mercoledì 16 dicembre 2009

Centinaia di arresti, preso il leader della protesta Assalto a Christiania alla vigilia della marcia

COPENHAGEN - Li hanno presi lunedì notte sul selciato di Christiana, come venerdì, sabato e domenica sull’asfalto di Norrebro, Amagerbro e Osterport, i quartieri di Copenhagen che sono diventati il teatro delle proteste contro la conferenza Onu sul clima. Circondati, immobilizzati, ammanettati, messi in file ordinate sull’asfalto, tenuti seduti al freddo per ore, e poi caricati su bus e furgoni, per finire nelle gabbie di un ex deposito della Tuborg trasformato in carcere politico temporaneo. Alla vigilia della grande protesta «Reclaim the power», che questa mattina cercherà di fare breccia nell’apparato di sicurezza del Bella Center dove si svolge il summit per dare vita a un’«assemblea popolare sul clima», Copenhagen sembra un buco nero della democrazia.

Battuto ogni record di arresti in Europa negli ultimi decenni: 968 sabato, 200 domenica, 212 ieri notte, una decina ieri. Quasi tutti, senza accuse, rilasciati entro 12 ore,ma alcune persone sono finite in carcere pure due o tre volte. «Danimarca fuori dall´Unione Europea per i diritti umani» - ha denunciato L’Ong danese Krim, mentre Amnesty ha condannato il comportamento delle forze dell’ordine. i partiti di opposizione hanno chiesto che la legge che permette gli arresti preventivi, inasprita poche settimane fa, venga eliminata, perché il governo aveva promesso che sarebbe stata utilizzata solo in caso di emergenza. «Stiamo garantendo il diritto di protesta» ha dichiarato il portavoce della polizia Johnny Lundberg. «Avendo visto quello che è successo a Seattle e aGenova abbiamo deciso che questo era il modo per garantire una conferenza tranquilla». A coronare la campagna repressiva, ieri la polizia ha arrestato Tadzio Muller, tedesco, 33 anni, una delle figure di punta di Climate Justice Action, coalizione che va da attivisti anarchici ed autonomi fino a Friends of the Earth e Via Campesina. Se lo sono portato via tre agenti in borghese mentre verso le 3 abbandonava il Bella Center dove si era tenuta una conferenza stampa della coalizione di protesta. Istigazione di reato e resistenza a pubblico ufficiale le accuse mossegli.

A seguire nel pomeriggio sono stati condotti arresti al Klimaforum, il controvertice della società civile ed è stato perquisito il centro sociale Bolsjefabriken, dove sono alloggiatimolti attivisti internazionali. Lunedì notte invece la polizia aveva attaccato il «libero villaggio» di Christiania (occupato da una comunità hippie nel 1971) con centinaia di agenti, mentre era in corso una festa degli attivisti di Climate Justice Action. All’arrivo della polizia è partito un lancio di bottiglie e bombe carta, e barricate sono state innalzate alle diverse entrate. La polizia ha sparato diversi lacrimogeni ed è poi entrata in forze, arrestando 212 persone di cui solo sette trattenute oltre le 12 ore. «Stavamo bevendo una birra quando di colpo ci siamo ritrovati di fronte decine di agenti che urlavano, brandivano i manganelli e aizzavano i cani» spiega Laura, 31 anni di Roma. «Alcune ragazze sono andate in crisi di panico. Ci hanno ammanettato con lacci di plastica stretti sul polso, e ci hanno tenuto per terra al freddo per quasi due ore prima di portarci via». Sono decine gli italiani che sono finiti in carcere in seguito all’operazione, tutti rilasciati nella mattinata, fatta eccezione per Luca Tornatore, astrofisico che lavora all’osservatorio di Trieste ed è attivo al centro sociale Casa della cultura, accusato di «istigazione di reato».

«In tanti anni di proteste in giro per l’Europa non ho mai visto niente del genere» racconta Gianmarco De Pieri, attivista bolognese dell’area ex-disobbediente, «questa è una repressione preventiva e collettiva. L’obiettivo è chiudere ogni spazio a chi contesta la conferenza sul clima». «Spaventa vedere il proprio paese scivolare verso il fascismo» riflette Rune, 34 anni, che vive vicino a Christiania. «È una specie di fascismo dolce. La polizia ti arresta in maniera gentile. Main tanto ti impediscono di protestare » spiega Bernat un’attivista catalano che è stato arrestato con quattro amici ad Amagerbro, sabato scorso. «Non pensavo queste cose succedessero in Scandinavia». Nonostante l’attacco della polizia, la protesta di oggi va avanti, assicurano gli attivisti di Climate Justice Action. Gli attivisti si riuniranno attorno alle 8 dimattina alle stazioni di Tarnby e Orestad, per poi muoversi verso il Bella Center, dove vogliono tenere un’assemblea alternativa a quella ufficiale dove discutere «le soluzioni vere al cambiamento climatico, e non quelle propinate dalle multinazionali». Per Nick Thorpe uno dei portavoce di CJA, coalizione finita dentro la morsa delle forze dell’ordine. «Il comportamento degli ultimi giorni e l’arresto di Tadzio Mullermostrano il livello di disperazione della polizia e del governo, che vogliono soffocare il dissenso proprio mentre il negoziato ufficiale si sta avviando al fallimento».

domenica 13 dicembre 2009

Effetto terra a Copenhagen

Più di centomila, tra ecologisti e no global, invadono la capitale danese per chiedere alla Conferenza internazionale sul clima impegni precisi e urgenti contro le emissioni inquinanti. Centinaia di arresti in una città blindata e pugno duro della polizia. Cortei in tutto il mondo
Pugno duro della polizia con centinaia di arrestati alla prima protesta contro la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Centinaia di persone, 400 o 700 in base a informazioni fornite da polizia e organizzatori della protesta sono stati circondate, ammanettate e caricate su furgoni e pullman dalle forze dell'ordine danesi, che hanno approfittato di alcune scaramucce con la parte più militante della manifestazione per isolare la coda del corteo in cui si trovava il «blocco nero». La polizia ha utilizzato in modo massiccio, il diritto all'arresto preventivo, con la possibilità di fermi della durata di 12 ore, di recente approvato dal parlamento.
L'atteggiamento repressivo della polizia si è abbattuto su una manifestazione festosa e pacifica e che ha visto sfilare oltre 100.000 persone, appartenenti a più di 500 organizzazioni, venute a Copenhagen per protestare contro le élite politiche ed economiche del pianeta che continuano impedire la ricerca di una soluzione al riscaldamento globale.
Il corteo diretto al Bella Center, dove si tiene la conferenza delle Nazioni unite, è partito alle due dalla piazza di fronte al parlamento dove nella mattinata sostenitori di Friends of the Earth avevano inscenato un nuovo diluvio di Noé, per denunciare il rischio dall'innalzamento del livello dei mari, e l'aumento di uragani ed alluvioni scatenato dall'aumento della temperatura.
In testa al corteo si sono schierate le organizzazioni moderate, parte del cartello Tck Tck Tck. Dietro, partiti socialisti ed ecologisti, gli attivisti della coalizione Climate Justice Action, e i fazzoletti verdi di Via Campesina. A chiudere l'imponente serpentone umano, i gruppi più militanti del movimento, tra cui black bloc, con sciarpe e maschere a coprire il viso dal vento e dallo sguardo indiscreto delle telecamere della polizia.
Tra i manifestanti scesi ieri in piazza tante facce note del movimento no-global, tra cui Naomi Klein, che nelle settimane scorse aveva definito Copenhagen una nuova Seattle. Al loro fianco nuove leve di ventenni radicalizzatisi di fronte all'emergenza climatica, insieme a nuove sigle, nuove bandiere e nuovi slogan, del movimento globale sul clima, che vede la conferenza come una tappa decisiva nella lotta contro l'effetto serra.
I cartelli branditi dai manifestanti chiedono «giustizia climatica», «pianeta, non profitti», ed avvertono che non c'e' un pianeta di riserva in caso quello che abbiamo a disposizione finisca arrosto a causa di emissioni senza freno. Attivisti vestiti da pinguini, e orsi polari scongiurano di fermare lo scioglimento dei ghiacciai, mentre ragazzi hippie che brandiscono porri quasi fossero «armi improprie», gridano che il consumo di carne è una delle principali cause dell'effetto serra. Poco dietro tante giovani famiglie danesi giunte con passeggini e biciclette e preoccupate per la sorte dei figli in un paese che può finire sott'acqua con l'innalzamento del livello dei mari.
Lasse, 37 anni, porta a spalle suo figlio di 3 anni - «Mi piacerebbe che crescesse in un mondo in cui si potranno ancora vedere i fiocchi di neve». Ingrid, 26 anni di Parigi, porta al collo un salvagente di cartone, colorato di bianco e rosso che reca la scritta «il cambiamento climatico uccide». «I governi devono adottare politiche stringenti sulla questione del clima" - afferma . «Non bisogna cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema che ha causato il cambiamento climatico». Nella dimostrazione anche centinaia di italiani giunti da Torino, Milano, Bologna, Venezia, Roma, Napoli.
Scontri tra manifestanti e polizia esplodono quando la marcia passa presso Christiania, luogo occupato dal 1971, e simbolo della scena anarco-autonoma danese. Il blocco nero lancia un paio di bombe carta agli agenti e poi si dilegua per una strada laterale, seguito dai furgoni della polizia. Più di un centinaio di persone vengono circondate e detenute.
Circa un'ora piu tardi nuove scaramucce tra Black Bloc e polizia si verificano per le strade del quartiere di Amagerbro a metà strada tra il centro e il Bella Center. La polizia decide di fare fuori la coda del corteo, circonda ed ammanetta oltre duecento attivisti, che vengono tenuti per ore sull'asfalto ghiacciato prima di essere prelevati e portati in prigione. Nonostante il comportamento della polizia il grosso della manifestazione riesce ad arrivare senza incidenti di fronte al Bella Center.
Gli arresti di ieri sono un nuovo sintomo della preoccupazione della polizia danese che pur avendo concentrato quasi la metà delle forze dell'ordine nella capitale ha paura che la situazione le sfugga di mano. Alla vigilia della protesta di ieri, 78 manifestanti erano stati arrestati dopo una piccola dimostrazone pacifica tenuta nel quartiere di Norrebro. Tra loro 8 italiani, di cui 7 sono rilasciati dopo poche ore, mentre l'attivista veneziano Tommaso Cacciari è stato rilasciato solo nella mattinata di ieri dopo l'udienza di convalida. Per Luca Casarini che ha partecipato alla manifestazione assieme ad un contingente di 200 attivisti venuti da Bologna e dal Veneto - «questo caso è la dimostrazione di che cos'è il diritto di protesta nell'algida democrazia danese».
Dopo gli arresti di ieri, ora i riflettori sono tutti puntati sulla manifestazione Reclaim the Power, prevista mercoledì prossimo.Gli attivisti di Climate Justice Action, promettono di invadere il Bella center, per dare vita ad un'assemblea popolare sul cambiamento climatico. Ma vista la strategia mostrata ieri dalla polizia, è probabile che le forze dell'ordine cercheranno di disperdere la manifestazione molto prima che si avvicini al centro conferenze.

mercoledì 9 dicembre 2009

Il grido del Controforum: «I paesi ricchi devono pagare»

COPENHAGEN - Sono i paesi ricchi che hanno provocato il cambiamento climatico bruciando in pochi decenni buona parte delle riserve di combustibili fossili che si erano accumulate in decine di migliaia di anni. Ora sono loro che devono coprire i danni causati da questo comportamento irresponsabile, e dalle conseguenze del riscaldamento globale che rischia di rendere inabitabili ampie zone del pianeta. Questo il messaggio lanciato ieri dal palco del Klimaforum, la contro-conferenza messa in piedi dalle organizzazioni della società civile globale in occasione della conferenza Cop15 dell'Onu sul cambiamento climatico in corso a Copenhagen. In occasione dell'atteso dibattito sul «debito ecologico» svoltosi nel pomeriggio, rappresentanti di organizzazioni indigene e movimenti popolari del sud del mondo come Via Campensina e Jubilee South, hanno lanciato la proposta di un tribunale popolare per la «giustizia climatica» affinché i paesi ricchi paghino per i danni causati all'ecosistema.

