«Siamo stati alla finestra tutti questi mesi per vedere se in Italia si muoveva qualcosa per il G8 - dice contrariata Hannah Jobst di Gipfelsoli, uno dei gruppi che sono stati al centro delle proteste contro il G8 negli ultimi anni - Purtroppo fino ad ora si è visto poco o niente. Grandi proteste come quelle viste in altri G8 non sono cose che si improvvisano. E se non arriva presto qualche segnale di mobilitazione dall'Italia, la gente se ne starà a casa».
Se la decisione di Berlusconi di spostare il G8 dalla Maddalena all'Aquila, nella certezza che i «no global non avranno la faccia di venire a manifestare», ha provocato nei giorni scorsi alcune reazioni d'orgoglio all'interno del movimento altermondialista italiano, con la promessa da parte di Casarini e Caruso che le proteste si faranno, bassa è al momento l'allerta del mondo attivista europeo. Nessun segno di quell'entusiasmo che attraversò l'Europa nei mesi precedenti Genova 2001 e molta delusione per la mancanza di iniziativa da parte dei no global italiani.
«Le ragioni della mancanza di entusiasmo sono molte - spiega Tadzio Muller direttore del magazine anti-capitalista Turbulence - Prima di tutto c'è la diffidenza verso iniziative come il controvertice che secondo alcuni ha mostrato la corda. Poi c'è il fatto che il G8 non e più così importante come era un tempo. Oggi il vertice che conta veramente è il G20, dove c'è anche la Cina. Ma il fattore più importante è il fatto che in Europa si ha la sensazione che il movimento italiano sia in letargo. Del resto l'Italia oggi non è più quel laboratorio politico per il movimento europeo che fu negli anni passati. Ora le innovazioni sul fronte delle lotte sociali avvengono altrove».
Di fronte a questa situazione di incertezza al momento i programmi dei gruppi della sinistra radicale europea in vista del G8 si limitano a proteste decentralizzate. Una è già in programma a Berlino durante i giorni del vertice per manifestare contro il sistema securitario sostenuto dal G8, mentre proteste contro la crisi economica potrebbero essere organizzate a Londra e Tokyo. Nessuno esclude tuttavia che la situazione cambi se qualche segno di risveglio arrivasse dai no global della penisola.
«Se gli italiani mostreranno di avere una strategia chiara per contrastare il G8 allora il movimento europeo si mobiliterà per partecipare alle proteste - afferma Max di AntiFa Berlino, nodo centrale della rete di gruppi antifascisti tedeschi che in passato hanno partecipato in massa alle proteste contro il G8 - Io del resto non sono convinto da chi afferma che non è più tempo di proteste contro il G8. Con le proteste degli anni scorsi siamo riusciti a far tornare i leader del mondo con i piedi per terra. Smettere ora, quando sono vicini al ko, sarebbe stupido». Una delle proposte avanzate da molti è che la mobilitazione contro il G8 provi a sperimentare le nuove forme di protesta sviluppate negli ultimo anni sul fronte della lotta al cambiamento climatico. «Le proteste contro il G8 all'Aquila sarebbero un'ottima opportunità per fare vedere che c'è un modo diverso di ricostruire il territorio, che non è quello dettato da Berlusconi e dall'Impregilo, ma un modello sostenibile - afferma Susan un'attivista inglese coinvolta in Dissent, la rete che ha sostenuto le mobilitazioni contro il G8 a Gleneagles nel 2005 e a Heiligendamm nel 2007 - Si potrebbe pensare a qualcosa di simile ai campeggi contro il cambiamento climatico che si stanno diffondendo rapidamente in tutta Europa. Del resto in Abruzzo ci sono già campeggi di solidarietà dal basso messi su da attivisti per assistere le vittime del terremoto».
martedì 28 aprile 2009
domenica 26 aprile 2009
La polizia tenta di reclutare spie tra gli ambientalisti
«Che ne dici se trovassimo una maniera di collaborare... una specie di lavoro? Un po' di soldi per ripagare i prestiti per l'università ti farebbero comodo no?». La voce dei due agenti scozzesi della Strathclyde Police intenti a convincere Matilda Gifford sono calme e professionali, quasi che si trattasse di una innocente proposta di lavoro e non del tentativo di reclutare una spia. Non sanno che l'attivista ecologista, parte del gruppo anti-aviazione Plane Stupid li sta registrando e che da lì a pochi giorni, estratti della discussione finiranno sulla prima pagina del Guardian, fornendo nuovo carburante all'indignazione dell'opinione pubblica verso la polizia britannica, la cui reputazione e già a pezzi dopo la mano dura usata contro i manifestanti durante il G20.
I due agenti approcciarono la Gifford quando fu rilasciata su cauzione, in seguito alla sua partecipazione ad una protesta all'aeroporto di Aberdeen. L'attivista accettò di partecipare a due incontri, che si svolsero alla stazione di polizia di Glasgow, e nel parcheggio di un supermercato, nella speranza di documentare il tentativo di reclutamento e poter cosi successivamente «svelare i metodi usati dalla polizia per reprimere manifestazioni pacifiche».
