giovedì 6 settembre 2007

Tube privata, Londra bloccata

Tre milioni di passeggeri a piedi, pendolari in panico, broker della City che cancellano tutti gli appuntamenti, 50 milioni di sterline perse ogni giorno dall'economia cittadina. Va in scena la debacle della città efficientista per eccellenza: la Tube è bloccata. Lo sciopero che sta fermando la metropolitana più antica e pure la più cara al mondo - quello che per i turisti che visitano la città è l'icona di Londra - ha mandato su tutte le furie il sindaco Livingstone e il primo ministro Brown, proprio la persona che viene additata dagli scioperanti come il primo responsabile della situazione. Bob Crow, il combattivo leader di Rmt - il più grande sindacato dei lavoratori di Metronet, la compagnia nata dalla privatizzazione della metropolitana e recentemente fallita - tiene duro di fronte alle critiche ma apre alla trattativa. «Speriamo - dice - che ora il management di Metronet prenda sul serio le richieste dei lavoratori». All'ultimo momento il sindacato guidato da Crow è stato lasciato solo dalle altre due organizzazioni che avevano proclamato lo sciopero, Unite e Tssa, ma si fa forte delle proprie ragioni e chiede che Gordon Brown, che ha privatizzato in parte la metropolitana nel 2003, la riporti completamente sotto l'ala pubblica.
Lo sciopero è cominciato nel pomeriggio di lunedì. I 2.300 affiliati a Rmt si sono allontanti dal posto di lavoro alle 18 ma già nel primo pomeriggio i treni passavano a intermittenza davanti a banchine stracolme di passeggeri intenzionati ad approfittare dell'ultima finestra di servizio. Delle dodici linee della metropolitana londinese, solo due continuano a funzionare, la Northern e la Jubilee, ma le stazioni sono prese d'assalto dai passeggeri che cercano percorsi alternativi. Una terza linea, la Piccadilly, è bloccata per metà e registra pesanti ritardi. I londinesi hanno cercato di arrangiarsi usando i bus cittadini, ma di fronte alle fermate si sono formate lunghe code di passeggeri, mentre mezzi strapieni passavano senza fermarsi di fronte alle banchine. Chi ha rispolverato la bici, chi si è adattato a una lunga camminata fino al posto di lavoro. Sta di fatto che la metropoli è piombata nel caos, proprio in un momento in cui migliaia di turisti assediano la capitale del Regno unito. E secondo un portavoce di London Underground, anche se lo sciopero finisse anzitempo i disagi si protrarranno fino a venerdì, mentre la minaccia di un nuovo sciopero di 72 ore aleggia sull'inizio della prossima settimana.
In mattinata il sindaco Ken Livingstone, che aveva tentato fino all'ultimo minuto di fermare lo sciopero, promettendo di municipalizzare la compagnia che si occupa del la gestione dell'infrastruttura della Tube, ha dichiarato che lo sciopero è inspiegabile. «E' la prima volta nella storia che un sindacato va in sciopero quando tutte le sue richieste sono state accettate. Faccio fatica a capire la mentalità che caratterizza le azioni di oggi». E di fronte alle telecamere di Bbc ha sventolato con rabbia una lettera del management di Metronet che promette garanzie su pensioni, posti di lavoro e cambi di proprietà. Nel pomeriggio gli ha fatto eco il premier Gordon Brown, che ha chiesto ai lavoratori in sciopero di tornare al più presto al posto di lavoro. Il primo ministro ha dichiarato che lo sciopero è ingiustificabile e «sta causando problemi incredibili agli abitanti di Londra». Una serie di attacchi a cui si è aggiunge il richiamo stizzito di Tim O' Toole, direttore di London Underground: «Abbiamo fatto tutto il possibile per fermare questo sciopero».
Ma Bob Crow, il massiccio leader di Rmt, ha risposto a muso duro a questa serie di attacchi: «I nostri lavoratori hanno dimostrato una solida determinazione a portare avanti lo sciopero e, a meno che dai colloqui di oggi arrivino notizie positive, lo porteremo avanti fino alla fine».
Dietro i duri scontri che sono stati aperti dallo sciopero alla metropolitana di Londra si possono anche leggere i segni della lotta all'interno della sinistra inglese. Da un lato Gordon Brown accusato di essere un rinnegato, di aver abbandonato i valori della sinistra e la difesa dei lavoratori per abbracciare con entusiasmo il mondo del business e perseguire una politica spietata di privatizzazione. Dall'altro Bob Crow, l'esponente più rappresentativo di una sinistra sindacale ancora orgogliosa di essere socialista e non disposta a rinunciare su questioni di principio. In mezzo il pragmatico sindaco Livingstone, allo stesso tempo socialista e grande amico di Hugo Chavez ma contento di ospitare a Londra la più grande piazza finanziaria mondiale. Dopo aver attaccato i sindacati, ieri Gordon Brown si è lasciato andare ad una sperticata lode di Margaret Thatcher, proprio l'iniziatrice dell'ondata di privatizzazioni portata avanti dal Labour che ora è sotto accusa. E la lacerazione tra le sinistre rivali del Regno Unito appare sempre più insanabile.