«Nei paesi del terzo mondo, la gente ha poca responsabilità per quello che sta succedendo all'ecosistema. Eppure le conseguenze più gravi dell'effetto serra saranno avvertite soprattutto dagli abitanti del sud globale, a cui viene reso impossibile uscire dalla loro condizione di povertà», ha dichiarato l'attivista indonesiano Yuyun Harmono di fronte a oltre quattrocento persone venute a seguire l'evento. «Il cambiamento climatico non è un problema a sé. Non è nient'altro che l'ultimo capitolo di una lunga storia di ingiustizie, fatta di colonizzazione e depredamento delle risorse naturali da parte del Nord del mondo a scapito dei paesi del terzo mondo. Ora tocca ai paesi ricchi tagliare le emissioni e trovare i soldi per aiutare i paesi più poveri».

Per Percy Makombe, membro di Via Campensina venuto a Copenhagen dal Mali, il comportamento sconsiderato dei paesi industrializzati sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza di molte comunità rurali nell'Africa sub-sahariana. «Ogni anno vediamo il deserto che avanza, e la stagione delle pioggie che tarda ad arrivare. Abbiamo bisogno di agire in fretta per evitare la catastrofe. Eppure i potenti del pianeta non sembrano avvertire questo senso di urgenza».

In una giornata segnata dall'indignazione seguita alla rivelazione di una bozza di documento finale per la conferenza Onu sul clima preparato dai padroni di casa danesi, e completamente piegata sulle richieste dei paesi più ricchi, gli interventi sul palco del Klimaforum hanno affermato che nessun accordo è possibile se i paesi che hanno inquinato il pianeta non si assumeranno le proprie responsabilità.

«Qui la questione è decidere se vogliamo salvare la madre terra o se vogliamo andare avanti con il sistema capitalistico basato su un consumismo distruttivo», ha affermato Elyzabeth Peredo, della delegazione boliviana a Copenhagen. «Il compito che spetta al movimento per la giustizia climatica è costruire un paradigma differente rispetto a questo sistema suicida».

Il dibattito sulla questione del debito ecologico è uno dei 190 eventi ospitati dalla contro-conferenza. L'obiettivo è fare incontrare attivisti, contadini, pescatori, lavoratori, scienziati e le popolazioni colpite dall'effetto serra, per costruire un dibattito comune sull'emergenza clima e discutere le alternative economiche e sociali necessarie per costruire un futuro sostenibile.

Nonostante la diversità ideologica dei gruppi che partecipano al Klimaforum, tutti sono d'accordo nel rifiutare quanto viene proposto dai paesi più ricchi, in particolare il meccanismo della borsa delle emissioni di anidride carbonica. «Usare il mercato per risolvere l'emergenza clima è una follia», dice Ivonne Yanez, rappresentante di Oilwatch Americas, organizzazione che denuncia il depredamento delle risorse petrolifere nel continente americano. «L'ambiente è un bene comune a cui tutti hanno diritto, non una discarica dove si può pagare se si vuole inquinare di più».

martedì 1 dicembre 2009

Il verde e il no global: sul clima un nuovo movimento - intervista con Michael hardt

Dieci anni dopo le grandi proteste contro la riunione dell'Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, un nuovo movimento globale potrebbe nascere sulle strade gelate di Copenhagen, dove tra 6 giorni comincerà una conferenza Onu sul clima che sarà assediata da decine di migliaia di manifestanti. Reduce dalla recente pubblicazione di Commonwealth, libro che completa la trilogia di Impero e Moltitudine, scritta a quattro mani con Toni Negri, e che parla della necessità di costruire nuove istituzioni per gestire i beni comuni, Michael Hardt guarda con fiducia a una mobilitazione che, secondo l'autrice no-global Naomi Klein, segna il passaggio all'età adulta del movimento anti-globalizzazione. Tuttavia non nasconde le difficoltà che la questione del cambiamento climatico pone alla sinistra anticapitalista. «Bisogna trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche di benessere per tutti e i limiti delle risorse naturali. E non si tratta di un compito facile».

Pensi che il movimento che si sta organizzando per Copenhagen sia una continuazione del movimento no-global?
Il ciclo cominciato a Seattle e continuato a Goteborg, Praga e poi Genova, che era caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di gruppi e di conflitti è terminato con l'inizio della guerra contro l'Iraq e l'Afghanistan. Copenhagen è qualcosa di nuovo in cui, penso, si vedranno alcune delle qualità che hanno caratterizzato il movimento contro la globalizzazione neoliberista, tra cui la presenza di forme di organizzazione orizzontale. Però, al momento, non è ancora chiaro se si tratta dell'apertura di un ciclo di dimensione simile a quello «no-global».
Questa volta, le proteste prendono di mira una conferenza che sulla carta punta a salvare l'ecosistema piuttosto che a fare del mondo un grande mercato comune
Diverso è anche l'atteggiamento dei movimenti. A Seattle eravamo contro il capitale globale e bisognava bloccare a tutti i costi quella riunione. In questo caso invece ci confrontiamo con un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere e su cui si deve prendere una decisione, ma la si deve prendere in maniera autentica e giusta.

Dall'antagonismo del ciclo no-global a un orientamento più riformista?
Non penso che le due cose si escludano. È vero che è urgente riformare l'economia globale e il rapporto con l'ambiente, perché le riforme sono necessarie e quelle proposte finora sono insufficienti. Ma in questo ambito non vedo una incompatibilità tra riforme e antagonismo. E neppure capisco chi storce il naso se uno chiede riforme sul clima anche a livello statale, e poi vuole costruire una politica radicalmente diversa che guardi oltre lo stato e oltre il mercato.

Qual è secondo te la principale differenza tra gli attivisti che andranno a Copenhagen e quelli che manifestarono a Seattle?
Mi sembra che la gente che si sta mobilitando per Copenhagen sia di due tipi diversi. Da un lato ci sono gruppi anticapitalisti come quelli che andarono a Seattle, dall'altro ci sono gruppi ecologisti. Entrambi questi fronti fanno riferimento a un'idea del bene comune, ma per altri versi sono ancora distanti. Nelle lotte anticapitaliste c'è l'idea dell'illimitatezza dei beni comuni. Invece nel movimento ecologista c'è una coscienza del limite. E in verità la terra, l'acqua, l'ambiente pongono dei limiti. È un conflitto interessante, che non può essere risolto a tavolino dagli intellettuali ma dev'essere risolto all'interno del movimento.

In alcune parti della sinistra anticapitalista sembra esserci una certa allergia verso un modo di affrontare la questione del cambiamento climatico considerato regressivo, perché cozza contro le richieste di benessere e si sposa invece con l'austerità.
È un istinto giusto quello di non fidarsi di coloro che insistono sull'austerità. Tuttavia, sono convinto che in questo ambito bisogna confrontarsi una buona volta sulla questione dei limiti. Questo non vuol dire che bisogna lasciar perdere la nostra battaglia per il benessere per tutti, il «vogliamo tutto» di Balestrini. Ma bisogna pure trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche e i limiti delle risorse naturali. Sono convinto che sia possibile tenere insieme l'illimitata creatività sociale umana e i limiti delle risorse naturali.

Spesso nel dibattito sul cambiamento climatico sentiamo riferimenti all'idea di «dovere»: dovere verso le generazioni future, dovere verso il terzo mondo, o dovere verso il pianeta. Sono discorsi che sembrano fare a pugni con quel concetto di desiderio che sta al centro del filone filosofico su cui tu e Toni Negri avete lavorato. Non è urgente recuperare a sinistra un'idea di dovere?
All'interno della sinistra anticapitalista il rifiuto del concetto di «dovere» viene da una diffidenza verso l'autorità e quindi dal rifiuto dell'autorità del padrone o del partito. Il dovere nel senso di contratto sociale dovrebbe essere distinto dal dovere come «responsabilità» verso la natura ad esempio. Sicuramente confrontare i limiti del desiderio è un compito molto alto. Purtroppo non è un compito facile.

In questi ultimi anni si è parlato molto di decrescita, e questo è un filone di discussione che acquista nuova forza alla luce dell'emergenza clima. Pensi che sia una proposta utile?
Io penso che il discorso che si è sviluppato attorno al concetto di decrescita sconti due grossi equivoci. Prima di tutto bisogna chiarire cosa si intende per crescita, se si intende quella della grande industrializzazione, della produzione di merce materiale, oppure se si intende la crescita di conoscenze, immagini e codici. Questo è un tipo di crescita che secondo me è illimitata e che non produce necessariamente danni all'ecosistema. L'altro equivoco è che non si fa differenza tra mondo dominante e mondi subordinati. Prova a dire in un foro sociale mondiale ai sindacalisti indiani e indonesiani che non devono crescere e quelli ti mandano a quel paese. E a ragione. Perché la questione della crescita è una questione che si pone in maniera diversa per diverse economie. In ogni caso, credo che l'idea di decrescita sia parte di una discussione che è necessario fare e sono felice che nell'avvicinamento a Copenhagen si stia sviluppando un dibattito intenso attorno a questa ed altre questioni.

Che connessione c'è tra crisi finanziaria e crisi climatica? È il cambiamento climatico il sintomo che l'esaurimento delle risorse naturali sta inverando la caduta tendenziale del tasso di profitto prevista da Marx?
Sicuramente c'è un nesso tra la scarsità delle risorse e la difficoltà del capitale globale, ma non mi sembra convincente vedere il motivo principale della crisi economica attuale nei problemi ecologici come fanno alcuni. Di certo, entrambe queste crisi vedono sia il capitale che i governi nazionali in difficoltà, perché i problemi in campo sembrano al di fuori della loro portata e della loro capacità di azione.

Il neoliberismo dato più volte per morto non vuole saperne di tirare le cuoia, mentre non sembra esserci un'alternativa coerente capace di scalzarlo. In un'era segnata dal cambiamento climatico il pensiero ecologista può costituire la base per una tale alternativa? È il verde il nuovo rosso?
È vero che nessuna alternativa al momento è in grado di sostituire il neoliberismo. D'altro canto, ciò che esiste al momento è una sorta di ideologia keynesiana-socialista, che è però di fatto un altro morto che cammina. Io non sono convinto che il conflitto ecologista offra una nuova alternativa teorica, né che il verde sia il nuovo rosso. Credo piuttosto che la questione del cambiamento climatico sia un campo di battaglia dove sviluppare una nuova forma di governo dell'economia alternativa al capitalismo.

mercoledì 11 novembre 2009

Il «fondo finanziario» in fondo allo scantinato

Numero 27 di Holywell Row, strada breve e stretta, a mezzo miglio dalla City di Londra nei pressi di Old Street. Paesaggio urbano decadente ma alla moda, vecchi magazzini e palazzi commerciali trasformati in abitazioni, uffici, «studios» per designer e artisti, a pochi passi dai club della movida londinese di Shoreditch. La sede della Restform, uno dei due fondi di investimento che controllano Omega, impresa che ha acquisito il ramo information technology di Eutelia è all'angolo, in un modesto palazzo a tre piani. All'entrata una porticina blu e quattro nomi sul citofono. Non esattamente quello che ci si attende dalla sede legale di un fondo finanziario che controlla imprese con migliaia di lavoratori e beni ingenti.
Il manifesto è andato a fare visita alla Restform, fondo di investimento inglese che insieme ad Anglo Corporate, controlla Omega. Ma non l'ha trovata. In compenso allo stesso indirizzo ha scovato la Ashcroft Cameron, piccola impresa specializzata nella registrazione di compagnie, che offre il servizio di nominee. Ovvero messa a disposizione di prestanome, direttori d'azienda e azionisti fittizi, quelli che nel gergo finanziario chiamano gli straw men: gli «uomini di paglia».
Suoniamo al campanello della Ashcroft Cameron. «Salve. Sono interessato ai servizi che offrite». Un signore inglese sulla cinquantina ci apre la porta e fa strada verso lo scantinato. Dentro un ufficio angusto, mobilio modesto, quattro computer e due altri uomini di mezz'età in jeans e felpa impegnati al lavoro su alcuni documenti. Diciamo che vogliamo aprire una compagnia, ci danno un modulo per la registrazione e un tariffario. Creazione compagnia: 95 sterline. Servizio sede legale: 150 sterline l'anno. Direttore e azionisti nominali: a partire da 150 sterline all'anno.
Proviamo a chiamare il numero di telefono sul biglietto da visita e chiediamo della Restform. La persona che ha risposto passa la cornetta a qualcuno al suo fianco. «Pronto? Vorrei parlare con il direttore della Restform». La prima volta buttano giù il telefono. La seconda volta rispondono. Dall'altro capo del telefono la voce incespica, «sì... qui ci prendiamo cura della Restform». «Ci potrebbe mettere in contatto con il direttore?». «Salve, il direttore sono io». Dice di chiamarsi Stuart Baxter, la voce sembra quella della persona che poco prima ci aveva aperto la porta. Ma poi il «direttore», o meglio il prestanome della Resform limited, si rifiuta di rispondere alle domande e spiegare chi sia il «direttore reale». Tutto lecito, per carità. «È un sistema perfettamente legale, che serve a preservare la privacy delle imprese», spiega il sito di una delle tante compagnie che nel Regno offre il servizio di prestanome. «È pensato per quelle persone che preferirebbero evitare che il proprio nome venga associato ad una certa compagnia». Una pratica legale sì, ma infame. Ideale per mettere al riparo chi vuole fare operazioni poco chiare da occhi indiscreti.
Spulciando tra i documenti ufficiali di Restform messi a disposizione dal registro britannico delle imprese si scopre che l'impresa fu creata nel 2000, ma i bilanci 2008 e 2009 sono fermi ad una sterlina, la cifra che viene messa di default quando si apre un'impresa. Una società fittizia insomma, che esiste solo sulla carta e sui database informatici. Chi la controlla? Stando ai documenti esaminati, a partire dal giugno 2009 il direttore è un'altra compagnia. Si tratta della Cdf Formations Limited, la cui sede legale è ancora una volta il 27 di Holywell Row. Un'altra scatola cinese? Probabile. Ma cosa si nasconde allora dietro la Restform Ltd, dietro la Cdf Formations Ltd, e dietro altre eventuali scatole cinesi? Su siti e blog rimbalza la voce che di mezzo ci sia nientemeno che la 'ndrangheta. Un'accusa pesante il cui solo indizio al momento è contenuto in un articolo apparso il 28 aprile scorso sul Giorno di Lodi, dove si riferisce come Daniele D'Apote, imprenditore accusato di ricettazione e legami con la mafia calabrese. Tra le azioni di compagnie chiacchierate trovate in suo possesso, c'era pure una piccola quota della Revincta srl, azienda di costruzioni con sede a Milano, controllata proprio dalla fantomatica Restform.

