Unito. Il cammino verso il controllo di Holyrood, il parlamento scozzese che ha aperto i battenti nel maggio del 1999 dopo il referendum sulla devolution è più impervio di quanto lasciassero credere i sondaggi, che davano lo Scottish National Party trionfante per oltre 5 punti sul Labour. In realtà alla fine L'Snp ottiene il 33% contro il 32% dei Labouristi, il 17% dei Conservatori, e il 16% dei Liberaldemocratici che incassano un risultato deludente.
Così i nazionalisti l'hanno spuntata per un solo seggio, 47 contro i 46 del Labour che ha controllato la regione per oltre 50 anni, e che era al governo dell'autorità autonoma con il primo ministro Jack McConnell. A questa risalita del Labour sui nazionalisti ha contribuito una intensa mobilitazione del partito negli ultimi giorni per cercare di convincere gli elettori insoddifatti che queste elezioni non avevano a che fare con il governo Blair e la guerra in Iraq e che un voto di protesta rischiava di aprire la strada verso l'indipendenza. L'Snp tuttavia sospetta pure che il disastro nello svolgimento degli spogli, in cui oltre centomila schede sono state annullate, lo abbia svantaggiato.
Ma il governo è un problema
Ora i nazionalisti che sono su posizioni di centro sinistra, non molto differenti da quelle del Labour Party ma con un'impronta più populista e con una forte ostilità alla politica estera di Tony Blair sperano di costituire una «coalizione progressista» con i Liberaldemocratici e con i Verdi, che garantirebbe una maggioranza di due seggi al nuovo governo. Tuttavia questo significherebbe per l'Snp mettere nel cassetto quello che è il suo principale punto in programma, un referendum per l'indipendenza della Scozia dal Regno unito da tenersi nel 2010.
Menzies Campbell, leader dei Liberaldemocratici, pur mostrandosi disponibile all'idea, ha chiarito che il proprio partito continua a essere opposto all'indipendenza della Scozia che considera una scelta sventata e dai costi insostenibili. Il leader nazionalista Salmond spera di riuscire ad aggirare la fermezza del possibile alleato con la promessa di inserire nel quesito referendario oltre a un semplice Sì/No anche la possibilità di una via di mezzo con un aumento dei poteri del parlamento scozzese - un'opzione che fa già parte del programma dei Liberaldemocratici.
Smacco per Blair e Brown
In alternativa Salmond potrebbe stringere un accordo informale con i Libdem e i Verdi per ottenere la fiducia come primo ministro tra un mese e cercare di navigare a vista con un governo di minoranza. Comunque sia è evidente che - come ha dichiarato il primo ministro in pectore - «il Labour ha perso il proprio diritto divino di governo sulla Scozia».
Uno smacco per il partito al governo a Londra dato che i suoi due capifila, Gordon Brown e Tony Blair, sono entrambi scozzesi. E ora pure Fife, un tempo collegio elettorale blindato di Brown, non appare più sicuro per le prossime elezioni politiche. Così nel Labour aumenta la preoccupazione per la successione a Downing Street.