giovedì 30 agosto 2007

Contro l'aborto per stupro, il cardinale molla Amnesty

Si è mossa un'altra pedina nell'offensiva del Vaticano contro Amnesty International. Ieri il cardinale di Edimburgo Keith O' Brien ha annunciato il proprio addio dopo quarant'anni di iscrizione in protesta per l'inserimento dell'aborto in caso di stupro o di gravidanze pericolose nella lista dei diritti umani difesi dall'organizzazione. La carismatica guida spirituale dei cattolici scozzesi - che si è guadagnato il soprannome di «cardinal discordia» nella stampa britannica per le sue aperture sul celibato dei preti, la contraccezione e l'ordinazione delle donne accompagnate da esternazioni contro gay e musulmani - ha accusato Amnesty di essere il capofila di una campagna internazionale per il diritto universale all'aborto. Circostanza respinta da Amnesty che precisa: «Quello che noi sosteniamo è una posizione molto più limitata che permetta alle donne che hanno subito uno stupro di decidere liberamente se vogliono un aborto. Si tratta di una decisione che potrebbe davvero cambiare le cose per le vittime di violenza in aree martoriate del mondo come il Darfur».
Le dimissioni di O' Brien sono un duro colpo per Amnesty che arriva ad appena una settimana dall'abbandono di un altro alto prelato britannico, il vescovo inglese Michael Evans. Lo stesso giorno era partito un duro attacco di Renato Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace che aveva minacciato di tagliare presunti fondi assegnati ad Amnesty. L'organizzazione per la difesa dei diritti umani ha risposto indignata all'alto prelato smentendo di aver mai ricevuto soldi dal Vaticano cosa che del resto è vietata dal suo statuto.
Amnesty International ha deciso di adottare questa nuova «policy» sull'aborto in aprile nel contesto di una campagna in difesa dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne e l'ha poi confermata nel Consiglio Internazionale tenuto a metà agosto a Città del Messico. I 400 membri dell'organo provenienti da 75 paesi hanno riaffermato la posizione dopo una lunga discussione che ha visto l'imbarazzo dei delegati irlandesi, ma anche il sostegno entusiasta dei membri della Polonia e di alcuni paesi dell'America Latina dove l'aborto è fuorilegge.
L'abbandono del cardinal O' Brien sembra confermare il fatto che il Vaticano abbia individuato nella chiesa anglosassone il terreno privilegiato per marcare il distacco del mondo cattolico da Amnesty. Non a caso dopo le prime prese di posizione dei mandarini vaticani era toccato al presidente della conferenza episcopale statunitense William Skylstad lanciare l'ultimatum a Amnesty alla vigilia del consiglio internazionale sostenendo che se confermata la posizione sarebbe stata incompatibile con la presenza di cattolici nell'organizzazione. Il mondo cattolico anglosassone è un'area importante per Amnesty che fu fondata nel 1961 da un militante comunista inglese che si era recentemente convertito alla dottrina di Santa Romana Chiesa. In questo contesto l'addio di O' Brien potrebbe essere l'apripista per altre defezioni tra i cattolici anglosassoni. Ma da Londra Amnesty Internazionale fa sapere che non è spaventata dalla campagna lanciata dal Vaticano. «Noi pensiamo che il sostegno alla nostra associazione debba essere riservato alla coscienza individuale e che non possa essere ostacolato da una questione di fede. Sarebbe insensato che per un solo argomento su cui non ci troviamo d'accordo i cattolici smettessero di sostenere tutte le nostre altre battaglie come quella contro la tortura e contro la pena di morte o in difesa della libertà religiosa per cui Amnesty è stata sempre in prima fila».