martedì 3 novembre 2009

Tutta la mappa dei veleni nei mari italiani

Alessandra Fava - Paolo Gerbaudo - Andrea Palladino

Inchiesta
La Athina trasportava solventi chimici, la Agios Panteleimon solfato d'ammonio, la Kaptan Manolis fertilizzanti. Sono 73 i relitti dei veleni rintracciati dal manifesto. Gli affondamenti sono avvenuti tutti tra il 1979 e il 2001. Uno scandalo internazionale.

In fondo al mare italiano non ci sono solo centinaia di navi affondate. I nostri fondali hanno nascosto per almeno un ventennio verità che nessun governo vuole rivelare. È il nostro un paese non solo di navigatori, ma anche di trafficanti di rifiuti, di logge massoniche più o meno coperte che sulle scorie fanno campare generazioni di imprenditori senza scrupoli, di servizi molto segreti che pensano più alla copertura degli affari sporchi che alla difesa della democrazia. Di governi impegnati - ora come nel passato - ad appoggiare accordi inconfessabili con paesi lontani, per esportare il peggior made in Italy, i rifiuti mortali della nostra industria. La storia delle navi dei veleni non è finita a Cetraro. Il caso non è chiuso, anzi, si è arricchito di nuove storie da raccontare, da passare alle generazioni più giovani. È una sorta di testimone che viene dal passato, una staffetta mantenuta in piedi dalla libertà di stampa e da quelle forze sociali che non accettano le verità di comodo. Oggi sono due mesi esatti dal ritrovamento di un relitto di una nave al largo di Cetraro, in Calabria. Il ministro Stefania Prestigiacomo ha voluto chiudere la vicenda con un sorriso, quasi ironico: quanto siete ingenui - raccontava il suo volto - avete abboccato, era solo un piroscafo affondato nel 1917. Rapida, definitiva la sua risposta. Ma dal fondo del mare la verità, a volte, torna a galla.

Settanta nomi
Questi due mesi hanno avuto il pregio di recuperare l'intera storia delle navi a perdere e delle rotte dei veleni. Sono riapparsi elenchi dimenticati, pezzi di inchieste archiviate, indagini realizzate da straordinari investigatori, come il capitano di vascello Natale De Grazia. Occorre, dunque, ripartire da questo materiale che era stato abbandonato per anni, dai nomi delle tante navi affondate in maniera sospetta, spesso con un carico dichiarato - ovvero assolutamente ufficiale - di sostanze tossiche. La Athina R., colata a picco nel 1981, trasportava solventi chimici; la Scaleni, affondata nel 1991, con nitrato d'ammonio; la Agios Panteleimon, affondata nel 1998, carica di solfato di ammonio; la Kaptan Manolis I, finita in fondo al mare a ovest della Sicilia, con un carico di fertilizzanti. E tante altre, i cui carichi spesso non erano dichiarati, oppure in apparenza sembravano contenere merci senza valore. Settanta navi, settanta storie, che il manifesto ha ricostruito, per avere un quadro complessivo della storia delle navi a perdere. Storie che da oggi sono consultabili liberamente e da tutti su un sito pensato per mantenere la memoria storica dell'intera vicenda.

Perché le navi?
Siamo stati abituati a considerare il traffico di rifiuti una attività soprattutto terrestre. La vicenda dei rifiuti dei casalesi - che iniziano ad occuparsi dello smaltimento criminale delle scorie in maniera industriale dal 1989 in poi - ha fatto conoscere l'impatto degli scarti dell'industria in Terra di lavoro, come era chiamata anticamente la provincia di Caserta. Un traffico con coperture politiche di alto livello, che - secondo la Dda di Napoli - avrebbe coinvolto anche il vice ministro dell'economia Cosentino, il cui arresto è stato chiesto l'altro ieri anche per vicende collegate al traffico di rifiuti. Il complesso sistema del traffico di rifiuti è flessibile, non lineare, capace di adattarsi ai cambiamenti delle normative, da una parte, e alle esigenze dell'industria dall'altra. Gli anni '80 hanno rappresentato la prima fase, dove l'esportazione verso l'Africa e l'America Latina era la soluzione a portata di mano, silenziosa e conveniente. La necessità di avere una rete di armatori pronti a trasportare oltre il Mediterraneo migliaia di fusti velenosi fu la fortuna dei primi broker organizzati, di società con capitale italiano in grado di avere il contatto giusto. Nascono le rotte dei veleni, percorsi che iniziano in piccoli porti poco conosciuti e che terminano sulle spiagge africane, dove se muore qualcuno intossicato nessuno, nel mondo occidentale, se ne accorge. Ma c'è un filo che inevitabilmente riporta la traccia di quei rifiuti verso chi lo ha spediti.

Le prime rotte dei trafficanti
Gibuti, Somalia, Venezuela e Romania. Poi Nigeria: sono queste le rotte preferite dai trafficanti di rifiuti tossici. Almeno fino al 1989, fino a quando una legislazione internazionale molto permissiva lo permetteva. È uno schema che si ripete come racconta la storia della Zanoobia: c'è un ammassatore autorizzato dalla regione di turno che raccoglie i rifiuti tossici; questa paga poi un'azienda che abbia accordi con un paese estero - un broker internazionale - per portare altrove i rifiuti. Passato il carico la prima azienda se ne può lavare le mani e soprattutto lo schema rende invisibili le industrie che avevano prodotto le scorie. Il broker a sua volta millanta impianti di depurazione all'estero che tutti sanno inesistenti. E così si riempiono campi, discariche, fiumi, deserti di paesi terzi. Il grande business ha il suo cuore dal biennio 1986-1987 fino alla grande crisi di navi rifiutate qui e là, di cui però la dormiente Italia capisce qualcosa sono nell'88 quando esplode il grande caso delle "navi dei veleni". Migliaia di bidoni pieni di veleni iniziano a tornare nei nostri porti, rifiutati persino di paesi con regimi democratici precari. Si scatena un finimondo, la questione arriva in parlamento e l'allora ministro all'ambiente Giorgio Ruffolo riferiva serafico che la produzione di rifiuti tossici in Italia si aggirava probabilmente intorno ai 45 milioni di tonnellate, mentre i rifiuti tossici nocivi prodotti dalle industrie erano 5 milioni di tonnellate e «per quanto riguarda i rifiuti industriali noi valutiamo la capacità di smaltimento a meno di un quinto della quantità prodotta, cioè a circa il 15 per cento» di quei 5 milioni. L'esportazione, anche se Ruffolo non lo dice, diventava così un'ottima soluzione per tutti: per il governo, per le industrie, per i trafficanti e per quella rete di interessi indicibili che si andava creando.

I porti delle nebbie
Regola numero uno: cercare porti defilati, dove i controlli sono minori, dove si riesce a ungere qualche ruota e con pochi occhi indiscreti. Porti minori, come Chioggia o Marina di Carrara, da dove parte nel febbraio 1987 la Lynx - la nave che tenterà di far sparire i 10.500 fusti tornati poi in Italia con la Zanoobia. Porti che dovevano garantire discrezione e silenzio. Ma qualcosa all'inizio del 1987 s'inceppa. Riccardo Canesi, Antonella Cappè e Alberto Giorgio Dell'Amico della Lista verde di Carrara inviano il 6 febbraio 1987 una denuncia al pretore della loro città, al procuratore della repubblica dell'ufficio circondariale marittimo di Marina di Carrara e al Ministero dell'ambiente: «Al porto di Marina di Carrara, nella banchina di sud-ovest del molo di ponente sono depositati fusti contenenti sostanze non precisate collocati in pallets che emanano odori pestilenziali. A quanto ci risulta tali fusti (dei quali una parte è già stata caricata) dovrebbero contenere rifiuti tossici e nocivi (spediti dalla presunta ditta Gellyfax) e dovrebbero essere caricati sulla motonave Lynx (della compagnia Cargo Ship) battente bandiera maltese, in rada presso il porto di Marina di Carrara, con destinazione Gibuti (ex Somalia francese)». Il 10 febbraio anche il presidente della Regione Toscana Sergio Bartolini chiede con un telex l'intervento dei magistrati di Massa, Carrara, Genova e della capitaneria di porto di Marina di Carrara. Nessuno interviene, le denunce finiscono in cassetti ancora oggi chiusi. La nave Lynx parte l'11 febbraio con 2.147 tonnellate contro una portata di almeno 5 mila. «Avevamo delle dritte dall'ambiente del porto di Marina e da Legambiente lombarda - racconta oggi Canesi, che è stato anche capo della segreteria del ministro Edo Ronchi e ora è con gli ecologisti democratici - della Linx ricordo che i fusti erano piuttosto anonimi, risalimmo alla Jelly Wax perché era nelle polizze di carico e poi indagammo su Gibuti e Porto Cabello scoprendo che non c'era là nessun impianto di trattamento dei rifiuti». Impianti fantasma , esistenti solo sulla carta, che servivano a bypassare le pochissime norme internazionali esistenti. Bastava far risultare da qualche parte che in Africa c'era un impresa pronta a ricevere il carico e nessuno, in realtà, si metteva a controllare. «Chiamai anche il sostituto procuratore dell'epoca - continua Chianesi - che mi disse di lasciar perdere e far partire le navi. Se invece la magistratura avesse bloccato subito quelle partenza si sarebbero risparmiati miliardi di lire che servirono poi per far tornare quei carichi in Italia e bonificare quei rifiuti adeguatamente». La Lista verde all'epoca presentò anche altri esposti il 6 aprile 1987 per la nave Akbay; il 12 giugno 1987 per la Radhost e il 13 luglio 1987 per la Baru Luch e nuovamente li mandò al pretore di Carrara, al procuratore della Repubblica di Massa, all'ufficio marittimo di Marina di Massa al ministero per l'ambiente e questa volta anche all'Usl di Massa Carrara, alla provincia e al comune di Carrara. Nulla accade. I veleni poi in parte tornano in Italia, dove il governo dovrà spendere oltre 250 miliardi di lire per uno smaltimento di cui oggi non sappiamo nulla. Perché la fine del percorso non è ancora nota, visto che la Protezione civile prima e il Ministero dell'ambiente poi non sono ancora stati in grado di rispondere ad una semplice domanda de il manifesto: dove sono finiti i fusti delle navi dei veleni?

