giovedì 22 gennaio 2009

«Tel Aviv vuole eliminare la categoria di rifugiato» - Intervista con Eyal Weizman

Jabalya, Deir el-Balah, el-Maghazi, Bureij, Buseirat. I nomi di questi e altri campi profughi hanno riempito nei giorni scorsi i bollettini dell'attacco israeliano contro Gaza. Per Eyal Weizman, architetto israeliano, direttore del Centre for Research Architecture del Goldsmiths College all'università di Londra - che analizza da tempo lo spazio del conflitto israelo-palestinese - questo non è un caso. L'autore di «Politics of Verticality» e «The Hollow Land» - che verrà pubblicato a Marzo in Italia come «Terra Vacua» per Bruno Mondadori sostiene che «ora che l'attacco è finito comincerà un piano di ricostruzione che finirà per avere questo risultato: mettere fine ai rifugiati come categoria politica».

Perché gli attacchi israeliani si sono concentrati tanto sui campi rifugiati attorno a Gaza?

Prima di tutto dobbiamo capire la geografia della Striscia di Gaza, che è di fatto un arcipelago di campi profughi. Più di due terzi dei suoi abitanti - un milione di persone - sono registrati come rifugiati. Gli israeliani hanno sempre guardato ai campi come a una fonte di instabilità politica. Molti in Israele contestano la condizione di rifugiati rivendicata dai palestinesi. L'esistenza dei rifugiati è ciò che nega ad Israele legittimità morale. La richiesta di ritorno fatta dai rifugiati rappresenta una minaccia continua per l'esistenza stessa di Israele. In questo senso gli attacchi ai campi sono un tentativo di costringere chi vi abita a rinunciare al proprio stato e stabilirsi in modo permanente nelle città. Questo non vuol dire che Israele non abbia attaccato pesantemente pure le città - in questa come in altre occasioni - ma quello che si vede è che il livello di distruzione non è paragonabile a quello creato nei campi profughi.

Che cosa succederà ai campi profughi della Striscia di Gaza ora che l'attacco è terminato?

Comincerà un grande piano di ricostruzione che ristrutturerà il territorio della Striscia. Mentre prima Israele bloccava la fornitura di cemento alla Striscia, sostenendo che sarebbe stato usato per costruire tunnel, ora lascerà spazio a un programma coordinato a livello internazionale. Ci sono stati già incontri con leader degli Emirati Arabi, che hanno raccolto centinaia di milioni di dollari per la ricostruzione di Gaza con l'obiettivo di rimpiazzare 1300 case, scuole e moschee bombardate dagli israeliani. Dopo la distruzione arriva sempre la ricostruzione.

Non dovremmo essere felici per l'avvio di progetti di ricostruzione?

In realtà dobbiamo guardare criticamente a questi piani, tenendo in conto che distruzione e ricostruzione sono azioni complementari che sono in parte mirate ad eliminare i campi rifugiati e cosi pure la figura del rifugiato come categoria politica. Israele attraverso i suoi bombardamenti cerca di anticipare e influenzare gli sforzi di ricostruzione. I campi profughi finiscono nel mirino come parte di una strategia per rendere lo spazio della Striscia di Gaza più stabile politicamente. Israele li distrugge nella consapevolezza che agenzie umanitarie internazionali e la filantropia araba - interessate anch'esse a garantire stabilità politica - li sostituiranno con nuove costruzioni più controllabili.

La ricostruzione costituirebbe dunque un'ulteriore minaccia per i rifugiati nella Striscia?

Certamente molti rifugiati sono consapevoli che la ricostruzione rischia di privarli dello stato di rifugiati trasformandoli in abitanti comuni. Per capire la complicità tra distruzione e ricostruzione basta guardare indietro al 1971-72, dieci anni prima di Sabra e Chatila, quando Sharon era il generale in comando della Striscia di Gaza. In quel periodo Sharon prese di mira in particolare i campi rifugiati lasciandosi dietro non solo una marea di morti ma pure distese di macerie. Poi dopo la distruzione dei campi fu il fautore di enormi progetti abitativi per i rifugiati. Simili progetti sono stati condotti negli anni passati nei paesi vicini come la Giordania, la Siria e pure il Libano dopo la recente distruzione del campo di Nahr el-Bared.

L'assedio a Gaza rappresenta lo stadio finale di questa strategia contro i rifugiati? C'è addirittura chi la vede come un enorme campo di concentramento...

Il campo di concentramento ha una particolare connotazione storica e io penso che non dovremmo usare questo termine. Piuttosto la Striscia di Gaza è un'enclave, uno spazio superdenso abitato da una popolazione sradicata che dipende da Israele per i flussi di risorse e per le infrastrutture. Per i rifugiati Gaza è come un capolinea. Da lì non c'è nessun altro posto dove andare a rifugiarsi.

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