sabato 3 maggio 2008

Fumo di Londra. Il Labour crolla, è il terzo partito

E così Brown si trascina dietro Livingstone. Alla fine ha ceduto pure Londra, quella che era l'ultima speranza in una tornata di elezioni locali che hanno segnato per il Labour un record negativo. Terzo dopo Conservatori e Liberaldemocratici. Ridotto a un 24% che lo riporta agli anni '60, a uno dei periodi più neri nella storia del partito.
Per la formazione alla guida del governo del paese è un colpo pesante che va oltre le previsioni già negative che venivano avanzate dai suoi strateghi. Per il ringiovanito Conservative Party di David Cameron, il 44% ottenuto in questa occasione è invece un risultato sorprendente, che misura l'ampiezza del consenso e che mette un'ipoteca pesante sulle elezioni nazionali del prossimo anno.
La disfatta per il partito di Brown attraversa tutta l'Inghilterra e il Galles. I laburisti perdono pure Reading, l'unica città che assieme a Londra era rimasta in loro controllo nel ricco Sud-est del paese e diverse città del Galles. In totale perdono 331 consiglieri nelle diverse assemblee locali. A dare il segno della profondità dell'avanzata dei conservatori è la loro penetrazione in una serie di collegi chiave che venivano ritenuti sicuri dai Labour in vista delle elezioni politiche. Ma il vero smacco è la perdita di Londra.
Mentre ieri sera si terminavano i conteggi per accertare il vincitore delle elezioni, nella capitale diventava sempre più chiaro che i risultati di Londra non si sarebbero discostati da quanto successo a livello nazionale. Pur essendo un eretico nel suo partito, Livingstone ha pagato in termini elettorali la sua appartenenza al Labour.
Contro di lui ha avuto pure un peso l'insofferenza dei cittadini londinesi per episodi di scarsa trasparenza nella sua amministrazione oltreché un desiderio di novità dopo otto anni consecutivi del politico old Labour alla guida della metropoli.
A trarne frutto è stato così il conversatore Boris Johnson. La sua campagna è riuscita in particolar modo a mobilitare gli abitanti della cosiddetta «ciambella» di Londra, la benestante zona suburbana che cinge la città, dove vivono elettori tradizionalmente conservatori. L'alta partecipazione in queste elezioni rispetto alle precedenti tornate - oltre il 45% degli elettori è andato alle urne - è stata particolarmente significativa nelle aree favorevoli a Johnson. I laburisti avevano sperato di salvarsi grazie alla massiccia affluenza in alcuni quartieri interni della città a loro tradizionalmente fedeli. Ma non c'è stato nulla da fare. Nonostante la paura per gli attacchi al multiculturalismo che potrebbe portare il nuovo sindaco, Johnson è riuscito a convincere un alto numero di elettori della sua affidabilità.
La vittoria di Johnson è dovuta alla sua insistenza sulla questione della sicurezza in una città, reduce da una serie di omicidi di ragazzini, con uno dei livelli di violenza tra i più alti d'Europa. In particolare ha fatto colpo la promessa di Johnson di sedere a capo della Metropolitan Police Authority che si occupa della sicurezza nella capitale. L'opinione pubblica ha inoltre introiettato le critiche lanciate a Livingstone che lo accusano di non esercitare pressioni sulla polizia.
Oltre ad aver cambiato la faccia delle amministrazioni locali di mezza Gran Bretagna, rendendo ancora più evidente il dominio dei conversatori a livello territoriale, l'importanza di queste elezioni risiede nel contraccolpo politico che avranno a livello nazionale.
Nonostante la batosta elettorale dentro il Labour nessuno osa mettere in dubbio la leadership di Brown. Ma dopo l'ultimo pasticcio parlamentare sull'eliminazione di sgravi fiscali per le famiglie più povere, mai come dopo queste elezioni il Labour appare un partito diviso che si rifiuta di seguire il comandante nella sua disfatta. La situazione è opposta per il raggiante David Cameron che dopo queste elezioni vede sempre più vicino il giorno in cui varcherà la porta di Downing Street. Il leader conservatore festeggia e prepara la strategia per le elezioni nazionali ma avverte che «non si possono vincere le elezioni passando sulla schiena di un governo moribondo».
Di sicuro questo risultato obbligherà Brown a quella riflessione sull'andamento del partito che negli ultimi tempi è stata proposta da diverse personalità di spicco. Dopo le voci degli ultimi giorni, secondo cui Tony Blair avrebbe dichiarato che Gordon Brown perderà alle elezioni contro Cameron, sono aumentate le preoccupazioni dei parlamentari che rischiano di perdere il posto. Ma al momento non sembra che Gordon Brown abbia la volontà di invertire quella disperata corsa verso il centro che ha offerto ai conversatori molti punti indifesi da attaccare nella campagna elettorale. Anche in queste elezioni locali Brown ha permesso a Cameron di presentarsi come paladino dei servii pubblici, dagli uffici postali minacciati di chiusura, degli ospedali pubblici a cui vengono diminuiti i fondi. Ma la principale responsabile della débâcle laburista è probabilmente la crisi economica che sta creando guai a molte famiglia inglesi. Dopo 10 anni di crescita continua in cui il Labour era riuscito a sedurre la classe media, ora le crepe del sistema economico creato in quel periodo si stanno abbattendo sopra il Labour e in particolare sull'ex cancelliere dello scacchiere, Gordon Brown.

giovedì 24 aprile 2008

A defeated Left tries to recompose

No communists, no socialists, no pacifists, no greens, no 'no global' activists. An entire array of old and new political identities, which marked different stages in the development of the Italian Left, have lost political representation, in the space of one election. The last time something comparable happened was at the beginning of Fascism, in 1924, when socialist and communist MPs withdrew in protests against elections marked by vote-rigging and violence.