L'elenco misterioso
Il 27 ottobre scorso, ventiquattro ore prima dell'annuncio sorridente del ministro Prestigiacomo, la direzione marittima di Reggio Calabria consegna alla commissione antimafia un elenco di quarantaquattro navi affondate nella zona di sua competenza. Ci sono nove affondamenti fantasma, con coordinate conosciute ma senza un nome della nave. Tra questi c'è anche il relitto di Cetraro, che il giorno dopo verrà identificato come Catania. Ma c'è qualcosa che non torna in quell'elenco. Nella lista mancano però molte navi, il cui affondamento è noto e certo. La Capraia, la Orsay e la Maria Pia, ad esempio, risultano essere affondamenti sospetti - o almeno da verificare - secondo i dati dei Lloyd's (le schede possono essere consultate sul sito infondoalmar.info). Altre navi potrebbero dunque mancare all'appello. E viene da chiedersi perché in commissione antimafia viene presentato un elenco incompleto? La nostra Marina non possiede tutti i dati? La vicenda di Cetraro e la gestione dell'informazione in questi ultimi mesi non fa che rilanciare i tantissimi dubbi e qualche legittimo sospetto.

Ripartire dal passato
Almeno settanta navi sospette sono sui fondali del mediterraneo, con coordinate note, con documentazione facilmente accessibile, con carichi spesso dichiaratamente tossici. Il ministro Prestigiacomo ha spiegato che non può seguire quello che raccontano i giornali, ma per andare a cercare una nave la notizia deve partire da una Procura. I dati che oggi presentiamo sulle settanta navi sono ufficiali, tratti dai registri navali, riscontrati uno per uno negli uffici dei Lloyd's di Londra. In alcuni casi si tratta delle stesse navi che apparivano nelle mappe del faccendiere Giorgio Comerio, sequestrate nella sua casa di Garlasco. Sono nomi che il capitano di vascello De Grazia stava verificando, uno per uno.

Le rotte dei veleni proseguono
Le tante archiviazioni e la mancata volontà di andare a verificare i casi sospetti hanno trasformato il nostro paese in una specie di zona franca per i traffici dei rifiuti. Non solo a terra, ma secondo i racconti che arrivano da Livorno anche nei mari protetti, nei santuari ecologici. Come il manifesto ha raccontato nei giorni scorsi, appartenenti alla Ong tedesca Green Ocean hanno denunciato di aver visto la nave cargo Toscana buttare differenti oggetti in mare il 5 luglio scorso, tra cui diversi container, mentre erano sulla nave Thales impegnata nel progetto di ricerca ambientale "Plastic From Sea". A sostegno della loro accusa, un container è stato poi ritrovato da una nave della Nato a 900 metri dalla posizione indicata dallo skipper della Thales, mentre i pescatori locali hanno trovato pesci morti nelle loro reti. È una storia da approfondire prima di tutto per capire se i traffici clandestini coinvolgono ancora oggi il nostro paese. Anche in questo caso la documentazione in possesso dei Lloyds sulla nave oggetto della denuncia è il riferimento più certo da dove è possibile partire. Al momento del presunto scarico in mare la nave era in viaggio da Panama a Livorno. Prima di entrare nel Mediterraneo la nave aveva attraversato l'Atlantico dopo aver fatto tappa nei porti a Houston, in Cile e in Argentina. Elemento sospetto sono le numerose ispezioni subite dalla nave - ben 10 tra 2008 e 2009, di cui una mentre era in transito a Gibilterra. Secondo un'analista dei Lloyds di Londra, che vuole mantenere l'anonimato, questo numero di ispezioni è la spia che questa nave sarebbe chiacchierata e «viene tenuta sott'occhio». Al telefono la compagnia tedesca Bertling Reederei, con sede ad Amburgo, non ha nessuna voglia di parlare della denuncia e ancor meno di rispondere alle domande dei giornalisti. E Paul Thomson responsabile della flotta, compagnia tedesca proprietaria della nave Toscana, si è limitato a dire che non ha «nulla da dire riguardo a una storia tanto assurda». Che cosa trasportava il Toscana durante il viaggio verso Livorno? «Non sono tenuto a rispondere». E cosa ne pensa del container trovato a 900 metri dal punto segnalato dalla Thales? «No comment», e ha buttato giù il telefono irritato. In fondo al mar i veleni sono segreti da tenere ben chiusi.

Alessandra Fava - Paolo Gerbaudo - Andrea Palladino per Il Manifesto

venerdì 23 ottobre 2009

In sciopero 40mila postini Assunti 30mila crumiri

I dirigenti di Royal Mail lo chiamano «piano di modernizzazione», con un corredo di un miliardo di sterline di investimento in macchinari e l'obiettivo di rendere le poste nazionali capaci di competere con altre compagnie postali su un mercato europeo liberalizzato. Ma per i lavoratori delle poste britanniche la proposta del management dell'azienda non è nient'altro che un tentativo di dare il via alla privatizzazione di un'impresa che si è salvata alla svendita delle aziende pubbliche durante gli anni '80 e '90, e che negli ultimi mesi è scampata ad un piano di privatizzazioni, fortemente voluto dal potente ministro dell'Industria Peter Mandelson.
Per chiedere garanzie sul mantenimento dei posti di lavoro ed attaccare l'intenzione dell'azienda di puntare su impieghi di breve termine e part-time, decine di migliaia di lavoratori aderenti a Cwu (Communication Workers' Union) ieri hanno incrociato le braccia. Sin dalle prime ore della mattina 40.000 addetti allo sportello, impiegati e autisti dei furgoni rossi che ogni giorno riempiono le buche delle lettere dei sudditi di Sua Maestà si sono radunati di fronte alle centrali di smistamento di diverse città del Regno Unito. Oggi sarà la volta di 78.000 lavoratori addetti alla raccolta e alla consegna della posta. Lo sciopero ha già creato un forte rallentamento nella consegna di lettere e pacchi, e si prevede che se la disputa andrà avanti, produrrà rallentamenti nella consegna che si protrarranno fino al trafficato periodo delle vacanze natalizie. Per rispondere allo sciopero l'azienda ha deciso di assumere temporaneamente 30.000 lavoratori, e ha aperto nuovi centri di smistamento.
«I picchetti sono forti, con quasi il 100% della forza lavoro» - ha affermato Mole Meade, portavoce del sindacato Cwu, alla fine di una lunga giornata di picchettaggio, al centro di raccolta di Londra Est. «I lavoratori sono motivatati a continuare questa battaglia». «Royal Mail è un'azienda sana, che sta facendo profitti pure nella più grande recessione degli ultimi decenni. Qui non c'è bisogno di un piano di ristrutturazione come quello proposto dall'azienda» - ha dichiarato Pal Frey, delegato sindacale che rappresenta 11.000 lavoratori postali nella capitale. «Temiamo è che governo e management stiano cercando di mandare l'azienda in crisi, per poi dire che l'unica soluzione è la privatizzazione».
Le trattative tra azienda e sindacato, che Gordon Brown, ieri, ha invitato ripetutamente a sedere al tavolo, non danno segni di progresso e se non si arriverà ad una soluzione nei prossimi giorni i lavoratori minacciano di tornare a scioperare per tre giorni la prossima settimana. Per il primo ministro Gordon Brown lo sciopero è un'altra bella gatta da pelare in un momento non facile per l'esecutivo. Un conflitto che porta alla ribalta lo scontro tra il Labour Party e i sindacati che sono i suoi principali finanziatori, sul piano di privatizzazione di Royal Mail.
La privatizzazione di Royal Mail da parte del blairiano Mandelson, già commissario europeo al Commercio, è stato bloccata di fronte alla forte opposizione del sindacato e come contentino alla sinistra del partito che ha contribuito a salvare Brown, messo in pericolo dalla rivolta dei peones, nel giugno scorso. Mandelson tuttavia sembra aver mal digerito la sospensione del piano e negli ultimi giorni non ha perso occasione per attaccare i sindacati, affermando che lo sciopero rischia di segnare il declino dell'azienda e che molti clienti passeranno a usare servizi telematici per spedire documenti, dato che «su Internet non è possibile fare picchettaggi». Il leader dei conservatori David Cameron, ha approfittato dello sciopero per accusare il governo di debolezza di fronte ai sindacati e ha confermato che una volta al governo i Tory procederanno con il piano di privatizzazione.
Il conflitto tra sindacati e dirigenti di Royal Mail sta riportando alla memoria le grandi lotte dei lavoratori degli anni '70 e '80, con il Daily Mirror che ha addirittura paragonato i postini ai minatori che lottarono contro la Thatcher. A 30 anni di distanza dal Winter of Discontent, la versione britannica del nostro autunno caldo, lo sciopero dei postali sembra la prima avvisaglia di risveglio dei lavoratori britannici, che non ne vogliono sapere di pagare le conseguenze della crisi finanziaria.

domenica 18 ottobre 2009

Nottingham, battaglia per la centrale a carbone

Le cime delle funi volano sopra il recinto elettrificato che protegge la centrale a carbone di Ratcliffe-on-Soar, vicino a Nottingham, di proprietà della multinazionale E.on.
Piccoli arpioni montati sui capi si agganciano attorno ai pali della barriera e gruppi di ragazzi cominciano a tirare la fune urlando: «Mai più carbone». «Centrali come queste sono dei dinosauri - protesta Tom, 25enne arrivato da Londra per partecipare alla protesta -: sono una tecnologia vecchia e dannosa. È ora che i governi cambino la maniera in cui produciamo energia».
I pali verdi cominciano a piegarsi sotto l'impeto dei manifestanti, mentre tenaglie aprono buchi nella rete. Ma dentro il perimetro della centrale elettrica le giacchette catarifrangenti della polizia fanno muro chiudendo ogni breccia. Arrestano i pochi attivisti che riescono a filtrare o a scavalcare la barriera. E la montagna di carbone che alimenta le ciminiere della centrale a carbone rimane un nemico vicino ma al tempo stesso irraggiungibile.
In oltre mille hanno preso parte ieri alla protesta per denunciare la follia delle centrali a carbone, il combustibile che produce la maggior quantità di anidride carbonica. «Sono qui perché ho due figli di cinque ed undici anni - racconta James, assistente sociale di Bedford -. Centrali come questa stanno distruggendo il loro futuro. Il pianeta in cui loro vivranno sarà molto più inospitale di quello in cui sono vissuto io».
Organizzati in quattro blocchi differenti, si sono radunati nei boschi e nei campi vicini alla centrale per poi dirigersi - guidati da messaggi diffusi via sms e su twitter - verso diversi punti del perimetro. Intorno all'una i primi drappelli sono giunti in prossimità del cancello principale ed i gruppi più radicali hanno cominciato ad abbattere le barriere innalzate in previsione della protesta.
Poi, alle due, un gruppo di alcune decine di attivisti è riuscito a sfondare in prossimità della grande ciminiera che ogni anno immette nell'atmosfera oltre sei milioni di tonnellate di Co2 ma è stato bloccato dagli agenti prima che potesse sabotare l'impianto.
Un nuovo tentativo di sfondamento di massa attorno alle 3 ha visto uno scontro fisico tra la polizia e i manifestanti. Un agente e diversi attivisti sono stati portati via in ambulanza. Decine i detenuti.