martedì 21 agosto 2007

Heathrow, buon clima

Londra - Buone notizie, sui giornali, per gli attivisti che ieri si sono svegliati di prima mattina sotto le tende del blocco contro gli uffici della Baa, la compagnia che controlla lo scalo di Heathrow a Londra. Le prime pagine dei giornali inglesi e di diversi quotidiani internazionali sono dedicate alla protesta del Climate change camp contro la terza pista dello aeroporto londinese di Heathrow. Le violenze della polizia sono condannate anche dal destrorso Times. L’azione non-violenta e decentralizzata che ha caratterizzato la protesta ha colpito nel segno ed il blocco continua. Le facce dei dimostranti sono segnate dalla stanchezza ma allargate da sorrisi. Il messaggio è passato. La polizia guarda timidamente il piccolo campeggio abusivo che è stato innalzato dai manifestanti all’entrata del quartier generale e osserva con curiosità l’assemblea pubblica che viene organizzata per decidere sulla continuazione del blocco. Come previsto negli obiettivi dell’azione, domenica gli uffici di Ba sono stati bloccati per oltre 24 ore. I pochi manager che erano riusciti ad evitare i blocchi sono stati coperti dai fischi dei manifestanti e si sono rifugiati disorientati all’interno di un edificio vuoto. Intanto arrivavano le notizie di una serie di altre azioni che stavano allargando la protesta contro compagnie accusate di complicità nel cambiamento climatico. Da un sound system alimentato a pedali usciva musica elettronica, la gente cominciava a ballare. Alcuni attivisti sfilavano in bicicletta nel parcheggio davanti al quartier generale, come a ricordare che le alternative sostenibili di trasporto sono già qua. L’azione era cominciata domenica attorno alle due quando un corteo di circa trecento persone ha sfidato la pioggia e la minaccia delle leggi antiterrorismo per raggiungere il quartier generale di Baa. Gli attivisti sono entrati in un campo coltivato che separa il campeggio dalla zona dell’obiettivo dell’azione e si sono divisi in diverse colonne, adottando una strategia simile a quella utilizzata a Rostock contro il G8. La polizia è intervenuta con agenti antisommossa a cavallo rintuzzando i tentativi di superare una staccionata che difende gli edifici della Baa. In cinque sono stati feriti alla testa, a decine sono stati manganellati. Un poliziotto è stato disarcionato dal cavallo imbizzarrito e i manifestanti che lo soccorrevano sono stati picchiati dalla polizia. Quando ormai tutte le vie di passaggio sembravano essere chiuse, alcuni attivisti hanno sfondato una rete inoltrandosi in un labirinto di villette. La polizia ha provato a formare un cordone ma un centinaio di attivisti è riuscito a passare attraverso gli agenti e raggiungere il parcheggio di fronte al quartier generale di Baa: verranno fermati per cinque ore prima di essere rilasciati. Ma nel frattempo altri attivisti erano riusciti riusciti a formare un blocco all’entrata del parcheggio, resistendo con successo ai tentativi di rimozione degli agenti. Col passare del tempo il bloco è stato rinforzato da gruppi sparsi di attivisti che erano riusciti ad arrivare nella zona attraverso stradine laterali. La polizia ha tentato per l’ultima volta di rimuovere il blocco con le maniere forti, ma vista l’intensa presenza degli organi di informazione è stata costretta a rinunciare. Gli attivisti hanno montato tendoni per ripararsi dalla pioggia, sono saliti sugli alberi per appendere striscioni che recitavano «no a un cambiamento di stile di vita, ma un cambiamento sociale», mentre la folla intonava in coro «No alla terza pista!». E la banda hippie che ha tenuto sveglia la gente fino a tardi offriva un messaggio di speranza: «Non è solo un cambiamento del clima, ma anche un clima di cambiamento». Dopo gli scontri dell’azione di domenica, che hanno portato a 71 il numero degli arrestati durante la settimana di protesta, ieri sono partite una serie di azioni decentralizzate che hanno allargato il fronte dell’ondata di protesta. Otto attivisti hanno bloccato per ore la strada di accesso alla centrale nucleare di Sizewell, incollandosi a blocchi di cemento per ricordare che l’energia atomica non è la soluzione contro il cambiamento climatico. Dodici persone si sono incatenate di fronte alla sede della compagnia petrolifera inglese Bp per denunciare il coinvolgimento della multinazionale nel business del traffico aereo. Stanley Owen, uno degli attivisti che ha partecipato al blocco ha dichiarato: «Non possiamo sostenere la crescita infinita in un mondo con risorse limitate». Un altro obiettivo dei manifestanti sono state le compagnie che offrono programmi di carbon offset, che permettono alle aziende di neutralizzare le proprie emissioni di anidride carbonica attraverso progetti che riducono la presenza di CO2 nell’atmosfera, tra i quali programmi di forestazione. Gli attivisti contestano la validità scientifica di tali operazioni sostenendo è come svuotare una barca con un cucchiaino mentre viene inondata da secchiate d’acqua.

Blocchi stradali hanno colpito Climate Care Oxford e Carbon Neutral Company a Londra. Infine, altre azioni hanno interessato compagnie di trasporto aereo di merci come la Carmel-Agrexco, bloccata, e la Baa Cargo. Dopo il successo di questa serie di azioni, ora gli attivisti guardano con fiducia al futuro della campagna contro il cambiamento climatico. John Jordan, coautore del libro «Siamo dappertutto» (recentemente pubblicato in Italia) non ha dubbi: «Queste proteste segnano la nascita di un movimento di massa. Le compagnie e il governo ci chiedono di cambiare il nostro stile di vita ma intanto costruiscono nuove piste di aeroporti e vanno alla ricerca di nuovi giacimenti petroliferi. Non è sufficiente un cambio nell’etica di consumo, abbiamo bisogno di una ridiscussione strutturale. Da questo punto di vista il cambiamento climatico non è solo un’emergenza ma anche un’opportunità. Un’opportunità per cambiare il modo in cui produciamo, viviamo, creiamo società».