Today, there is little doubt about the validity of the elections. Berlusconi is back thanks to a land-slide victory which stretches from the Mafia-stricken regions of the South to the hyper-industrialised North. The gap between his coalition and Veltroni’s Democratic party is nine per cent It is one of the clearest popular majorities Italy has ever witnessed during its republican history. This means Berlusconi will enjoy a greater legitimacy than he had on previous occasions. Thus he will have few obstacles in adopting a strategy of rupture with that shrinking half of the Italian public which continues to resist his seduction.

The only opposition parliamentary spokespersons to Berlusconi will be from Veltroni’s democratic party, an unsavoury alliance of post-communists and social catholics, whose political blueprint is based on the centrism of New Labour. Sinistra – L’arcobaleno, the coalition comprising Rifondazione Comunista, the Italian Communists and the Greens, has not convinced the electorate. Set up in a hurry, a few months before the elections, it has been seen as a “new party born old,” as asserted by Ginsborg in an interview recently with Red Pepper. The 3 per cent it obtained in the polls is less than a third of the votes gained by all the parties in this coalition in previous elections.

Berlusconi´s reactionary political menu

On the menu that awaits the Italian people, with the return of Mr. Silvio, are a revival of the illegal actions which marked his previous mandate, an assortment of attacks on the autonomy of the judicial branch, new laws to defend the interests of his enterprises and acolytes, and an easy going attitude with tax evaders and illegal construction. These policies will be accompanied by an even stronger attack on trade unions and the cooperative sector, which in Italy are still strong.

Next in line will be the repression of various territorial struggles which have emerged in recent years against engineering projects: from the No-Tav protesting against an high-speed train line in Piedmont, to the Vicenza’s No-base protests against the construction of a US military airport, and the Sicilian and Calabrese activists’ blocking of the construction of the Messina bridge, which Berlusconi hopes to erect as a perennial monument to his era.

Divided Left

One could easily predict that strong social conflict will ensue. However , the risk this time is that Berlusconi’s attack on constitution, social rights and the environment will only be opposed by a confused and fragmented opposition. Yes, leftist politicians having been kicked out of parliament will have no way to go but the streets. But this time they won’t find the immediate welcome of social movements.

The state of the Italian Left in the aftermath of the election is best described as a landscape marked by ruptures and distrust. Something which was hard to predict only a few years ago when a sense of common purpose united a broad and diverse coalition of forces. The series of struggles on global issues did indeed prove fertile terrain for the construction of networks and for the development of a strong dialogue between movements, civil society organisations and parties. This was clearly seen in the case of Rifondazione Comunista, which played a key role in translating struggles into a political strategy, heralding itself as the “party of movements”.

What remains of that period is perfectly exemplified by one moment in the electoral campaign: when an ice-cream was thrown at Caruso - a former member of the anti-globalisers Disobbedienti – while he was campaigning for Sinistra-Arcobaleno in Venice, by activists associated with Luca Casarini, the leader of North-Eastern Social Centers.

In 2001, on the streets of Genoa, the two charismatic leaders had been together in the padded-block of Disobbedienti, born out of an alliance between the Tute Bianche (White Overalls ‘Direct Action’ group) and the Giovani Comunisti (Youth section of Rifondazione). The split happened in 2006, when Caruso decided to run for elections with Rifondazione. His decision was met by waves of criticism among anti-globalisation activists, accusing him of abandoning the terrain of conflict to head for a comfortable seat in the lower chamber.

Fraught relationship between parties and movements

The fraught relation between institutional politics and movements, and the often predatory attitude of the former towards the latter underlies the division. From 2001 until 2005 the social centres in the North-East worked closely with allies in the institutions, with social centre activists taking over sections of the Green Party in the Triveneto region. Elsewhere local alliances of social centres linked up with Rifondazione, for example in Rome’s “Action – diritti” network led by Nunzio D’Erme.

It was thanks to these movement-party alliances that local elections in 2005 delivered a major victory to the center-left coalition and in particular to the radical left. In this context, Nichi Vendola, gay, catholic and communist and deeply involved in social struggles became elected against all odds in Apulia, traditionally a conservative region. This marked the peak of support for the institutional left amongst grassroots activists.

Critiques of Prodi´s government

The wind changed with the narrow victory of the Prodi-led center-left coalition L’Unione in the national elections in April 2006. The most left-leaning government Italy ever had - in terms of numbers of ministers from parties of the radical left - was seen as far too moderate, and soon became the target of deep criticisms from social movements. (for detail see interviews and articles in Hilary Wainwright’s A Left guide to the Italian elections)

These condemnations first focused on the government’s foreign policy, , where the withdrawal of Italian troops from Iraq was not accompanied by an abandonment of the “war on terror” or a withdrawal of Italian soldiers from Afghanistan. The government almost fell on this issue in a parliamentary vote, after a huge demonstration against the base in Vicenza. Radical MPs were forced to appeal to the fear of letting Berlusconi get back in. Nevertheless, as a result, they got ostracized from demonstrations.