giovedì 15 ottobre 2009

Due vittorie per il clima

Due vittorie in due settimane per il movimento britannico contro il cambiamento climatico - alla vigilia della protesta prevista questo fine settimana contro la centrale a carbone di Ratcliffe-on-Soar vicino a Nottingham, in Inghilterra, proprietà della multinazionale E.on, sono stati bloccati altri due progetti che negli ultimi anni avevano sollevato grandi proteste: l'espansione dell'aeroporto di Heathrow e la costruzione di una nuova centrale a carbone a Kingsnorth nel Kent. Baa, compagnia controllata dalla multinazionale spagnola Ferrovial, che ha in gestione lo scalo di Londra, ha affermato che congelerà i piani per la costruzione di una terza pista causa l'avvicinarsi delle prossime elezioni politiche, in cui probabilmente vinceranno i conservatori che si sono detti contrari al contestato progetto. La settimana scorsa invece E.on, la più grande azienda energetica privata in Europa, con sede a Düsseldorf, ha annunciato il rinvio di almeno due o tre anni per la centrale a carbone a Kingsnorth. La ragione ufficiale è il calo di domanda di energia in seguito alla recessione. Ma è probabile che abbiano pesato le forti proteste degli ultimi 3 anni.
Lo stop a due progetti che nel Regno Unito sono diventati il simbolo dell'ipocrisia di governo e multinazionali di fronte al problema del cambiamento del clima è stato accolto come un segnale propizio in vista di Copenhagen, dove in dicembre il vertice dell'Onu sul clima sarà contestato di migliaia di manifestanti. La compagnia NoTrag, che si oppone all'espansione degli aeroporti, ha festeggiato il congelamento dell'espansione a Heathrow affermando che si tratta di «una vittoria per le prossime generazioni». Per Emma Jackson, portavoce del Climate Camp, il gruppo che ha organizzato campeggi di protesta a Heathrow e Kingsnorth nell'estate del 2007 e del 2008, «E.on e BAA stanno riconoscendo che non è più tempo per crimini climatici e centrali a carbone. Ora è venuto il momento di spegnere le centrali a carbone che sono già in funzione. E' per questo motivo che nei prossimi giorni saremo alla volta di Ratcliffe-on-Soar».
Sabato e domenica dunque la centrale a carbone da 2034 megawatt nei pressi di Nottingham sara' l'obiettivo di una protesta denominata «The Great Climate Swoop», il grande assalto climatico, con cui gli attivisti ecologisti puntano a spegnere per diverse ore un'impianto che emette ogni anno nove milioni di tonnellate di anidride carbonica. Centinaia di persone convergeranno da diversi punti intorno alla centrale, organizzati in piccoli gruppi, armati di lucchetti e colla a presa rapida per bloccare i cancelli d'entrata e badili per svuotare i vagoni colmi di carbone che entrano nell'impianto. Sul sito web del Climate Camp i partecipanti possono scaricare una mappa della zona e iscriversi a un servizio di informazione via sms che coordinerà l'azione in tempo reale.
Con questa protesta gli attivisti del Climate Camp puntano ancora una volta il dito contro il carbone, il combustibile fossile che produce la più alta quantità di anidride carbonica per unità di energia. Ed Miliband, sottosegretario per il cambiamento climatico e le energie alternative nel governo britannico, ponte tra il governo e l'ala più istituzionale del movimento ecologista, continua a sostenere che il «carbone pulito» - con la costruzione di impianti di cattura e sequestro dell'anidride carbonica - può essere parte di un nuovo sistema energetico sostenibile. Ma per gli attivisti che questo fine settimana circonderanno Ratcliffe-on-Soar, l'unica cosa da fare con il carbone è lasciarlo sotto terra.

martedì 13 ottobre 2009

Crisi nera, Brown si vende pure il tunnel nella Manica

Che inventarsi per uscire dalle sabbie mobili di una crisi prodotta dalle follie del mercato? Niente di meglio che una bella svendita di beni pubblici ai privati. Questa la soluzione suggerita dal primo ministro britannico Gordon Brown che ieri, nel giorno di riapertura ufficiale del parlamento del Regno Unito dopo la pausa estiva, ha reso noto un piano di privatizzazioni del valore di 16 miliardi di sterline, con cui il governo punta a tenere sotto controllo una spesa pubblica con il deficit schizzato al 10% del Pil: il valore più alto tra i paesi Ue.
Tra le proprietà che il governo vuole cedere al mercato spicca la bretella ferroviaria ad alta velocità tra la stazione di San Pancras a Londra e l'imbocco dell'Eurotunnel, costata allo stato 6 miliardi di sterline. Parte della «lenzuolata» voluta da Brown pure la compagnia proprietaria del sistema di scommesse Tote, il ponte stradale di Dartford sul Tamigi - collegamento strategico tra la capitale e il Sud-est del paese -, il fondo per i prestiti d'onore degli studenti universitari e la quota pubblica in Urenco, una compagnia che si occupa dell'arricchimento di uranio per le centrali nucleari. Illustrando l'operazione ad una riunione di imprenditori, Brown ha affermato che spera di ricavare da queste vendite 3 miliardi di sterline. I restanti 13 miliardi dovrebbero arrivare da cessioni di immobili pubblici detenuti dagli enti locali, il cui patrimonio è stimato in 220 miliardi di sterline. Se il piano andasse in porto, si tratterebbe della più grande ondata di privatizzazioni dopo quelle degli anni '80, con cui un milione di lavoratori passarono dal pubblico al privato, e milioni di sudditi di Sua Maestà si trasformarono in azionisti.
Critiche e reazioni indignate sono seguite all'annuncio dell'operazione voluta da un primo ministro che si vuole difendere dagli attacchi dei conservatori che lo accusano di aver mandato il Regno Unito sull'orlo della bancarotta. Il Guardian ha parlato di «svendita a prezzi stracciati», mentre i Tory hanno affermato che l'operazione non rimedierà alle perdite del bilancio pubblico. Il responsabile economico dei liberaldemocratici, Vince Cable, ha definito il piano di vendita «un'operazione strampalata» nell'attuale situazione economica. Particolarmente duro il sindacato Rmt che rappresenta lavoratori impiegati per la pulizia dei treni Eurostar che passano sotto la Manica, che ha parlato di un Brown «sull'orlo della disperazione». Forti proteste anche da parte del sindacato dei ricercatori e professori universitari Ucu che ha denunciato che la vendita del fondo dei prestiti d'onore rischia di mettere in forse il diritto allo studio dei tanti giovani che vi devono fare ricorso a prestiti di fronte alla diminuzione drastica delle borse di studio e alla crescita delle tasse universitarie.
In molti dubitano che Brown riuscirà ad ottenere la cifra sperata, dato che aveva già tentato inutilmente di cedere la compagnia di scommesse Tote, quote del fondo per i prestiti d'onore e beni immobili pubblici sin dal 1998. Quello che è sicuro è che questo piano è l'ennesimo segnale che dopo aver superato la fase più critica della crisi finanziaria il mondo politico britannico sembra ansioso di ritornare al dettame neoliberista del meno tasse, tagli alla spesa pubblica e largo ai privati. E con un governo conservatore alle porte invece di tartassare i più ricchi che sono scampati alle conseguenze della crisi, un esangue governo Labour non sa inventarsi di meglio che «svendere l'argenteria di famiglia».
E Ieri Downing Street ha annunciato che il primo ministro restituirà oltre 12.000 sterline di rimborsi per spese di giardinaggio e di pulizia come stabilito dalla commissione indipendenti messa in piedi per fare chiarezza sullo scandalo dei rimborsi gonfiati che ha fatto traballare le istituzioni britanniche nel giugno scorso.


domenica 4 ottobre 2009

L'impaurita Irlanda si pente: una valanga di sì

Un sospiro di sollievo percorre l'Irlanda dopo che la vittoria del si al referendum sul trattato europeo invade l'etere. Non solo per un risultato che aggancia saldamente l'Irlanda ad un Europa vista sempre più come un salvagente in mezzo alla tempesta, ma pure per la sensazione di essersi tolti di mezzo un fastidioso impaccio per un paese che sembra avere al momento ben altre urgenze che l'oscuro progetto di riforma delle istituzioni della Unione europea. Il si stravince con il 67% contro il 32.9 del no, superando le previsioni e dando il via libera all'implementazione del trattato di Lisbona, a meno di sorprese che potrebbero arrivare da Polonia, e Repubblica ceca, gli unici due paesi che assieme all'Irlanda non l'avevano ancora ratificato.
Il 20% degli elettori irlandesi hanno cambiato opinione rispetto al referendum del giugno 2008, dove prevalse il no. Un responso legittimato da un'affluenza del 58% in aumento rispetto al 53% di un anno fa, con molti elettori che hanno approfittato delle ultime ore a disposizione per partecipare alla consultazione. Festeggia il premier («Taoiseach» in gaelico) Brian Cowen che rischiava di affondare se fosse passato nuovamente il no e che ieri affermava che «dobbiamo lavorare con i nostri partner europei per assicurare che le riforme di questo trattato vengano attuate». E festeggia pure la tecnocrazia di Bruxelles, con Manuel Barroso che ieri ha accolto raggiante il risultato sostenendo che «l'Irlanda ha riconosciuto il ruolo che l'Unione europea ha giocato per rispondere alla crisi economica».
Delusione sul fronte del no. Declan Ganley, il businessman leader del gruppo anti-europeista Libertas, ha sostenuto «che non siamo riusciti a prevalere, ma abbiamo detto la verità e sono orgoglioso di questo». Per il parlamentare europeo del partito socialista Joe Higgins, il risultato è frutto di una «campagna di paura ed intimidazione sostenuta dalla élites politiche d economiche e dal mondo dei media».
L'impressione che si registra parlando con gli elettori a Dublino è che la sconfitta del referendum un anno fa fosse dovuta a una carenza di informazione riguardo al contenuto del trattato. «Bene per noi e bene per l'Europa. Questa sera ci sarà da brindare a pinte di Guinness per me e per te», afferma un signore di 63 che abita nella zona sud della capitale irlandese, che ha visto uno dei maggiori spostamenti di voto dal no al si. «C'erano un paio di punti del trattato che la gente non aveva capito, per colpa del governo che non aveva spiegato bene per cosa si andava a votare. Noi non siamo mica come gli inglesi. Noi ci crediamo all'Europa. E con questo referendum siamo riusciti a rimanere ancora una volta al centro del dibattito e a mantenere un'influenza molto grande considerando che siamo una piccola nazione».
La campagna per il referendum si è concentrata sulla situazione economica in un paese dove la disoccupazione ha raggiunto quota 12,6%. La tigre celtica, si è trasformata in un micietto impaurito nel giro di pochi mesi, con il Fondo monetario internazionale che prevede che nel 2010 l'economia irlandese si sarà contratta del 13% rispetto al 2008, una vera e propria decimazione. Responsabile per il collasso una politica economica che ha puntato ancora più che altrove sul settore immobiliare, come pure il crollo della sterlina, che ha affossato il valore delle esportazioni in un paese per cui il Regno unito è il primo partner commerciale. Di fronte a questa situazione molti elettori hanno ritenuto più prudente dare un segnale di fedeltà alle istituzioni europee, che in passato avevano riversato ingenti quantità di denaro nel quadro dei programmi regionali di sviluppo.
La vittoria nel referendum allunga la vita all'impopolare governo di Brian Cowen, del liberale Fianna Fail, sostenuto pure dai verdi. Un esecutivo che si trova ai minimi di popolarità ed è accusato pure di sprechi e di corruzione. Ma secondo molti commentatori la fine è vicina, e Brian Cowen sarà mandato a casa prima di Natale. Il prossimo ostacolo è l'approvazione in parlamento del controverso provvedimento NAMA (National Asset Management Agency), che creerebbe un'ente per comprare 4 miliardi di euro di «titoli tossici», e che segue un simile piano da 2 miliardi varato a gennaio. Un intervento che vale il 2% del pil e i cui fondi saranno raccolti con pesanti tagli alla spesa pubblica. I sindacati hanno affermato che si tratta di una «decisione brutale» e hanno annunciato una grande protesta per il 6 di novembre.
Il risultato positivo del referendum irlandese potrebbe innescare una reazione a catena in Cecoslovacchia e Polonia che erano rimasti alla finestra in attesa del responso irlandese come. Forte imbarazzo tra i conservatori britannici che ieri hanno aperto il loro congresso a Manchester e con David Cameron primo ministro in pectore che potrebbe essere costretto ad un'imbarazzante passo indietro sull'opposizione al trattato di Lisbona, per non isolarsi ulteriormente sul fronte europeo dove si è già fatto molti nemici.