La protesta sul clima assedia Heathrow

Londra - I mulini a vento che alimentano il campeggio di protesta girano veloci sotto le nuvole increspate dalla pioggia. Il ronzio sottile delleeliche è sovrastato dal rombo degli aerei che ogni 50 secondi atterrano e decollano dall’aeroporto di Heathrow, a ovest di Londra. A poche centinaia dalla pista nord del più grande aeroporto inglese i manifestanti guardano perplessi gli aeroplani, meditando sull’incredibile quantità di anidride carbonica che producono a ogni passaggio. Ad appena cinquecento metri dalla pista nord ecco le tende dei manifestanti che si oppongono all’espansione dell’aeroporto di Heathrow - che con la costruzione di una terza pista potrebbe raddoppiare il numero di passeggeri annui entro il 2030, portandolo a 128 milioni.
Più di millecinquecento attivisti affiliati a gruppi anarchici, ambientalisti, autonomi e organizzazioni della società civile sono arrivati da tutto il Regno Unito per rivendicare la necessità dell’azione dal basso di fronte al problema dell’effetto serra. La scorsa estate gli attivisti avevano tentato di bloccare la centrale a carbone di Drax nello Yorkshire che da sola produce più anidride carbonica di decine di paesi del terzo mondo. Quest’anno invece l’obiettivo è il trasporto aereo. che oltre a essere responsabile per il 13% della produzione inglese di anidride carbonica è anche la sorgente di gas serra che sta crescendo più in fretta, vanificando i piccoli passi positivi che si stanno faticosamente facendo in altri settori.
L’aeroporto di Heathrow, responsabile di un terzo della produzione di anidride carbonica del trasporto aereo inglese, produce ogni anno tanto gas serra quanto 5 milioni di automobili. Per denunciare l’assurdità del progetto di espansione oggi i manifestanti si dirigeranno verso l’area dove dovrebbe sorgere la nuova pista di atterraggio, e si disporranno lungo il terreno per segnarne simbolicamente con i propri corpi il futuro tracciato. Porteranno sulle mani le pagine del rapporto pubblicato dal Tyndall Center for Climate Research, che denuncia i rischi connessi all’espansione dell’industria del trasporto aereo, e una serie di cartelli che recitano quello che è diventato il motto di questo campeggio di protesta: «Siamo armati soltanto di scienza».
Nel pomeriggio il corteo si dirigerà verso il quartier generale di Baa, la compagnia proprietà della multinazionale spagnola Ferrovial responsabile della gestione dell’aeroporto, che ha tentato inutilmente di bloccare la protesta. Gruppi autonomi e coalizioni locali adotterano una strategia non-violenta e cercheranno di filtrare attraverso le linee di polizia, tentando di penetrare negli uffici e di bloccarli fino a lunedì mattina. Fronteggeranno forze dell’ordine che hanno già arrestato decine di persone e sono state autorizzate dal governo a utilizzare le leggi speciali contro il terrorismo pur di fermare gli attivisti.
«In ogni caso non vogliamo creare disturbi al traffico aereo o al traffico stradale - spiega Peter, uno dei ragazzi del centro stampa del campeggio. - Non ce l’abbiamo con i passeggeri ma con chi sta facendo profitti incredibili senza preoccuparsi delle conseguenze disastrose dei gas serra prodotti dal trasporto aereo».
Gli abitanti locali che lottano da anni contro l’espansione dell’aeroporto hanno accolto con curiosità e speranza l’arrivo di questa coalizione colorata. Magda, un’anziana abitante del villaggio di Sipson che verrà cancellato dalla costruzione della terza pista dell’aeroporto di Heathrow, mostra ai ragazzi foto d’epoca dell’abitato: il vecchio ufficio della posta, la chiesa, caseggiati del settecento: saranno tutti spazzati via assieme a settecento case su un area di oltre trecentocinquanta ettari.
«Qui abbiamo la nostra casa e i nostri affetti. Alla Baa non gliene importa niente. Questi ragazzi sono molto diversi da noi per ideali e stile di vita ma sono gli unici che ci stanno dando una mano per fare qualcosa. Temo che il progetto non si fermerà. In ogni caso è importante che continuiamo a protestare, questo è un messaggio chiaro per il governo», dice Magda.
La manifestazione è il prodotto di un movimento sociale che sta facendo breccia nell’opinione pubblica britannica e nella stampa progressista, e che sta mettendo in imbarazzo le lobby dell’industria del trasporto aereo. Di fronte all’ipocrisia di un governo che a lato di impegni formali altisonanti contro l’effetto serra ha caldeggiato l’espansione di una serie di aeroporti inglesi tra cui Stansted, Manchester e Birmingham, la campagna contro il cambiamento climatico sta offrendo a gruppi e individui un’occasione per agire in maniera diretta contro le cause dell’effetto serra e sviluppare proposte alternative Il campeggio vuole essere anche uno spazio dove sperimentare tecnologie sostenibili.
Oltre ai mulini a vento, 36 pannelli solari sono l’unica sorgente di energia per le apparecchiature elettriche, i rifiuti vengono riciclati rigorosamente, feci e urine sono utilizzati per produrre compost, mentre il cibo che viene servito è rigorosamente vegano e biologico. E le decisioni seguono il metodo del consenso. Visto dai finestrini degli aerei che riportano i turisti inglesi da vacanze in località soleggiate, il campeggio di protesta forse potrà sembrare un angolo folle del pianeta che sarà presto spazzato via dalle ragioni dell’espansione economica.
Ma le foto dei villaggi dello Oxfordshire allagati dalle pioggie torrenziali di quest’estate, che occupano le pareti delle tende del campeggio, sono un monito sul fatto che l’effetto serra è gia qui e che le conseguenze anche economiche saranno molto più alte del costo che bisogna affrontare per ridurre le emissioni di gas serra.
Come ricorda Martin, un ragazzo venuto dal Sussex: «Abbiamo poco tempo per agire, dieci, al massimo quindici anni. E questo mondo non ha uscite di sicurezza».