Secondly, there has been widespread indignation for the lack of action on civil rights. The government has been reluctant in shielding off the attacks of the Church on abortion and has failed to approve a law for a “a solidarity civil pact” for unmarried couples.

Thirdly, there has been grave disappointment at the lack of action on wages, the problem of living costs, or the lack of welfare programmes for vulnerable workers. There were divisions between the industrialist position held by the old-left, who continue to consider flexible work as an anomaly to be eliminated, and activists who ask for new forms of welfare to support workers in precarious labour conditions. As a result, the government took no action, thus leaving many young people without any social rights, which has no comparison in other Western European countries.

The Italian Left’s future

So what´s next? In the weeks following the elections, some activists feel like they have sleepwalked into this new era of Berlusconi.. ttempts at rebuilding grassroots movements are already starting. Social centres’ groups will soon hold a meeting in Marghera near Venice to discuss the bases for a new alliance. Social and various politicised civil society networks who see the new rise of Berlusconi as a disgrace will also provide an important element for reconstructing the left. Finally, the experiences of progressive local government, such as the Vendola in Apulia or Massimo in the Marche region, and the cities that form part of the “Nuovo Municipio” network, all inspired by principles of participatory democracy, will provide bases from which to begin re-building a new identity for the Italian Left.

Nevertheless, the key issue and potential problem facing the Left will be how the question of democracy is dealt with both in movements and parties. The personalisation, machoism and media-oriented strategy which characterises the leadership of many grassroots movements has proved detrimental for the credibility of progressive alternatives. The time for self-styled spokespersons of the whole movement is over. Will the movement be able to break away from leader-obsessed politics?

A similar reflection needs to take place in both the Greens and Rifondazione. Many argue that the Green Party has been transformed into an accountable centre of power which has little to do with the original idea of a federation and has lost its values of transparency. The charges of corruption which have hit its leader, Alfonso Pecoraro Scanio, are just the most visible evidence of this situation. Also it will be important to see how the question of democracy will be dealt with inside Rifondazione which at the moment is torn by a fight over the future of the party and its relation to Arcobaleno between the once majority current led by Bertinotti and a new challenging current endorsed by Ferrero, Minister of Welfare. The party still has a network of branches across the country that no other left group enjoys. But will it be used for facilitating a recomposition of the Left or for tightening control of the grassroots?

The question of democracy which is central for imagining a different future for the Italian Left will also crucially entail a new discussion of the relationship between parties, social movements and civil society. The experience of collaboration with parties has proved highly disappointing for most activists. Nonetheless those experiences were the symptom of a felt need to translate self-managed alternatives into more stable collective goods for society. What might be learned from the defeat of this experience is thus the need for a greater autonomy and transparency in the relationship between movements and parties, rather than an outright end to all contact. In this context, the local arenas of struggle which have proved the most dynamic in recent years might provide a crucial space for developing clearer strategies and identities beyond the vague inclusiveness of the anti-globalisation era.