giovedì 1 ottobre 2009

New Tory? La crisi la pagheranno i poveri

«Trenta anni fa abbiamo vinto le elezioni lottando contro le tasse al 98% per i più ricchi. Oggi dobbiamo mostrare che siamo indignati di fronte alle ingiustizie verso i più poveri». Nel discorso di chiusura del congresso del partito conservatore a Manchester - a poco più di sette mesi da elezioni che potrebbero vedere il ritorno dei conservatori a Downing Street dopo 12 anni di opposizione - il leader dell'opposizione David Cameron, ha presentato i Tory come un partito che ha cambiato pelle. Un partito «progressista» impegnato per la giustizia sociale e rispettoso delle minoranze. Un partito che può riuscire a «rimettere la Gran Bretagna in piedi» senza produrre tensioni tra le classi sociali.
Quarantadue anni, di cui quattro alla guida del partito di Margaret Thatcher, il leader dei conservatori ha puntato tutto il suo discorso sul tentativo di conquistare la fiducia di quei tanti sudditi di Sua Maestà che non ne vogliono più sapere del Labour ma sono ancora lungi dall'essere innamorati dei conservatori. Al centro del suo intervento, l'immagine di un «paese rotto», oberato dal debito pubblico, sfiancato dalla disoccupazione, lacerato dalla crisi delle famiglie e inquieto per una gioventù priva di speranza e prona alla violenza. La soluzione? Non più il «big government» offerto dal Labour. Non uno «stato forte» ma «una società forte, famiglie forti, comunità forti» ed una «assunzione di responsabilità» da parte dei cittadini. Espressioni che riecheggiano la retorica della responsabilità di Barack Obama, molto ammirato da Cameron, con le scritte «pronti per il cambiamento» che campeggiano sulle pareti del centro conferenze. Il tutto all'insegna del «conservatorismo compassionevole», la nuova ideologia che Cameron ha preparato per convincere quella parte della Gran Bretagna che ancora si ricorda del cinismo dell'era Thatcher. Ma quanto c'è di vero in questo cambiamento di quello che ancora in molti chiamano il «nasty party», il partito cattivo?
«Non sono più il partito razzista e omofobo degli anni '80», sostengono i giornalisti del Guardian e dell'Independent che hanno assistito al congresso, facendo notare come nel programma abbondassero eventi dedicati a ambiente, multiculturalità e diritti di gay e lesbiche, e tra i delegati ci fossero più donne e componenti di minoranze etniche rispetto al passato. Ma non molto sembra essere cambiato sul fronte della politica economica, dove la parola d'ordine è quella del libero mercato e del taglio alla spesa pubblica.
Per il cancelliere ombra George Osborne servirà una nuova era di austerità per rimettere in sesto le finanze pubbliche. A pagarla saranno famiglie a basso reddito, disoccupati e dipendenti pubblici. Violando l'usanza di non svelare tagli pesanti prima delle elezioni, Osborne ha annunciato un congelamento dei redditi per un anno che colpirà 5 milioni di dipendenti pubblici. L'aumento dell'età pensionabile a 66 anni verrà anticipato dal 2020 al 2016. Cancellati provvedimenti a favore dei bambini più poveri. E i conservatori hanno pure in serbo tagli pesanti ai sussidi di disoccupazione «perché tutte le persone che possono lavorare devono lavorare».
«Siamo tutti sulla stessa barca», ha rassicurato Osborne affermando che ogni classe sociale dovrà fare la sua parte per contribuire a sanare la crisi economica, e che il governo Tory.
Tuttavia la classe imprenditoriale e finanziaria che durante il periodo di crescita dell'economia dell'ultimo decennio ha ingrandito il proprio patrimonio e ristrutturato le proprie case di campagna verrà in buona parte risparmiata dalla nuova politica di austerità. L'aliquota per i redditi più alti innalzata dal 45 al 50% nell'ultima finanziaria targata Labour verrà mantenuta ha promesso Osborne. Ma la tassa sull'eredità verrà cancellata per patrimoni inferiori ad un milione di sterline. «Faremo una riforma sociale tanto radicale quanto quella economica della Thatcher», ha promesso ieri Cameron a un paese che ancora non si fida dei Tory. E a vedere quello che intendono per riforma sociale c'è proprio da aver paura.

mercoledì 9 settembre 2009

La campagna di Cuneo delle camicie verdi

Una bandiera della Lega Nord sta bell'esposta sul portellone del camion di un ambulante all'entrata del mercato di Cuneo in piazza Galimberti, dove ogni martedì centinaia di persone accorrono dalle campagne e sin dalla Francia per comprare vestiti, scarpe, prodotti per la casa. Sotto l'ombra dei tendoni, spiccano anche banchi gestiti da venditori cinesi e maghrebini. Fu da un balcone che si affaccia su questa piazza che Duccio Galimberti nel luglio del 1943 esortò i cuneesi alla resistenza contro il nazifascismo affermando che «la guerra continua fino alla cacciata dell'ultimo tedesco».
Oggigiorno, in assenza dello «straniero invasore» e delle SS di Joachim Peiper che appiccarono roghi nel paesino di Boves, a preoccupare un numero crescente di abitanti della Granda, sono gli immigrati, che si sono stabiliti velocemente in questa provincia a bassa densità di popolazione, che prima della crisi abbondava di posti di lavoro. A raccogliere i frutti di questa preoccupazione è stata la Lega Nord, che nelle ultime elezioni amministrative, ha ottenuto la guida della provincia, in precedenza in mano al forzista Raffaele Costa, liberale ex ministro della Sanità, esponente del notabilato e fustigatore degli sprechi della pubblica amministrazione. A succedergli a capo di una coalizione che ottenuto il 52% dei voti (di cui il 22% alla Lega), Gianna Gancia, 37enne, piccola imprenditrice vinicola, personaggio sconosciuto prima della campagna elettorale. Salita alla ribalta nelle vesti di compagna affettiva del Calderoli, ministro della semplificazione ed indossatore di magliette anti-maomettane.
Sono stimati attorno a 45.000 persone, circa l'8% della popolazione, gli immigrati nella provincia Granda. Comunità etniche che si sono installate in maniera specializzata nei diversi distretti di un'economia provinciale che detiene un livello record di imprese per abitante: i cinesi a lavorare come scalpellini nelle cave di pietra di Barge e Bagnolo, i macedoni a raccogliere l'uva nelle Langhe, gli indiani a mungere le vacche nella pianura, gli albanesi a lavorare nell'edilizia, le rumene a badare ai vecchietti di una popolazione sempre più anziana. «Dopo il caos degli anni '90, le comunità di migranti si sono ben stabilizzate - spiega Bruna Gerbaudo, del centro migranti del comune di Cuneo - In assenza di una politica pubblica d'integrazione, le catene migratorie si sono auto-organizzate, e spesso si sono integrate in maniera più diffusa e meno problematica rispetto ad altre zone del Piemonte e del Nord Italia».
Il livello di criminalità in questa provincia isolata e tranquilla continua ad essere ben sotto il livello di guardia, e al momento non vi è sentore di violenza a carattere razziale, nonostante un'indagine abbia mostrato un aumento di xenofobia nelle scuole. E per il momento a Cuneo niente ronde - assicurano i leghisti locali - «ma dobbiamo stare all'erta». Ma sta di fatto che qui come in altre zone della Padania, l'immigrato spesso suscita paura e sdegno, in particolar modo tra gli anziani e in alcune zone rurali marginali, dove negli ultimi anni e diventato sempre più difficile tirare a campare con un po' di vacche ed un noccioleto.
«Ma vui a la fin, seve cui ca stan coi moru o contra ai moru?» si è sentito chiedere nei mercati di paese il candidato del Pd Mino Taricco, assessore regionale all'Agricoltura. «La questione degli immigrati ha fatto una breccia enorme. - racconta Taricco - La gente associa mentalmente l'immigrato con i problemi economici, lo vede come il simbolo di una globalizzazione che ha portato insicurezza». Questo senso d'insicurezza, secondo Ezio Bernardi direttore de La Guida, il settimanale della curia sta favorendo «un mutamento genetico dell'elettorato cuneese, storicamente liberale per eccellenza, molto legato ai valori della resistenza e delle istituzioni e caratterizzato da un rifiuto degli estremismi. Sempre più quest'elettorato chiede interventi di rottura e si sente rassicurato dalla chiusura leghista».
Una chiusura che fa tanto più presa in un periodo di crisi economica che nel Cuneese sta divorando posti di lavoro mese dopo mese. «La cassa integrazione e cresciuta di più che nelle altre province del Piemonte», nota Sergio Dalmasso, consigliere regionale di Rifondazione. Licenziamenti a raffica nel distretto del vetro. Chiusa la storica cartiera Burgo di Ormea. In crisi pure la Alstom ferroviaria di Savigliano, la Italcementi di Borgo San Dalmazzo. E presto pure lo stabilimento Michelin di Cuneo in cui il Sin.Pa (sindacato padano) aveva ottenuto un'effimera maggioranza sindacale nel 2000, potrebbe entrare nel novero delle aziende in crisi. «Quello che rischia di passare in situazioni di crisi come questa, è l'idea che la precedenza nei posti di lavoro e nell'assistenza debba essere data alla popolazione locale», spiega Dalmasso «a soffiare su questo sentimento e la Lega, tra cui ci sono diversi matrici culturali, alcune più moderate, altre chiaramente xenofobe e di estrema destra».
Ma a stare a sentire Stefano Isaia, segretario provinciale della Lega Nord a soli trentun'anni, il successo della Lega cuneese non ha che fare con derive xenofobe, ma con «una politica del buonsenso rispetto all'immigrazione» che risponde «a quello che la gente ci chiede di fare». «Il fatto e che noi facciamo quello che gli altri partiti non fanno più. Abbiamo ventiquattro sedi locali, più di qualsiasi altro partito. Andiamo in giro in camper nei paesi, per offrire assistenza e consulenza e ad ascoltare i problemi della gente». Ed è proprio questo filo diretto con gli umori degli strati popolari della popolazione - il fatto di essere il partito delle bealere (i fossi) - ciò che gli altri partiti invidiano alla Lega. «La Lega ha smesso di fare filosofia e si e calata tra le persone - ammette Taricco - il centrosinistra deve rendersi conto che stiamo perdendo il collegamento con il territorio e che veniamo sentiti come lontani». Il rischio è che per riguadagnare il contatto con il territorio, il centrosinistra in vista delle difficili elezioni regionali della prossima primavera, sia tentato dalla scorciatoia di mostrare anch'esso i muscoli contro «i moru» - come hanno fatto tanti sceriffi democratici in giro per l'Italia - invece che impegnarsi nella strada più lunga ed impervia di sviluppare un nuovo modello sociale regionale per rispondere alla crisi economica.

domenica 16 agosto 2009

Europa in campeggio contro l'effetto serra

Tutti in tenda per lottare contro il cambiamento climatico e puntare il dito contro i maggiori produttori di gas serra. A poco più di tre mesi dal vertice internazionale sul clima di Copenhagen, dove tutti i paesi Onu discuteranno i termini di un nuovo trattato per sostituire quello di Kyoto, l’estate europea viene invasa da un’ondata di campeggi di «azione climatica», impiantati in prossimità di aeroporti, centrali a carbone, miniere ed altri grandi inquinatori, accusati di essere «criminali climatici». Dal Klimacamp di giugno, durante il quale gli attivisti danesi si sono esercitati per le grandi proteste di dicembre, al Camp climat francese finito l’8 agosto, a quello belga-olandese svoltosi ad Anversa, al campeggio contro il clima in Irlanda che comincerà a Ferragosto, ai campeggi climatici in Scozia e Galles, fino al capostipite Climate camp inglese che quest’anno darà vita alla sua quarta edizione a Londra.
Obiettivo dei campeggi climatici sono grandi installazioni inquinanti, responsabili dell’immissione nell’atmosfera di tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra. «Ossigeno. No Kerosene!» hanno gridato gli attivisti del Climat camp francese, che negli ultimi giorni hanno lanciato una serie di blocchi e proteste contro la costruzione dell’aeroporto Loire Atlantique, vicino a Nantes, segnalando ancora una volta come l’aviazione sia una sorgente in crescita di gas serra. Il neonato Climate camp scozzese ha invece preso di mira l’apertura di una miniera di carbone a cielo aperto, a Mainshill. Tre attivisti sono stati fermati lunedì scorso dopo un’incursione davanti alla casa di un assessore laburista accusato di essere la sponda politica del progetto. Tra di loro anche Dan Glass, un attivista del gruppo anti-aviazione Plane Stupid, che un anno fa tentò di incollarsi alla mano del primo ministro Gordon Brown durante un ricevimento ufficiale. In azione contro il carbone - fonte fossile che emette un livello di Co2 più alto rispetto al metano e al petrolio per unità di energia - anche il campeggio gallese che dal 13 agosto protesterà contro l’apertura di un’altra miniera di carbone a cielo aperto a
Ffras-y-Ffron.
«Portate amici, più siamo più forti saremo, e tutte quelle cose che portereste normalmente in un campeggio», consigliano gli organizzatori del campeggio di azione climatica inglese che comincerà il 27 agosto. Niente cani, bottiglie di vetro e coltellini svizzeri. «La polizia adora trovarne un po’ per poi andare in televisione e spargere storie spaventose riguardo ai campeggiatori climatici», avvertono sul sito. Oltre ad essere una base per proteste e blocchi contro grandi inquinatori, i campeggi climatici sono anche uno spazio di vita sostenibile ed educazione ecologica. Rigoroso l’uso di tecnologie verdi, da pannelli solari a pale eoliche, per portare elettricità ai campeggi, all’utilizzo
del compostaggio, e al riciclo delle acque grigie. Le giornate di campeggio sono poi segnate da un calendario fitto di laboratori, seminari e conferenze, per discutere come vivere low-carbon e come costruire la transizione verso una società post-fossile.
Il primo campeggio climatico a livello internazionale si svolse nell’estate 2006 nello Yorkshire contro la centrale a carbone di Drax, la prima sorgente di emissioni di gas serra nel Regno Unito. Tra i promotori, veterani del movimento contro la costruzione delle tangenziali durante gli anni ’90. Poi nel 2007 l’edizione che bucò i media, con la protesta contro la costruzione della terza pista all’aeroporto di Heathrow, il più trafficato del vecchio continente. Il campeggio climatico è sbarcato sul continente nel 2008, con una protesta ad Amburgo contro una centrale a carbone. Quest’anno il campeggio climatico in Germania si terrà a fine agosto e sarà seguito da una grande protesta contro il nucleare a Berlino, per dire che l’energia atomica non è la soluzione al cambiamento climatico.
La diffusione dei campeggi climatici e di altri campeggi di protesta come quelli «no border» contro i controlli migratori, fa parte di una tradizione che affonda le sue radici nella storia dell’azione diretta antimilitarista ed antinucleare. Il campeggio di protesta fu reso celebre nel mondo anglosassone dalle donne di Greenham Common, protagoniste di un presidio durato dieci anni contro i missili Cruise della base Raf. Tradizione ripresa da Brian Haw, il carpentiere sessantenne che dal 2001 quasi ininterrottamente vive in una tenda nella piazza di fronte al parlamento di Westminster, affiancata da foto di atrocità belliche e addobbata da simboli pacifisti.
Se la diffusione dei campeggi di azione climatica in giro per l’Europa segnala la crescente attenzione dei movimenti sociali per la questione del riscaldamento globale, al momento l’ondata di protesta sul clima non si è ancora affermata nella nostra penisola. A quando un campeggio di azione climatica anche in Italia?