lunedì 9 luglio 2007

Ballando a Wembley per dimenticare al Qaeda

Due anni fa la povertà, quest'anno il cambiamento climatico. Si succedono i temi sotto i palchi dei mega-concerti umanitari londinesi. Nel catino di Wembley riscaldato dal bel sole dopo un inizio estate di pioggia continua circa 90 mila persone hanno partecipato al Live Earth, la maratona ecologista lanciata da Al Gore. Così due anni dopo il Live 8 organizzato da Bob Geldof e altri rockettari salva-mondo in corrispondenza con il G8 a Gleneagles in Scozia, ieri Londra è tornata ad ospitare un mega-concerto umanitario.
Mentre la memoria correva indietro a due anni fa, agli attentati del 7 luglio 2005, il cui orrore è stato ravvivato dai due attentati falliti di inizio mese a Londra e Glasgow che hanno rischiato di provocare una strage simile a quella del 2005, con le quattro esplosioni sulle linee della metropolitana e un bus a due piani e che provocarono 52 vittime e centinaia di feriti. Mentre questa mattina gli amplificatori si accendevano sul palco di Wembley di fronte alla stazione di King's Cross i parenti delle vittime si riunivano per commemorare quell'attacco criminale.
Se per gli organizzatori del Live Earth la data prescelta per il concerto 7-7-7 aveva un richiamo affascinante quasi escatologico, per i londinesi il 7-7 rimanda subito agli avvenimenti di due anni fa. La preoccupazione in questi giorni è alta anche per la sovrapposizione di una serie di eventi durante questo fine settimana, tra cui la storica partenza del Tour de France da Londra e il torneo di tennis a Wimbledon.
Così nel concerto di ieri a Wembley si riuniva anche una città che vuole dimenticare gli avvenimenti di due anni fa ma soprattutto vuole dimenticare di essere ancora uno degli obiettivi privilegiati del terrorismo qaedista. Dimenticare ballando di fronte ai propri gruppi preferiti, a vecchi mostri come i Genesis e i Duran Duran o nuove stelle come Snow Patrol, Razorlight, Red Hot Chilli Peppers e Black Eyed Peas. Ma anche sentendosi coinvolti nella campagna contro il cambiamento climatico, un variegato movimento di opinione pubblica che con particolare intensità negli ultimi due anni ha conquistato l'attenzione dei media inglesi contagiando politici a destra e a sinistra ed elevando l'ecologismo a un tema bipartisan e quasi a una moda, un nuovo fenomeno commerciale a cui contribuire con acquisti responsabili e un nuovo stile di vita firmato ma ecologicamente sostenibile.
Lo spettacolo di ieri a Wembley segnala alcune delle contraddizioni che si nascondono dietro questo movimento di opinione. Alcuni artisti come gli Arctic Monkeys non hanno voluto partecipare sostenendo che sarebbe stato ipocrita fare prediche sul cambiamento climatico quando l'illuminazione che utilizzano ai loro concerti potrebbe essere sufficiente per servire decine di case. Altri come i Red Hot Chilli Pepper non si sono fatti impensierire da questi scrupoli . Partiti con un jet privato da Parigi, sono ripartiti con un altro jet privato diretti in Danimarca, producendo un bel po' di anidride carbonica tra un giro e l'altro.
Nonostante questo atteggiamento ipocrita che contraddistingue molte fra le star presenti ieri a Wembley il pubblico è diventato l'obiettivo di una raffica di raccomandazioni: «Spegnete le luci quando uscite!», «Ricilate la vostra spazzatura!». Come succede tutti i giorni nei dibattiti tv ancora una volta la responsabilità per la lotta al cambiamento climatico è stata scaricata tutta sulle spalle degli individui, colpevolizzati oltre ogni ragionevolezza in un contesto in cui i governi e le multinazionali sembrano autorizzate a continuare con business as usual. È la festa rock del buonismo e delle organizzazioni non governative come Friends of the Earth che nel clima postideologico dell'Inghilterra progressista contemporanea riescono facilmente a neutralizzare politicamente temi scottanti come il cambiamento globale climatico.
Il modello del Live 8 di Bob Geldof è stato rimesso al lavoro e i risultati sono simili. Invece di essere un'occasione di denuncia sulle malefatte delle multinazionali e dei governi e della responsabilità nel disastro del cambiamento climatico globale l'evento si esaurisce in un fievole richiamo all'azione collettiva che riesce a tenere insieme un'ecologismo commercializzato, nuove ma soprattutto vecchie star della musica rock e gli interessi degli sponsor compresa la Chrysler, tra i maggiori produttori dei famigerati Suv. Miracoli dell'umanitarismo liberale.