Le registrazioni evidenziano come la polizia fosse disposta a pagare decine di migliaia di sterline in cambio di informazioni sulle attivita di Plane Stupid, gruppo responsabile di azioni dirette non violente tra cui l'occupazione del tetto del parlamento nel febbraio 2008, di una pista dell'aeroporto di Stansted a Londra lo scorso dicembre, e di una simile incursione all'aeroporto di Aberdeen in Scozia, due mesi fa.
Dalle conversazioni emerge pure come la polizia inglese possegga già centinaia di infiltrati nel movimento ambientalista e nella sinistra radicale del Regno unito. «Abbiamo a nostra disposizione uomini e donne che giorno dopo giorno fanno il loro lavoro. - affermano gli agenti - Gente che ogni giorno va in giro a lavorare per noi. E poi la sera torna a casa come se niente fosse. Siamo dappertutto. Tu potresti continuare ad avere la tua vita. Soltanto quando ti capitasse di andare a qualche riunione a cui andresti comunque, dopo potresti incontrarti pure con noi... capito? Che so una volta ogni due settimane, o pure una volta a settimana. E' questo il tipo di cose che vorremmo da te». «Questo caso fa vedere fino a che punto sia disposta ad arrivare la polizia per reprimere proteste pacifiche - afferma al telefono Dan Glass, portavoce di Plane Stupid - E' uno scandalo che si usino una valanga di soldi pubblici per operazioni di spionaggio sul movimento. Questo caso non potrà che erodere quel poco di fiducia che la gente ha ancora nel sistema giudiziario e nella polizia. Purtroppo ancora una volta le forze dell'ordine sembrano essere a libro paga delle compagnie che inquinano il pianeta e non dei cittadini».
La nuova prova dell'atteggiamento repressivo della polizia britannica nei confronti dei movimenti sociali giunge a poco meno di un mese dalla bufera suscitata dal caso di Ian Tomlinson, l'uomo morto dopo essere stato buttato a terra da un agente anti-sommossa durante il G20.
I due agenti approcciarono la Gifford quando fu rilasciata su cauzione, in seguito alla sua partecipazione ad una protesta all'aeroporto di Aberdeen. L'attivista accettò di partecipare a due incontri, che si svolsero alla stazione di polizia di Glasgow, e nel parcheggio di un supermercato, nella speranza di documentare il tentativo di reclutamento e poter cosi successivamente «svelare i metodi usati dalla polizia per reprimere manifestazioni pacifiche».
Le registrazioni evidenziano come la polizia fosse disposta a pagare decine di migliaia di sterline in cambio di informazioni sulle attivita di Plane Stupid, gruppo responsabile di azioni dirette non violente tra cui l'occupazione del tetto del parlamento nel febbraio 2008, di una pista dell'aeroporto di Stansted a Londra lo scorso dicembre, e di una simile incursione all'aeroporto di Aberdeen in Scozia, due mesi fa.
Dalle conversazioni emerge pure come la polizia inglese possegga già centinaia di infiltrati nel movimento ambientalista e nella sinistra radicale del Regno unito. «Abbiamo a nostra disposizione uomini e donne che giorno dopo giorno fanno il loro lavoro. - affermano gli agenti - Gente che ogni giorno va in giro a lavorare per noi. E poi la sera torna a casa come se niente fosse. Siamo dappertutto. Tu potresti continuare ad avere la tua vita. Soltanto quando ti capitasse di andare a qualche riunione a cui andresti comunque, dopo potresti incontrarti pure con noi... capito? Che so una volta ogni due settimane, o pure una volta a settimana. E' questo il tipo di cose che vorremmo da te». «Questo caso fa vedere fino a che punto sia disposta ad arrivare la polizia per reprimere proteste pacifiche - afferma al telefono Dan Glass, portavoce di Plane Stupid - E' uno scandalo che si usino una valanga di soldi pubblici per operazioni di spionaggio sul movimento. Questo caso non potrà che erodere quel poco di fiducia che la gente ha ancora nel sistema giudiziario e nella polizia. Purtroppo ancora una volta le forze dell'ordine sembrano essere a libro paga delle compagnie che inquinano il pianeta e non dei cittadini».