mercoledì 15 luglio 2009

Strage di soldati, gli inglesi si riscoprono «no war»

I corpi sono arrivati. Scaricati uno a uno dalla pancia del C-17 che li ha portati alla base RAF di Lyneham, nel Wiltshire. Caricati con una coreografia militare su auto funebri Mercedes Benz, guidate da becchini con bastone e bombetta. Salutati da due ali di folla lungo le strade di Wooton Bassett, paese che vive all'ombra della base RAF da cui gli aerei partono carichi di mezzi e soldati per riportare indietro cadaveri e rottami. È la settantesima volta negli ultimi due anni che si svolge questa scena, dopo che gli abitanti del paese hanno chiesto di poter onorare pubblicamente i caduti, invece di vedere le auto che trasportano le bare avvolte dall'Union Jack passare di sfuggita come se nulla fosse. E non sarà certo l'ultima.
Ieri a passare per le strade di Wooton Bassett sono stati gli otto militari britannici morti venerdì scorso nella provincia dell'Helmand teatro di scontri feroci tra talebani da una parte e forze americane e britanniche dall'altra. In cinque sono morti per due bombe esplose in successione a Sangin. Altri due per l'esplosione di due ordigni a Nad-e-Ali. Un altro ancora è stato colpito a morte mentre faceva la sentinella a Char-e-Anjir. Otto morti pesanti, che portano la lista dei caduti in Afghanistan a quota 184: più dei 179 morti britannici in Iraq. I morti inglesi sono già 15 dall'inizio di luglio, quello che si sta rivelando il mese più sanguinoso dal settembre 2006. Così nella «guerra dimenticata» condotta da ormai quasi otto anni nelle lande impervie dell'Afghanistan, il mondo politico si trova costretto a fare i conti con il costo in vite umane dell'offensiva voluta dal presidente degli Stati uniti Barack Obama contro gli irriducibili talebani.
Brown ha approfittato della tragedia per invitare Karzai a schierare truppe afghane nell'Helmand al fine di «difendere il terreno conquistato con tanta fatica». I conservatori, invece, hanno colto l'occasione per criticare la conduzione della guerra. Il vice-segretario del partito John Maples ha affermato che «sempre più persone si chiedono se è possibile vincere questa guerra e se gli obiettivi che ci siamo posti siano ragionevoli, considerati i militari in campo ed il loro equipaggiamento». Critiche a cui l'esecutivo ha replicato dicendosi disposto a soddisfare ogni richiesta venga dai generali, rivendicando 3 miliardi di sterline spesi nel conflitto in un anno di crisi economica, e riaffermando con il neo-ministro della difesa Bob Ainsworth che la guerra deve essere vinta, costi quel che costi. Nel frattempo, 700 soldati inviati per fare da guardia alle elezioni presidenziali nel paese, rimarranno oltre la data prevista per il ritorno e ulteriori rinforzi potrebbero essere inviati nei prossimi mesi.
A essere poco convinti della necessità di questo conflitto continuano ad essere i sudditi del Regno unito, seppur la guerra in Afghanistan sia sempre stata più popolare di quella in Iraq. In base ad un sondaggio pubblicato ieri il 56 per cento dei britannici vorrebbe il ritiro delle truppe entro l'anno. Per Lindsey German, leader del gruppo anti-guerra Stop the War «sempre più persone capiscono che questo conflitto non ha a che fare con gli interessi degli afghani, ma con le mire del Regno Unito e degli Stati uniti. Il fatto è che hanno perso la guerra in Iraq e ora sperano di recuperare lo smacco vincendo il conflitto in Afghanistan». «Fa male vedere tanto sangue versato invano», le fa eco Rose Gentle, madre di Gordon Gentle, soldato morto in Iraq nel 2004, e diventata portavoce dei familiari dei militari che si oppongono alla guerra. «È arrivato il momento di dire basta. Il governo deve ascoltare i britannici e portare i nostri soldati a casa».

venerdì 10 luglio 2009

«Il vero anti-G8? A Copenaghen»

Sul clima si sono infrante le fanfare del G8 aquilano. Ed è proprio sul cambiamento climatico che potrebbe ripartire il movimento globale. Di questo è convinto Tadzio Müller, uno degli animatori di Climate Justice Action. La coalizione che comprende Ong come Friends of the Earth, Jubilee South, Focus on the Global South, Attac Francia, gruppi autonomi ed anarchici, si sta preparando da mesi alla conferenza dell'Onu sul Clima, che si terrà a Copenhagen a dicembre. Questa protesta secondo Müller potrebbe essere un'occasione per rigenerare i movimenti globali, rimasti senza un nemico forte con l'agonia del neoliberismo. Per l'attivista, che studia il "capitalismo verde" per la fondazione Luxemburg, «il cambiamento climatico deve diventare un nuovo terreno di lotta, perché mette in luce la follia del capitalismo e della crescita infinita».

I grandi della terra sbandierano la promessa di tagliare i gas serra del 50% entro il 2050 come un successo. Dobbiamo credergli?
Tra qui e il 2050 ci saranno dieci tornate elettorali: per i politici è un po' come promettere che nel 2050 ci saranno stazioni turistiche su Marte. Viste le resistenze di Cina, India e altri paesi emergenti i grandi potranno continuare a fare il gioco dello scaricabarile. Poi basta vedere quanto successo nelle edizioni passate del G8 con le promesse mancate sulla lotta alla povertà per capire che non sono credibili.

Con il fallimento del G8 sul clima la palla passa al vertice sul clima di Copenhagen. Cosa succederà in quell'occasione?
Per Copenhagen stiamo mettendo assieme una coalizione molto ampia, unita da una secca denuncia delle politiche dell'Onu sul clima e dall'intenzione di usare la strategia dell'azione diretta contro il summit.

Eppure a vedere le proteste contro il G8 i movimenti globali sembrano in forte crisi.
Il fatto è che il G8 è ormai un guscio vuoto. Un tempo aveva senso opporvisi in maniera frontale perché era al timone dell'agenda neoliberista e ci forniva un nemico contro il quale unirci. Ora che il neoliberismo langue un terreno comune per i movimenti globali può essere quello dei cambiamenti climatici. Copenhagen potrebbe essere una nuova Seattle.

Molti nella sinistra guardano con sospetto all'attivismo sul clima, quasi si trattasse di una «preoccupazione borghese» che non ha a che fare con l'ingiustizia sociale.
Il cambiamento climatico ci sarà, che ci piaccia o meno. Le elite lo hanno capito e si stanno attrezzando, mettendo in campo nuove forme di potere. Noi come movimenti sociali dobbiamo accettare questa sfida, anche perché i cambiamenti climatici amplificheranno le diseguaglianze sociali.

mercoledì 8 luglio 2009

Il veterano no global: finita l'epoca dei controvertici, dobbiamo reinventarci

Pochi e confusi. Eppure fanno numero nella piccola folla che si riunisce a piazza Barberini per la protesta contro l'ambasciata americana fronteggiata da un imponente dispositivo delle forze di
polizia. Gli attivisti stranieri giunti a Roma per protestare contro il G8 non nascondono il disappunto di fronte a una mobilitazione che appare molto inferiore rispetto a quella di precedenti analoghe manifestazioni. Tra i capannelli di attivisti francesi, spagnoli,
tedeschi e greci che ieri si sono uniti ai manifestanti italiani c'era anche Kriss Sol, un attivista olandese veterano del movimento anti-globalizzazione, che ha partecipato alle grandi proteste globali da Praga in poi. «È un po' triste essere qui - afferma Kriss di fronte a un raduno soverchiato dalla presenza degli agenti anti-sommossa - sembra di essere veramente arrivati alla fine di un percorso. È necessario reinventare le forme di protesta e il modo in cui ci approcciamo alla gente.

Qual è la tua impressione di fronte a questa protesta piuttosto sguarnita?

Dobbiamo stare vedere quello che succederà nei prossimi giorni e quali azioni ci saranno. Ma credo che per chiunque assista a questa manifestazione e veda il numero di persone che ci sono in piazza è purtroppo chiaro che molte cose sono successe in Italia dal 2001 in poi e che il movimento si trova in una fase di forte debolezza. È un peccato, anche perché in passato in Italia il movimento contro la globalizzazione era molto forte. Poi, a vedere come si sta comportando
la polizia, è chiaro che non vogliono lasciare nessuno spazio ai manifestanti e che stanno limitando in maniera drastica il diritto di manifestare.

Come stanno vivendo questa mobilitazione gli attivisti stranieri che hai incontrato a Roma?

Rispetto ad altri mobilitazioni a cui ho partecipato - Praga, Genova, Gleneagles, Heiligendamm e molte altre - la situazione è differente dal punto di vista della mobilitazione a livello internazionale. Certo ci sono persone che vengono da molti paesi diversi. Io personalmente
oggi ho incontrato persone che vengono da almeno 10 paesi differenti. Ma si tratta di gruppi molto piccoli. Questo è dovuto anche al fatto che c'è stata molta confusione nella fase di preparazione per le proteste e per noi attivisti internazionali è stato difficile capire
quello che stava succedendo. Si avverte un'assenza di quelle infrastrutture e reti organizzate che c'erano in occasione di altre proteste contro il G8.

Cosa ti aspetti dalle manifestazioni dai prossimi giorni?

Sono curioso di vedere quello che succederà e mi auguro che molte più persone partecipino. Molto dipenderà da come andranno le cosiddette "azioni de-centrate" dei prossimi giorni. Ma a dire la verità non sono molto convinto da questa strategia perché troppe volte questa è
stata la scusa per non fare niente e giustificarsi di fronte al fatto di essere in pochi. Credo che continuiamo ad avere bisogno di momenti di partecipazione di massa in cui riunirci tutti quanti se vogliamo avere visibilità ed impatto.

Stiamo forse assistendo agli ultimi rantoli del movimento anti-globalizzazione?

Non so se si tratti della fine del movimento anti-globalizzazione in quanto tale, ma il formato del controvertice sembra essersi esaurito. Credo che sia arrivato il momento di rinnovare le pratiche e i modelli organizzativi se vogliamo fare di nuovo breccia nell'opinione pubblica. Bisogna avere il coraggio di ripartire da capo senza perdere la dimensione transnazionale, che è stata la componente fondamentale delle lotte contro la globalizzazione neoliberista.