lunedì 21 aprile 2008

San Precario contro Carlo Magno

Londra - San Precario contro Carlo Magno. I giovani e i migranti del vecchio
continente contro la diarchia Merkel-Sarkozy. Il prossimo primo
maggio, nella sontuosa Rathaus di Acquisgrana, sede di incoronazioni
in epoca carolingia, il premier francese conferirà al cancelliere
tedesco il tradizionale premio Carlo Magno, dedicato al politico
europeista dell'anno. Ma per le strade della città d'arte tedesca, non
ci saranno celebrazioni per festeggiare l'"incoronazione" della
Merkel. A rovinare la festa ci penserà la protesta della Euromayday,
la rete continentale dei lavoratori precari e dei migranti, che
promette di portare tumulto ad Acquisgrana e in decine di altre città
europee che partecipano alla giornata di azione.
«Costretti a vivere nell'inferno del precariato metteremo a soqquadro
il paradiso delle élite dell'Unione europea» , avvisano i promotori.
Gli attivisti dell'Euromayday vedono nel premio Carlo Magno - che si
consegna il giorno dell'ascensione, quest'anno il primo di maggio - il
simbolo dell'Europa peggiore. Quella militarista, neoliberista e
clericale, che non si piega alle domande sociali che vengono dagli
strati più svantaggiati. «Rifiutiamo Carlo Magno come simbolo
dell'Europa e denuciamo il neoliberismo della commisione Barroso, il
militarismo di Solana e il monetarismo della Banca centrale di
Trichet», si legge nella chiamata per la giornata di protesta.
Contro l'Europa della burocrazia, degli eserciti e dei governi,
l'Euromayday si appella all'Europa del precariato, ai lavoratori a
tempo parziale, ai cococo e cocopro, ai disoccupati che vengono
emarginati dalle politiche sul lavoro e sulla sicurezza sociale. Ma
non solo.
«Ci rivolgiamo agli operai e alle operaie, delle fabbriche e dei
servizi, agli studenti, alle associazioni, ai centri sociali, alle
mille forme di resistenza e di autorganizzazione che ri-generano i
territori e le metropoli martoriati dal vampirismo neoliberista»,
dichiarano gli organizzatori. Il programma della protesta principale
prevede una manifestazione in mattinata davanti alla Rathaus contro
Merkel e Sarkozy. Da qui partirà nel pomeriggio la classica parade,
con soundsystem, scenografie e "supereroi del precariato quotidiano".
La giornata sarà chiusa da una festa di precari e migranti in un parco
cittadino.
Oltre alla manifestazione centrale ad Acquisgrana, la protesta contro
il precariato interesserà diverse città europee che hanno già aderito
all'iniziativa. Le piazze principali in giro per l'Europa quest'anno
saranno Berlino, Copenhagen, Amburgo, Helsinki, Lisbona, Malaga,
Maribor in Slovenia e Terrasa vicino a Barcellona. In Italia oltre a
Milano, ci saranno anche Napoli e Palermo. E quest' anno per la prima
volta ci sarà una Mayday precaria pure a Tokyo dove gli attivisti
giapponesi già si scaldano in vista della protesta contro il vertice
G8 che si terrà a Osaka dal 7 al 9 luglio.
Il 1 maggio ricreato
La storia della Mayday comincia a Milano nel 2001, quando gruppi di
attivisti mediatici e agitatori del sindacalismo precario e di base
decidono di rivitalizzare il primo maggio che ormai appare poco più di
una ricorrenza istituzionale, svuotata di significati politici. Negli
anni successivi è una crescita continua. Nel 2003, 50.000 persone
sfilano a Milano e la manifestazione raggiunge una dimensione
regionale, ma coinvolge pure studenti e precari romani. Nel 2004
Barcellona si mette al fianco di Milano: la Mayday diventa Euromayday.
Oltre 100.000 persone scendono in piazza. A Milano a ritrovarsi nella
lotta contro il precariato è il «popolo di Genova». Il primo maggio
precario diventa sempre più il primo maggio vero e proprio, oscurando
il rituale concerto di piazza San Giovanni.
Le reti no-global europee si accorgono presto dell'iniziativa.
L'occasione per ampliare il processo la offre «Beyond ESF»,
l'iniziativa parallela al Forum sociale europeo di Londra dell'ottobre
2004. In un assemblea alla Middlesex University si decide di creare
una rete Euromayday, che organizzi assemblee transnazionali, da
tenersi ogni volta in una città diversa. Incontri per decidere
strategie di azione comune. Non solo per organizzare il primo maggio
ma anche come processo di attivazione comune di migranti e precari.
Così nel 2005 la Euromayday raggiunge venti città, da Stoccolma a
Parigi, da Amsterdam a Siviglia. Nel 2006 la partecipazione cresce
ancora. A scendere in piazza sono oltre 300.000 persone, anche se in
meno città rispetto all'anno precedente. Oltre alle manifestazioni
decentrate l'euromayday lancia per la prima volta un'azione congiunta
a Bruxelles il venerdì di pasqua.
Si risale la china
E' un momento caldo per la questione precaria: la Sorbona, è occupata
contro la legge sul Cpe ("contratto di primo impiego") e la piazza
dell'università viene ribattezzata «piazza della precarietà». In
questi anni il problema del precariato viene connesso sempre più con
quello dei migranti, con la partecipazione delle reti no-borders alla
MayDay.
Il 2007 vede una flessione della manifestazione: meno partecipanti e
un calo di entusiasmo, anche per la mancanza di risposte politiche.
Ma quest'anno la giornata promette di risalire la china. Le proteste
contro il G8 a Rostock hanno visto sfilare un euromayday pink bloc,
che ha messo assieme diversi gruppi europei che hanno lottato contro
il precariato durante questi anni. Le assemblee transnazionali sono
riprese. E il ritorno di vitalità della manifestazione traspare anche
dal nuovo sito con filmati ironici sul problema dei precari che
arrivano da diversi angoli d'Europa, tra cui l'imperdibile «chiki
chiki precario». Così, mentre il problema del precariato continua a
incontrare orecchie sorde sia tra i politici di casa nostra che tra i
tecnocrati di Bruxelles, i precari continuano a fare affidamento
sull'unica arma che posseggono:la creatività. E quella che è la
risorsa più preziosa nell'era del capitalismo cognitivo, diventa uno
strumento di lotta contro le nuove forme di oppressione del lavoro.