domenica 10 giugno 2007

«Bloccare il G8 si può» La festa dei no global

«Abbiamo, abbiamo bloccato il G8!» Più che un corteo, quella che ha chiuso ieri a Rostock la settimana di mobilitazioni contro il G8 è stata una festa per il un successo che è andato oltre le previsioni degli stessi organizzatori. Alla porta est di Heiligendamm la gente aveva cominciato a già festeggiare l'altro ieri nell'ultima serata prima della fine dei blocchi, con la gente che ballava sulla strada «conquistata».
Celebrazioni durate tre giorni, con un'appendice conclusiva ieri sera nei campeggi, dove alle assemblee conclusive è seguita una notte di festa ai ritmi del drum'bass, mentre durante la giornata a Camp Rostock la gente aveva fatto il bagno nel gelido estuario del fiume Warnow. Lo spirito carnevalesco e di non-violenza che ha caratterizzato le proteste degli ultimi giorni è uno dei ricordi più positivi che i partecipanti si porteranno a casa dopo questa settimana anti-G8. Le immagini di gente che si mette a fare yoga davanti alla polizia alla porta ovest, degli attivisti che soffiano bolle di sapone contro i caschi dei reparti anti-sommossa e della Clown Army che irride l'apparato di sicurezza dispiegato contro i manifestanti hanno riscattato la bruttura della manifestazione di sabato con scontri che hanno fatto il gioco di chi vuole criminalizzare questo movimento.
Dopo oltre 48 ore, i blocchi attorno alla zona rossa di Heiligendamm sono stati smobilitati ieri mattina. Ma i partecipanti non hanno voluto ritirarsi in formazione sparsa. Al contrario, hanno voluto che la gente vedesse le facce di chi in questi giorni ha tenuto in scacco i collegamenti via terra verso il G8, costringendo il servizio di sicurezza ad acrobazie pur di portare giornalisti e delegati presso palazzo Kampinski, dove si sono tenuti i colloqui tra i grandi del pianeta.
E' cominciata così una specie di parata finale in cui la gente che convergeva verso la stazione di Bad Doberan era accolta dagli applausi e dalla curiosità degli abitanti che, dopo la diffidenza iniziale, ora sembra provare simpatia per questo esercito scomposto, colorato e giovanissimo. Poliziotti e attivisti che hanno giocato a guardia e ladri per due giorni si guardavano a distanza consci che ormai la partita è finita e «noi abbiamo vinto», come afferma Carolin, una attivista di Amburgo che ha partecipato al blocco di Boergerende.
«Il blocco è stato assolutamente pacifico. Una prova incredibile di non violenza nonostante la repressione della polizia: da parte nostra non c'è stato neppure uno spintone. Hanno provato a tirarci via in ogni modo con idranti e spray urticante, ma eravamo troppi e troppo forti Le persone locali ci hanno aiutato moltissimo e ci hanno portato cibo, acqua e caffè. Ora mi sento un po' triste per dover abbandonare questa gente magnifica, ma anche contenta di andare a casa mia ad Amburgo a farmi una bella doccia».
Mario, un ragazzo berlinese, spiega che questo blocco per lui è stato una specie battesimo di fuoco alla disobbedienza civile. Non mi ero mai interessato di politica, ma questi due giorni mi hanno lasciato un'impressione indelebile. Vedere tutta quella gente lottare assieme mi ha dato emozioni che non avevo mai provato prima. E pure il cibo non ci è mai mancato grazie al lavoro dei ragazzi delle cucine dei campeggi e della gente che ha fatto chilometri a piedi per portarci da mangiare».
Già da ieri sera alcune persone hanno cominciato ad abbandonare i campeggi anti-G8, molte dirette in massa a Berlino dove in questi giorni sono programmate una serie di altre azioni dirette. Per le persone che rimangono a Rostock stasera ci saranno una serie di feste sul porto e in giro per la città.
La strategia non-violenta di questi due giorni ha riguadagnato a questo movimento la fiducia della gente comune e ha dimostrato il potere che può avere l'azione coordinata e pacifica di migliaia di persone. E la gente che ha partecipato alle azioni torna a casa con il desiderio di condividere con amici e compagni l'esperienza di questi giorni ma anche con la voglia di dormire finalmente nel proprio letto dopo notti passate sull'asfalto delle strade che conducono verso la zona rossa.

giovedì 7 giugno 2007

«Il nostro obiettivo? Bloccare il summit»

L'istruttore incrocia le braccia sul petto. «Se usano i cani fate così. Non sporgete le mani in avanti altrimenti ve le mordono. In ogni caso i poliziotti cercheranno di non farvi mangiare, li useranno solo per spaventarvi». La gente ride esorcizzando la paura. In un prato di fianco all'accampamento di Reddelich, uno dei tre centri da cui partiranno gli attacchi verso la zona rossa di Heiligendamm, si svolgono le ultime sessioni di allenamento in vista dei blocchi che tenteranno di impedire lo svolgimento del G8. Diversi gruppi di attivisti discutono e si esercitano sull'erba preparandosi per le azioni di oggi.
I rappresentanti di Block G8, il network che sta coordinando la protesta contro il vertice e che ha organizzato una serie di blocchi di massa sulle strade che portano verso l'Hotel Kampinski, sede del summit, sostengono che la protesta sarà un successo anche se le persone non riusciranno a bloccare il vertice e prevedono che migliaia di persone parteciperanno alle loro azioni. Tuttavia ci sono una serie di gruppi più radicali nei campi anti-G8 che non si accontenteranno di una vittoria simbolica dopo tanta fatica e faranno di tutto per fermare il summit non solo simbolicamente.
Sin dall'alba di questa mattina decine di gruppi grandi e piccoli si saranno mossi da Camp Rostock, Wichmannsdorf e Reddelich muovendosi lungo le strade e camminando attraverso i campi e i boschi che separano questi campeggi dalla zona del vertice. L'idea è di circondare l'area separandola dalla zona circostante, bloccando l'arrivo delle delegazioni e i rifornimenti al vertice. Gli attivisti si sono organizzati con amici e compagni in gruppi di affinità o si sono aggregati alle tante formazioni organizzate. Ci sono gruppi come «i supereroi», che usano come simboli una serie di personaggi da cartoni animati, tra cui «la donna invisibile» e «captain mobility», o l'armata dei clown che si era resa famosa per una serie di blocchi durante il G8 del 2005 a Gleneagles in Scozia.
Ma ci sono anche una serie di altri gruppi più o meno organizzati che utilizzando strategie diverse tenteranno di mettere i bastoni fra le ruote al vertice. Alcuni hanno già perlustrato il percorso alla ricerca di falle nel sistema di sicurezza, attraverso le quali sperano di poter arrivare fino alla barriera di protezione e magari pure superarla. I diversi gruppi hanno anche preparato codici segreti nel linguaggio dei segni per comunicare in caso di attacco della polizia durante i blocchi. Sanno bene che in pochi arriveranno nella zona in cui hanno pianificato di svolgere la propria azione. Ma tutti proveranno a fare quanto gli è possibile per bloccare questo vertice.
Il coordinamento delle azioni è stato deciso ieri sera in assemblee «chiuse», con la speranza di evitare che la polizia venga a conoscenza troppo presto delle direzioni di azione delle diverse formazioni. Diversi gruppi utilizzeranno telefoni cellulari per coordinarsi in tempo reale e tenere assieme decine di azioni disperse. Così fino a ieri notte a camp Reddelich gli attivisti erano indaffarati nei preparativi della giornata odierna.
Con qualche avvertenza per chi si decide di passare all'azione. Mettere insieme uno zaino leggero, con cibo, un cambio di vestiti nel caso in cui si venga attaccati con spray o gas lacrimogeni, monete per chiamare il supporto legale in caso d'arresto e tanta acqua. Il necessario per resistere per 24 e anche 48 ore all'attacco delle forze di polizia, che adopereranno anche lacrimogeni e idranti di tutto pur di rimuovere i blocchi dei manifestanti. «E soprattutto non dimenticate la carta d'identità - raccomanda l'istruttore - o gli sbirri vi terranno per tutto il tempo che gli garba con la scusa di controllare la vostra identità». Nel campo di allenamento si mettono in opera le simulazioni di blocco. Le persone si mettono a terra in cerchio incrociando braccia e gambe e stringendosi l'un l'altro. Una persona fa la parte del poliziotto, tira e spinge con forza le persone sedute ma non riesce nè a separarle nè ad alzarle. Poi gli attivisti si cambiano di ruolo e ripetono la scena a parti inverse fino a che la pioggia non costringe la gente a rifugiarsi sotto le tende. Ma quest'oggi sarà molto più difficile resistere nella pratica agli attacchi della polizia. E in serata le carceri di Rostock potrebbero essere piene di gente che insiste per fare la telefonata che gli spetta di diritto.
Poi, domani, chi non sarà tra i fermati o non sarà riuscito nell'impresa di resistere più di 24 ore ai blocchi potrà partecipare a un altro appuntamento «caldo»: la «marcia a stella» che da quattro punti diversi convergerà verso la zona rossa.

