«What do we want? World peace! When do we want it? Now!». La manifestazione si scalda mano a mano che la gente comincia a convergere verso lo Speaker's Corner in una Hyde Park bagnata da sprazzi di pioggia. La gente è accalcata e la divisione in diversi spezzoni del corteo salta sin dall'inizio per l'affollarsi dei manifestanti sul fango dei viali del parco. Decine e decine di bus hanno portato attivisti da Manchester, Leeds, Liverpool, Brighton, Oxford, Cambridge, Porstmouth, Bristol, Birmigham e molte altre città di tutta l'Inghilterra. E' una delle manifestazioni più grandi dalla «Big One», quella del 15 febbraio 2003. Quando finalmente la testa del corteo arriva a Trafalgar Square, la coda sta appena uscendo da Hyde Park. I partecipanti sono 100.000 per gli organizzatori, 20.000 per la polizia. Due le richieste: via subito le truppe dall'Iraq e no al rinnovo del sistema missilistico nucleare Trident.
Le migliaia di cartelli prestampati che si alzano come una foresta sopra le teste dei manifestanti ripetono gli slogan che hanno caratterizzato sin dall'inizio la campagna contro la guerra. La testa di Bush si staglia malefica sotto la scritta «Terrorista mondiale numero 1». Poco distante il corpo di Blair viene risucchiato dallo sciacquone con la didascalia «Blair Must Go». Enormi bandiere palestinesi e libanesi si allungano tra la gente mentre un finto missile Trident scorre tra il corteo che urla all'unisono «Troops Out Now!».
Un gruppo di sambisti balla una danza macabra: ragazze-scheletro, coperte di lunghi aculei «verde radioattivo», incedono lente dietro alle maschere di George Bush e Tony Blair che si scambiano baci, abbracci e arti mutilati. Un gruppo di pacifiste sessantenni canta a cappella «We Shall Overcome», mentre il piccolo spezzone degli autonomi avanza con i volti coperti, seguito attentamente da una pattuglia della polizia.
L'alto numero di partecipanti testimonia che il popolo pacifista inglese non si è fatto ammaliare dalla promessa di Blair di ritirare 1.200 militari dall'Iraq entro l'estate. Come spiega Lindsey German, coordinatrice di Stop the War, «non è abbastanza e non cambia niente. Nei prossimi mesi Blair invierà 1500 soldati in Afghanistan. E' semplicemente spostare le truppe da una parte all'altra. Ed è importante che continuiamo a manifestare perché, come si è visto in Italia, una manifestazione può far cadere un governo».
Se in Inghilterra una crisi di governo appare molto più improbabile che in Italia, c'è la convinzione che l'anticipo nell'avvicendamento tra Tony Blair e il suo cancelliere Gordon Brown sia in buona parte dovuto al disastro iracheno e alla pressione esercitata dalla campagna contro la guerra. Ciononostante c'è poca speranza che la politica estera muti radicalmente con il nuovo primo ministro. «Penso che Gordon Brown continuerà a fare le stesse cose che ha fatto Blair - afferma George, un attivista londinese - Abbiamo bisogno di un cambiamento profondo».
Tra i manifestanti oltre ai sindacati, agli studenti, ai gruppi pacifisti e alle organizzazioni cristiane, spiccano diversi partecipanti e organizzazioni musulmane. «Vedere persone bianche inglesi che dimostrano contro la guerra e in solidarietà con le comunità islamiche mi dà grande speranza - racconta Zehra, una ragazza britannica di origine irachena - però i musulmani in Inghilterra dovrebbero essere molto più attivi».
La maggioranza dei partecipanti continua a essere convinta che dimostrare sia importante quanto meno per scardinare il silenzio che avvolge la società inglese. «Dobbiamo smuovere l'apatia della maggioranza della gente - dice Francis - Dopo le mancate risposte del governo molti sono convinti che dimostrare non serva a niente».
Ma di fronte alla sordità dell'esecutivo c'è chi sostiene che in ogni caso questo movimento abbia lasciato una traccia indelebile che la politica istituzionale non potrà ignorare. «Sicuramente il movimento ha avuto dei risultati - afferma Keith, militante del Socialist Workers Party - Adesso sarà molto difficile per Blair o per ogni futuro Primo Ministro attaccare l'Iran o buttarsi in un'altra guerra come questa».
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