domenica 23 marzo 2008

Boris Johnson il «buffone dei Tory»

«Votatemi perché sono un giornalista». Libertino in amore, libertario sulle droghe leggere, liberista in economia, ciclista appassionato. A creare scompiglio in questa campagna per il sindaco di Londra ci sta pensando lui, Boris Johnson, il «buffone conservatore», giornalista istrione dai lunghi capelli biondi, cresciuto tra Daily Telegraph e Spectator, sempre pronto a dire la sua su tutto e tutti alla faccia del 'politically correct'. Che si tratti degli abitanti della Papua Nuova Guinea definiti cannibali o delle comunità minoritarie di Londra tacciate di piangere su se stesse, su tutto il candidato conservatore sfodera un'arma portentosa: la sfacciataggine. E finora il suo stile sembra avere successo: ne gli ultimi sondaggi è avanti di ben 12 punti sul sindaco uscente, Ken Livingstone. I Tories, quasi estinti dopo l trionfi di Blair sono riusciti a rimontare e oggi con Johnson puntano sul voto di Londra il 1 maggio come primo test di sfida. Gli altri candidati sono Sian Berry del Green Party e Brian Paddick per i Liberal Democrats; più i minori: Gerard Batten dell'Uk independence party, Lindsey German di Respect, Richard Barnbrook del fascista British National Party.
Mentre le elezioni che potrebbero segnare l'uscita del politico «old labour» dalla City Hall si avvicinano, la vita della capitale è ritmata dagli eventi della campagna: partecipazioni incrociate a inaugurazioni, dibattiti e comizi in giro per la città, battute e risposte che rimbalzano sui media. Lo stile delle due campagne rispecchia il carattere dei duellanti. Ai comizi di Ken Livingstone tante persone mobilitate da militanti ben organizzati e le comunità etniche su cui il sindaco ha investito molto in questi anni. Ad accogliere l'arrivo di Boris nei quartieri londinesi invece piccoli gruppi di conservatori locali e di fan.
Ma non è sul faccia a faccia che si giocheranno le sorti del voto. E Boris lo sa bene. Il suo punto di forza è l'impatto mediatico che si porta dietro grazie a una fama da mattatore tv sperimentato in trasmissioni popolari come «Have I got news for you?» e Top Gear. Cacciato da ministro ombra alla cultura per una scappatella e coinvolto in una serie di fatti poco edificanti come la falsificazione di articoli e il tentativo di pestaggio di un giornalista, Boris gioca sull'autoironia e sulla fiducia conquistata nel pubblico televisivo,usando anche le proprie magagne per costruirsi un'aura di trasparenza.
Ken ribatte a questa campagna mediatica cercando di ricordare che le elezioni del sindaco non sono il grande fratello, riecheggiando il tormentone diffuso dalla stampa inglese sulla possibilità di eleggere i candidati attraverso una telefonata a pagamento come avviene per i partecipanti dei reality show. In questo modo un Livingstone un po' arrugginito cerca di far valere la propria esperienza contro la sfacciataggine dell'avversario - «per carità è simpaticissimo, mi farebbe piacere averlo come vicino di casa, ma se viene eletto come sindaco sarà un vero disastro». Per tutta risposta Boris Johnson ha cambiato stile, evitando le battute ironiche dei suoi primi interventi e cercando di darsi un tono serio che ha stupito i suoi fan più accaniti.
Così in queste ultime settimane l'attenzione si sta spostando dai personaggi ai temi. Il trasporto e l'ambiente prima di tutto. Boris Johnson ha accusato il sistema di trasporti della città di fare acqua da tutte le parti e ha lanciato invettive contro i bus snodati, accusati di bloccarsi agli incroci e intasare il traffico, invocando un ritorno ai tradizionali bus a due piani, purchè ecologici. Il candidato conservatore ha anche giocato sul fatto di essere un ciclista appassionato per presentarsi sotto vesti ecologiste, coerentemente al re-branding del suo partito che ha pure cambiato il proprio simbolo dalla tradizionale torcia all'albero e ha adottato lo slogan «Vote blue, go green».
Per rispondere a questa offensiva su uno dei suoi temi forti, cinque giorni fa Ken ha siglato un patto con il candidato verde Sean Berry, che ha invitato i suoi elettori a scegliere Ken Livingstone come seconda preferenza. In questa occasione il sindaco in carica ha invitato anche gli elettori degli altri partiti a sceglierlo «come seconda preferenza per evitare una vittoria dei conservatori». E forse proprio questo meccanismo si potrebbe rivelare una ciambella di salvataggio per Livingstone, perché se il carisma di Johnson è stato finora efficace nel creare un'onda di supporter, il candidato conservatore rimane ancora lontano dal convincere la maggioranza dell'elettorato sulla propria affidabilità.