«Articolo corretto, Berlusconi non è credibile»

Invece che una «grande cantonata da parte di un piccolo giornale»» - come l'ha ridimensionata con sprezzo Berlusconi, l'articolo del Guardian che ieri ha provocato le reazioni infuriate del governo, è l'ennesima mattonata per un paese che sulla scena internazionale appare sempre più inaffidabile. Tanto inaffidabile che c'è chi vuole liberarsene e sostituirlo con la Spagna nel G8. Questa l'indiscrezione raccolta dal giornalista del quotidiano inglese Julian Borger, tra fonti diplomatiche internazionali, pezzo forte di un articolo in cui si afferma che «i preparativi per il G8 dell'Aquila sono stati cosi caotici da creare una pressione crescente tra gli altri paesi per espellere l'Italia».
L'esperto di diplomazia del quotidiano londinese afferma che di fronte al disastro organizzativo e politico del G8, gli Stati Uniti sono stati costretti a prendere le redini della situazione e a mettere in campo i loro sherpa per salvare il salvabile. Il giornalista ricorda ai lettori come il periodo di preparazione del summit abruzzese «è stato dominato dalle notizie sulle feste di Berlusconi con giovani donne, e la decisione discutibile di svolgere l'incontro in una regione che è ancora soggetta a scosse d'assestamento dopo un devastante terremoto». La brutta figura che l'Italia sta facendo con questo G8 va a sommarsi alla crisi di credibilità del nostro vituperato presidente del consiglio e la situazione potrebbe andare a vantaggio dei nostri cugini iberici che come ricorda Borger «hanno un reddito pro-capite più alto e donano una percentuale più alta del Pil in aiuti per lo sviluppo».
Ed è di fatto proprio la promessa mancata di arrivare allo 0,7% del Pil in aiuti allo sviluppo - l'Italia è ferma a un imbarazzante 0,22% - uno dei fattori decisivi che secondo il Guardian avrebbero spinto governi e diplomazia internazionale a pensare di fare fuori l'Italia dal G8. Del resto, questa era la piaga in cui qualche giorno fa aveva messo il dito la star umanitaria Bob Geldof, che in un incontro con il nostro presidente del consiglio di cui aveva dato conto La Stampa, aveva rimproverato l'esecutivo per essere venuto meno alla promessa fatta in occasione del G8 di Gleneagles nel 2005. L'Italia al momento ha erogato soltanto il 3% degli aiuti che aveva promesso 4 anni fa.
Ieri a rincarare la dose ci ha pensato l'ex segretario generale dell'Onu Kofi Annan, che ha detto a Berlusconi che «non onorare gli impegni non renderebbe giustizia ai valori del tuo paese» e che un G8 «che non dedichi attenzione ai problemi dei paesi più poveri danneggia la credibilità e la leadership del gruppo». La risposta del governo di fronte alle critiche del Guardian non si è fatta attendere, dando vita all'ennesima prova berlusconiana di odio per la «perfida albione», con il ministro La Russa, che ha invitato perfino a non comprare più i giornali inglesi.
Ma di fronte alla reazione scomposta di Silvio e soci il Guardian non è retrocesso di un millimetro. Sentito al telefono da il manifesto Julian Borger ha confermato che il suo articolo «è basato su informazioni reperite tra personalità di spicco del mondo diplomatico». Rispondendo con britannico understatement, Borger rileva che «i politici hanno sempre diritto di critica rispetto al nostro lavoro» ma aggiunge «che il governo Berlusconi sta cercando di arrampicarsi sugli specchi di fronte a quello che ormai è evidente a tutti». A dargli manforte la direzione dello storico quotidiano di Farringdon Road, che in un comunicato anodino scrive di sostenere «appieno l'articolo pubblicato di Julian Borger» negando «recisamente che la notizia sia priva di fondamento».
Le critiche ricevute dal Guardian sono un nuovo motivo di imbarazzo per il nostro governo di fronte all'opinione pubblica anglosassone, i cui organi di informazione non hanno nascosto la propria incredulità di fronte alla situazione politica italiana, con un presidente del consiglio che sembra capace di sopravvivere a qualsiasi scandalo. E se qualche hanno fa l'Economist aveva affermato che Berlusconi non era «fit», adatto, a governare l'Italia, ora agli occhi della stampa di lingua inglese sembra che si sia arrivati al punto che il paese da lui governato, non è più «fit» per fare parte del club che conta.

domenica 5 luglio 2009

«Ci battiamo per Zelaya, che al ritorno dovrà tenere conto di noi»

Parla Melissa Cardoza, portavoce del Frente de Resistencia Popular che unisce movimenti e cittadini contro il golpe

Voci di manifestazioni represse nel sangue in giro per il paese, centinaia di compagni arrestati e spariti nel nulla, l'esercito che blocca le persone che ancora in queste ore tentano di entrare a Tegucigalpa per protestare, ed il cadavere di un manifestante pestato a sangue abbandonato per le strade della capitale, a mo' di avvertimento. Mentre migliaia di persone si stanno nuovamente mettendo in marcia per le strade della capitale, nella speranza che finalmente nelle prossime ore il presidente Manuel Zelaya rimetta piede in Honduras, il governo golpista non sembra disposto a retrocedere, nonostante l'isolamento internazionale. E nella confusione di queste ore si fa più forte la paura di una svolta violenta della crisi in cui è piombato il paese con il colpo di stato del 28 giugno. «Ci sono segnali inquietanti - afferma Melissa Cardoza, una delle portavoci del Frente de Resistencia popular, creato per unire movimenti e cittadini che si oppongono al golpe. - Sia ben chiaro che i golpisti non sono macchiette, ma fascisti pronti a tutto e c'è il rischio che nei prossimi giorni aumenti la repressione. C'è bisogno di uno sforzo di solidarietà internazionale per fermarli».
Com'è la situazione a Tegucigalpa in questo momento?
Nella capitale ci sono decine di migliaia di manifestanti, che sono giunti da ogni angolo dell'Honduras: contadini, operai, medici e maestri, uomini e donne, giovani e anziani. L'esercito per ora se ne sta in disparte e non attacca le manifestazioni che finora si sono comportate in maniera assolutamente pacifica. Ma c'è il rischio che presto la situazione cambi e cominci il massacro.
Le manifestazioni fanno traballare il governo golpista?
Purtroppo no. Il governo non sembra intenzionato a retrocedere dalle sue posizioni. Nonostante ciò il nostro morale è molto alto. Nella storia dell'Honduras non si erano mai viste manifestazioni grandi come quelle di questi giorni e con persone tanto diverse. Siamo convinti di essere dalla parte del diritto e continueremo a lottare finché il presidente non tornerà in carica.
Sembra che alcuni reparti dell'esercito si siano distanziati dai golpisti. Puoi confermare?
E' vero che alcuni reparti si stanno rifiutando di obbedire agli ordini o che quantomeno stanno a guardare come evolve la situazione. Ma nessun reparto è ancora uscito allo scoperto per sostenere i manifestanti e ripristinare lo stato di diritto. La stragrande maggioranza dell'esercito appoggia i golpisti come pure la chiesa evangelica e cattolica e le imprese, che in questi giorni stanno costringono i lavoratori a manifestare in favore del colpo di stato.
Qual è la vostra posizione rispetto al presidente Zelaya
Qui in piazza solo alcuni sono sostenitori di Zelaya o del suo partito. Certo, molti tra di noi sono scettici verso le istituzioni liberaldemocratiche ed il sistema capitalista da cui dipendono. Ma a questo punto l'unica garanzia che abbiamo è il ritorno del presidente legittimamente eletto. Quello che ci unisce è l'indignazione per il colpo di stato. Siamo usciti dalla dittatura solo 28 anni fa, e sappiamo bene cosa significa la violenza e la repressione. Nessuno vuole tornare a quel passato.
Quali prospettive per il futuro?
Difficile a dirsi. Fuori da questa crisi può venire fuori veramente di tutto. Potrebbero arrivare giorni terribili se il golpe riuscisse ad andare avanti e cominciassero i massacri. Ma tra di noi c'è pure molta speranza nel futuro e nel ritorno di Zelaya, che dovrà pur tenere in conto che è stato salvato dai movimenti sociali. Vogliamo che il presidente torni immediatamente, poi vedremo il da farsi.

domenica 28 giugno 2009

Il diritto d'asilo finisce nelle «giungle»

«Grazie per il sostegno che ci state dando. E' molto importante la vostra solidarieta. Purtroppo non possiamo unirci alla protesta perché e troppo pericoloso per noi», diceva un ragazzo afghano nell'ultima assemblea prima della protesta di ieri a sostengo dei migranti a Calais: la porta d'Europa sull'Inghilterra, che per molti migranti in arrivo dall'Asia e dall'Africa si rivela un cancello sbarrato. E ieri e andata proprio cosi. Mentre i ragazzi e le ragazze giunte da diversi paesi della «fortezza Europa» al campeggio di protesta no border invadevano le strade di Calais, i sans-papiers per cui manifestavano, per paura di rappresaglie della polizia, si sono ritirati nei loro accampamenti tra boscaglia ed edifici abbandonati.
Si tratta di quell'area di Calais che qui migranti e abitanti locali chiamano «la giungla», o ancora meglio le giungle, per distinguere le diverse boscaglie abitate da persone provenienti dall'Asia meridionale - afghani pashtun e azeri, iraniani, curdi, indo-pachistani, palestinesi - ma pure da africani tra cui somali, sudanesi ed eritrei. Secondo alcune stime qui si troverebbero quasi duemila migranti in attesa della volta buona per passare la Manica, nascosti tra i container o sui Tir. Gente in fuga da guerra e violenza che vuole andare in Gran Bretagna perché spera di ottenervi il diritto di asilo che non gli è stato concesso in Francia. C'è chi ha provato 18 volte e non c'è riuscito. Molti rimangono per mesi o anni nelle giungle, dove sono oggetto della continua minaccia delle ronde di polizia e degli sgomberi. Alcuni per la disperazione provano ad attraversare la Manica camminando lungo le gallerie dell'Eurotunnel, dove i treni sfrecciano a 160 chilometri orari, come hanno fatto quattro afghani a fine anno. Questa situazione va avanti da meta anni '90 e si è aggravata nel 2004, quando Francia e Regno Unito hanno stretto un accordo per scambiarsi posti di frontiera a Dover e Calais, decisione voluta dal Regno Unito per evitare l'arrivo di richiedenti asilo.
Per mettere in luce questa situazione tragica, ieri 2.000 manifestanti hanno attraversato Calais, chiedendo di eliminare i controlli migratori. Contro di loro la polizia anti-sommosa presidiava la citta, dopo una pesante campagna di stampa che anticipava il rischio di violenze. I Crs francesi armati di gas lacrimogeni e granate sonore hanno rallentato il cammino dei manifestanti provenienti dal campeggio verso il faro di Calais, dove si sono uniti con partiti, sindacati e gruppi religiosi. Le scaramucce sono continuate, con diversi manifestanti feriti dalle manganellate. Poca cosa però rispetto alla tensione dell'altro ieri, quando la polizia sembrava intenzionata a sgomberare il campeggio di protesta dopo che alcuni manifestanti avevano bloccato per alcune ore la vicina autostrada.
«Abbiamo mostrato che i migranti non sono soli a conbattere i confini», ha affermato Lounes, attivista parigino di origini algerine. «L'esistenza dei confini crea razzismo e odio verso il diverso. Il diritto al movimento è un diritto fondamentale. Bisogna poter scappare da situazioni dove affronta violenza e miseria e andare altrove per farsi un'altra vita». Per Tom, attivista gallese, «i migranti illegali vengono da paesi che continuano a essere depredati in maniera coloniale, e magari pure vittime dell'attacco militare dei paesi occidentali. Come si puo negare il diritto di asilo agli afghani, dopo quello che abbiamo fatto là negli ultimi 8 anni?».
Le proteste di questi giorni sono sicuramente riuscite ad attirare l'attenzione dei media e a mettere in imbarazzo le istituzioni, che cercano di nascondere il problema - qualche anno fa hanno fatto fuori il centro della Croce Rossa di Sangatte, che forniva almeno cibo e indumenti ai migranti. Quanto a un cambiamento della politica migratoria, nessuna soluzione è in vista per i migranti radunati a Calais - nonostante il sindaco della cittadina, Natacha Bouchat dell'Ump di Sarkozy, si sia dichiarata favorevole a eliminare questo assurdo confine nel cuore dell'Europa, pur di liberarsi dei migranti costretti a vagare per le strade di Calais.
Le tende del campeggio «no border» saranno levate già domani, gli accampamenti dei migranti continueranno a punteggiare le giungle nella zona vicino al porto nei mesi e negli anni a venire. «I politici ci dicono che l'abolizione dei confini è cosa assurda» afferma Hassan, attivista iraniano arrivato a Londra 20 anni fa: «Eppure in Europa da più di 15 anni di fatto si vive senza confini tra paesi molto diversi tra di loro anche in termine di ricchezza, e non mi pare che sia successo il pandemonio». Nell'attesa che qualcuno dia ascolto a idee come questa, ai migranti non resta che sperare in un posto tra i container per attraversare le 21 miglia che separano Calais da Dover, in Inghilterra, al modico costo di mille euro.