domenica 22 aprile 2007

Il mito infranto di Tony Blair

Chi più del New Labour di Blair ha ispirato la corsa verso il centro del più grande partito della sinistra italiana? Vi ricordate quando nel 1998 nel centro-sinistra italiano si vagheggiava un «Ulivo mondiale», un'alleanza ideologica e addirittura una specie di internazionale che condensasse l'esperienza politica di Blair, Clinton e dei governi di Prodi e D'Alema? Blair e il suo Labour fornirono ai Ds, ansiosi di li berarsi dell'eredità del partito comunista, il modello per una «terza via» tra socialdemocrazia europea e democratismo americano.
Ora il New Labour sembra aver perso parte del suo fascino dopo i dissapori sulla guerra in Iraq e il beneplacito di Blair all'attacco israeliano contro il Libano, che hanno segnato una distanza nella poliutica estera. Ma non sono certo le politiche economiche neoliberiste e la privatizzazione selvaggia perseguite dal governo inglese in questi anni ad aver stemperato l'ammirazione per il "compagno Tony". Anzi, questo rimane uno dei punti di riferimento nel chiacchierato pantheon del Partito democratico.
Nel frattempo il mito di Blair si è sgretolato rapidamente a casa propria. Nei prossimi giorni i laburisti si avviano a celebrare dieci anni di guida ininterrotta del paese. Ma alla vigilia delle elezioni locali del 3 maggio, e alla soglia del passaggio di consegne tra Blair e il cancelliere Gordon Brown c'è poco da festeggiare. I sondaggi danno il Labour al 29%, il livello più basso da quando Blair è diventato premier. Il numero di iscritti si è più che dimezzato dall'entrata in carica di Blair mentre il partito ha perso pezzi a sinistra con alcuni transfughi che sono confluiti nella coalizione Respect. Certo la partecipazione entusiastica al programma bushiano di guerra al terrorismo ha segnato il punto di rottura irreversibile tra il governo e parte consistente della propria base elettorale. Ma anche sull'economia comincia ad avanzare il dissenso nel paese.
Blair ha superato Thatcher
Nonostante dieci anni di crescita economica si fanno sempre più chiari i sintomi di un'aumento dell'ineguaglianza sociale. Mentre i broker della City hanno recentemente festeggiato dividendi record, i lavoratori sono colpiti dalla precarizzazione e dai blocchi all'aumento dei salari. Il 10 % per cento della popolazione ora controlla il 54% della ricchezza nazionale mentre quasi un quarto dei bambini inglesi vive sotto la soglia di povertà: peggio che nell'era Thatcher. E la catena di accoltellamenti tra ragazzini negli ultimi mesi a Londra è la spia di un malessere sociale diffuso e di una cultura consumistica che nel sottoproletariato urbano si traduce nel motto "diventa ricco o muori provandoci". Nonostante ciò il governo continua a seguire una linea centrista e nell'ultima finanziaria il cancelliere Brown ha pure eliminato lo sconto fiscale per i redditi più bassi, per finanziare un taglio delle tasse al ceto medio.
Ora anche i sindacati, fino a poco tempo fa fedeli al governo laburista sono sul piede di guerra. Il primo maggio (giorno lavorativo in Inghilterra) si fermeranno i dipendenti pubblici e le infermiere preparano il primo sciopero nazionale nella storia inglese, in un servizio sanitario nazionale che è stato trasformato in uno spezzatino di subappalti privati. Quanto all'educazione, il governo ha introdotto le tasse universitarie e ridotto le borse di studio costringendo molti studenti a ricorrere a prestiti. L'indebitamento delle famiglie è diventato una bomba a orologeria: si calcola che ammonti a oltre mille miliardi di sterline e che più di 300 persone al giorno si dichiarino insolventi.
Se non bastasse, ora il partito laburista è pure coinvolto in uno scandalo per avere ottenuto prestiti in cambio di nomine alla camera dei Lord. In questa situazione preoccupante il cancelliere Gordon Brown si avvia a una successione alla carica di premier concordata con Tony Blair, che, secondo indiscrezioni, si dimetterà il 7 maggio dopo l'ormai inevitabile batosta nelle elezioni locali.
Il voto non arride al Labour
Al momento sembra che nessuno degli altri possibili candidati alla guida del partito, il socialista John McDonnell e il progressita Michael Meacher, potranno interferire con il passaggio di consegne. Ma con l'avvicinarsi delle elezioni politiche del giugno 2009 a Gordon Brown servirà un miracolo per ottenere il quarto mandato consecutivo per il Labour. Il candidato conservatore David Cameron ha guadagnato consensi raccattando diversi punti dell'agenda laburista e presentandosi come difensore dell'ambiente, censore della gestione attuale della sanità e della scuola e portatore di un approccio solidale al problema della sicurezza. Così a forza di correre verso il centro il Labour si è fatto superare "a sinistra" dai conservatori.