venerdì 25 gennaio 2008

Brown rilancia la guerra al terrorismo, e ai diritti civili

Il governo Brown rispolvera l'ascia della guerra al terrore. Il decreto legge contro il terrorismo presentato dal ministro dell'interno Jacqui Smith prevede un'estensione da 28 a 42 giorni per il fermo di polizia ai sospettati di terrorismo e pene fino a 10 anni per chi pubblica informazioni che mettano a rischio le forze di polizia o l'esercito. Un'ulteriore stretta sulla sicurezza che, capitalizzando sulle paure dell'opinione pubblica, cerca al contempo di far dimenticare lo stato traballante dell'economia e gli scandali di corruzione che continuano ad infangare la reputazione del New Labour.
Ma il provvedimento rischia di costare a Brown la prima sconfitta in parlamento dopo appena 6 mesi di governo, con l'ala di sinistra del partito in tumulto e Liberaldemocratici e conservatori a fare fronte unito contro una proposta considerata ingiustificata.
Per sostenere la necessità di un' ulteriore limitazione ai diritti civili il ministro Smith ha agitato lo spauracchio di una nuova campagna terroristica sostenendo che il livello di allerta è ai massimi livelli dagli ultimi anni. Il sottosegretario Tony McNulty le ha fatto sponda paventando che presto un attacco pari «a 2 o 3 11 settembre» possa colpire presto il Regno Unito. Eppure il governo appare isolato in questo grido d'allarme. Il Labour è spaccato lungo la stessa linea di frattura che si è aperta contro la guerra. Trentatre parlamentari laburisti hanno dichiarato che voteranno contro. E a niente è servito l'invito del ministro dell'interno a un sostegno bipartisan. Liberaldemocratici e Conservatori continuano a opporsi al provvedimento che considerano inutile e pericoloso. Così a Brown mancherebbe almeno un voto per far passare il disegno di legge.
Il governo rischia di inciampare sullo stesso fronte che aveva inflitto a Tony Blair l'unica sconfitta parlamentare in 10 anni come premier. Era il novembre 2005 e a quattro mesi di distanza dagli attacchi contro la rete di trasporti della capitale Blair aveva chiesto al parlamento di estendere il fermo fino a 90 giorni. Il disegno di legge fu respinto, ma passò un emendamento che prevedeva un' estensione fino a 28 giorni, rispetto ai 14 previsti nelle fasi iniziali della guerra al terrore. Come allora, anche oggi si sono sollevate le proteste di diverse organizzazioni della società civile che non vedono motivi per inasprire le misure di repressione e anzi vorrebbero un ritorno ai 7 giorni di fermo che vigevano prima dell'attacco alle torri gemelle. Kate Allen di Amnesty International ha accusato il governo di attuare una strategia persecutoria in cui il fermo per i sospettati si trasforma «in una punizione ancor prima che venga celebrato il processo» e ha sostenuto che a forza di sospendere a tempo indeterminato i diritti dei cittadini il governo sta erodendo il sistema di garanzie.
Il disegno di legge è infatti solo l'ultimo di una serie di provvedimenti che hanno creato allarme sulla deriva autoritaria del governo Labour, che sta pensando di estendere il divieto di protesta attorno al parlamento. Inoltre nonostante i forti dubbi avanzati anche dentro al Labour, Gordon Brown vuole procedere all'istituzione delle carte di identità, cosa mai vista nel Regno Unito e che molti sudditi di sua maestà considerano una pericolosa intrusione nella vita dei cittadini. Ma nonostante i dissensi l'esecutivo tira dritto cercando di rafforzare la propria immagine di «duro» sulla questione terrorismo, per mettere in imbarazzo il partito conservatore sulla questione, alla prossima campagna elettorale.

giovedì 24 gennaio 2008

«Bobbies» in piazza a Londra. Dopo 90 anni

La scena che si è svolta ieri a Londra ha un che di surreale. La polizia a manifestare per le strade senza divisa. Ai lati del corteo invece della polizia anti-sommossa gruppi sparsi di manifestanti che lanciano fischi e insulti agli agenti. E per una volta le stime ufficiali sul numero di manifestanti sono più alte di quelle degli organizzatori: secondo la Metropolitan Police che ha gestito l'ordine pubblico 22.000 agenti avrebbero smesso la divisa per un giorno per protestare contro il governo. Al centro della contesa c'è il tentativo del governo di Gordon Brown di limitare gli aumenti salariali all'1,9% contro il 2,5% chiesto dalla Police Federation che rappresenta 150.000 agenti tra Inghilterra e Galles. Di fronte al diniego del governo l'organizzione ha invitato i propri aderenti a scendere in piazza: un evento storico.
Erano 90 anni che la polizia inglese non protestava nella capitale britannica. L'ultima volta fu nel lontano 1918 e l'eccezionale avvenimento fece evocare alla suffragetta Sylvia Pankhurst lo «spirito di Pietroburgo», mentre il Guardian accusava i manifestanti di esseri «sbirri bolscevichi». Ma del «potenziale rivoluzionario» della polizia - se è mai esistito - è rimasto ben poco. Dal 1996 per statuto la Police Federation vieta ai propri membri di scioperare. Ma l'organizzazione - qualcosa di simile a un sindacato - ora agita lo spettro dello sciopero e di un collasso dell'ordine pubblico contro un Gordon Brown che con la scusa di limitare l'inflazione non vuole sborsare un penny in più di quanto previsto dall'ultima finanziaria.
Così ieri è andata in scena il primo episodio di una contesa che rischia di sfiancare ulteriormente i consensi del governo laburista. Ma se non fosse stato per i cappellini bianchi che ricordavano più un incontro religioso che una manifestazione sindacale si sarebbe fatto fatica a capire che le persone che uscivano dalla metro e dai bus vicino a Marble Arch erano agenti nei panni inediti di manifestanti. Nessuno slogan, una decina di cartelli con la richiesta di «uno stipendio giusto», sguardi smarriti come in attesa di ordini. A riscaldare gli animi ci hanno pensato gli di anarchici del gruppo Class War che all'inizio del corteo hanno srotolato uno striscione e urlato «zecche» alla polizia. «Siamo qui per controllare che gli agenti non creino disordine», ha urlato ironicamente uno dei ragazzi. I manifestanti hanno risposto con smorfie e ingiurie prima che intervenissero i colleghi in divisa. Una ragazza è stata arrestata per aver cercato di fermarsi di fronte alla testa della marcia e altri sono stati trattenuti. In ogni caso la polizia ha cercato di mantenere un basso profilo con i contro-manifestanti, per evitare che la storia del giorno diventassero le contro-dimostrazioni. Quando alla fine della dimostrazione i poliziotti sono arrivati a Parliament Square sono stati accolti da un altro gruppo di contestatori, gli «anarchitetti» del gruppo artistico «Space hijackers», che hanno invitato i poliziotti a prendere lezioni su come organizzare una manifestazione e hanno ridicolizzato la richiesta di aumento salariale reclamando una paga giusta anche per gli eco-attivisti che «difendono la vita ma senza usare il manganello».
Dopo la manifestazione alcuni rappresentanti della Police Federation hanno dato vita a un'assemblea dentro la House of Commons. Il presidente dell'organizzazione Jan Berry ha accusato il ministro dell'interno Jacqui Smith di «mancanza totale di rispetto per le forze di polizia». E' uno schiaffo pesante per la Smith che è finita recentemente nel mirino dei media quando la settimana scorsa quando dopo aver mangiato un Kebab nel quartiere di Peckham noto alle cronache per omicidi e accoltellamenti ha dichiarato - «non mi sentirei sicura a camminare da sola per strada». L'impressione di un governo debole sul fronte dell'ordine pubblico si aggiunge alla lista di preoccupazioni che affligono il governo di Gordon Brown che esce da una serie di scandali e sta cercando di fronteggiare una recessione ormai incalzante dopo il lunedì nero della borsa a inizio settimana.