domenica 25 febbraio 2007

100 mila no a "Bliar"

«What do we want? World peace! When do we want it? Now!». La manifestazione si scalda mano a mano che la gente comincia a convergere verso lo Speaker's Corner in una Hyde Park bagnata da sprazzi di pioggia. La gente è accalcata e la divisione in diversi spezzoni del corteo salta sin dall'inizio per l'affollarsi dei manifestanti sul fango dei viali del parco. Decine e decine di bus hanno portato attivisti da Manchester, Leeds, Liverpool, Brighton, Oxford, Cambridge, Porstmouth, Bristol, Birmigham e molte altre città di tutta l'Inghilterra. E' una delle manifestazioni più grandi dalla «Big One», quella del 15 febbraio 2003. Quando finalmente la testa del corteo arriva a Trafalgar Square, la coda sta appena uscendo da Hyde Park. I partecipanti sono 100.000 per gli organizzatori, 20.000 per la polizia. Due le richieste: via subito le truppe dall'Iraq e no al rinnovo del sistema missilistico nucleare Trident.


Le migliaia di cartelli prestampati che si alzano come una foresta sopra le teste dei manifestanti ripetono gli slogan che hanno caratterizzato sin dall'inizio la campagna contro la guerra. La testa di Bush si staglia malefica sotto la scritta «Terrorista mondiale numero 1». Poco distante il corpo di Blair viene risucchiato dallo sciacquone con la didascalia «Blair Must Go». Enormi bandiere palestinesi e libanesi si allungano tra la gente mentre un finto missile Trident scorre tra il corteo che urla all'unisono «Troops Out Now!».


Un gruppo di sambisti balla una danza macabra: ragazze-scheletro, coperte di lunghi aculei «verde radioattivo», incedono lente dietro alle maschere di George Bush e Tony Blair che si scambiano baci, abbracci e arti mutilati. Un gruppo di pacifiste sessantenni canta a cappella «We Shall Overcome», mentre il piccolo spezzone degli autonomi avanza con i volti coperti, seguito attentamente da una pattuglia della polizia.


L'alto numero di partecipanti testimonia che il popolo pacifista inglese non si è fatto ammaliare dalla promessa di Blair di ritirare 1.200 militari dall'Iraq entro l'estate. Come spiega Lindsey German, coordinatrice di Stop the War, «non è abbastanza e non cambia niente. Nei prossimi mesi Blair invierà 1500 soldati in Afghanistan. E' semplicemente spostare le truppe da una parte all'altra. Ed è importante che continuiamo a manifestare perché, come si è visto in Italia, una manifestazione può far cadere un governo».


Se in Inghilterra una crisi di governo appare molto più improbabile che in Italia, c'è la convinzione che l'anticipo nell'avvicendamento tra Tony Blair e il suo cancelliere Gordon Brown sia in buona parte dovuto al disastro iracheno e alla pressione esercitata dalla campagna contro la guerra. Ciononostante c'è poca speranza che la politica estera muti radicalmente con il nuovo primo ministro. «Penso che Gordon Brown continuerà a fare le stesse cose che ha fatto Blair - afferma George, un attivista londinese - Abbiamo bisogno di un cambiamento profondo».


Tra i manifestanti oltre ai sindacati, agli studenti, ai gruppi pacifisti e alle organizzazioni cristiane, spiccano diversi partecipanti e organizzazioni musulmane. «Vedere persone bianche inglesi che dimostrano contro la guerra e in solidarietà con le comunità islamiche mi dà grande speranza - racconta Zehra, una ragazza britannica di origine irachena - però i musulmani in Inghilterra dovrebbero essere molto più attivi».


La maggioranza dei partecipanti continua a essere convinta che dimostrare sia importante quanto meno per scardinare il silenzio che avvolge la società inglese. «Dobbiamo smuovere l'apatia della maggioranza della gente - dice Francis - Dopo le mancate risposte del governo molti sono convinti che dimostrare non serva a niente».


Ma di fronte alla sordità dell'esecutivo c'è chi sostiene che in ogni caso questo movimento abbia lasciato una traccia indelebile che la politica istituzionale non potrà ignorare. «Sicuramente il movimento ha avuto dei risultati - afferma Keith, militante del Socialist Workers Party - Adesso sarà molto difficile per Blair o per ogni futuro Primo Ministro attaccare l'Iran o buttarsi in un'altra guerra come questa».