La nuova prova dell'atteggiamento repressivo della polizia britannica nei confronti dei movimenti sociali giunge a poco meno di un mese dalla bufera suscitata dal caso di Ian Tomlinson, l'uomo morto dopo essere stato buttato a terra da un agente anti-sommossa durante il G20.
giovedì 23 aprile 2009
La Gran Bretagna torna «socialista»: aumentate le tasse ai più ricchi
«Aumenteremo l'aliquota per i redditi più alti». Quando ieri il cancelliere dello scacchiere Alistair Darling ha sfoderato questa sorpresa dalla mitica red box - la valigietta rossa, già appartenuta a Gladstone, e in cui ancora oggi ogni anno viene trasportato il budget report in parlamento - un tremolio ha percorso i divani verdi di Westminster. Era dal 1979, da quando la Thatcher prese il potere, che nell'aula dei Commons non si sentiva una cosa del genere. «Sogno o son desto?», sembrava dire il volto dell'erede alla guida dei conservatori David Cameron, mentre gongolavano gli ultimi banchi, riserva indiana dei pochi «socialisti» sopravvissuti al decennio New Labour.
Di fronte a una crisi nera, che quest'anno si mangerà oltre il 4% dell'economia nazionale, il governo si è visto costretto a violare il dogma del taglio alle tasse: l'aliquota per chi guadagna da 150 mila sterline in su - il 2% della popolazione - viene portata dal 40 al 50%. Siamo anni luce dal «socialista» 83% per i redditi più alti che vigeva ai tempi di «faccia di sole» Jim Callaghan, premier tra il '76 e il '79. Ma di fronte all'insofferenza dell'opinione pubblica nei confronti dei «gatti grassi» dell'alta borghesia, il Labour si è visto costretto a un pur timido ritorno al piatto della casa: la redistribuzione del reddito.
A dire il vero, più che i ricchi a pagare la crisi saranno ancora una volta i poveri e la spesa pubblica, a cui vengono tolti 15 miliardi di sterline di «risparmi in efficienza» e la cui crescita viene limitata allo 0,7% per i prossimi anni. Una misura con cui il Labour cerca di tenere buono il mondo finanziario - che ieri ha risposto alla presentazione della finanziaria con un nuovo crollo in borsa - inorridito da un deficit pubblico annuo destinato a superare il 10% il prossimo anno. Il Regno Unito, già paese di famiglie indebitatissime, si appresta così a diventare pure un paese ad alto debito pubblico: oltre l'80% del Pil nel giro di 5 anni.
David Cameron, che non vede l'ora di arrivare alle elezioni previste tra un anno, ha criticato duramente la finanziaria, definendo il governo «incompetente» e paventando il dramma delle future generazioni schiacciate dal debito pubblico. Darling gli ha risposto che «non si puo uscire dalla crisi con i tagli alla spesa, ma soltanto con la crescita». Crescita che secondo Darling ritornerà a farsi viva già il prossimo anno con un Pil al +1,25%. Peccato che l'ottimismo del cancelliere sia stato immediatamente smentito dagli economisti dell' Fmi, secondo cui la recessione continuerà anche l'anno prossimo.
Le magre speranze di ripresa sono appese a un piatto misto di misure con cui Darling si è giocato i pochi soldi a sua disposizione. Due miliardi di sterline per un programma di creazione di posti di lavoro, di fronte a una disoccupazione a quota 6,7%, e un contributo rottamazione da 2 mila sterline per dare fiato all'industria automobilistica. Il tutto servito con un contorno verde, in cui figurano mezzo miliardo per la creazione di parchi eolici e 400 milioni di fondi per tecnologie a basso impatto ambientale.
Per essere probabilmente l'ultima finanziaria targata Gordon Brown e la prima finanziaria dopo l'inizio della «grande crisi», pubblico e commentatori si aspettavano qualcosa in più. Ma dopo aver speso centinaia di miliardi di sterline per salvare i banchieri sono rimaste solo briciole per salvare le classi popolari, colpite da aumenti dell'Iva nascosti alle pieghe della finanziaria. A essere colpita pure la bevanda nazionale: un penny in più di tasse per ogni pinta di birra.
Di fronte a una crisi nera, che quest'anno si mangerà oltre il 4% dell'economia nazionale, il governo si è visto costretto a violare il dogma del taglio alle tasse: l'aliquota per chi guadagna da 150 mila sterline in su - il 2% della popolazione - viene portata dal 40 al 50%. Siamo anni luce dal «socialista» 83% per i redditi più alti che vigeva ai tempi di «faccia di sole» Jim Callaghan, premier tra il '76 e il '79. Ma di fronte all'insofferenza dell'opinione pubblica nei confronti dei «gatti grassi» dell'alta borghesia, il Labour si è visto costretto a un pur timido ritorno al piatto della casa: la redistribuzione del reddito.
A dire il vero, più che i ricchi a pagare la crisi saranno ancora una volta i poveri e la spesa pubblica, a cui vengono tolti 15 miliardi di sterline di «risparmi in efficienza» e la cui crescita viene limitata allo 0,7% per i prossimi anni. Una misura con cui il Labour cerca di tenere buono il mondo finanziario - che ieri ha risposto alla presentazione della finanziaria con un nuovo crollo in borsa - inorridito da un deficit pubblico annuo destinato a superare il 10% il prossimo anno. Il Regno Unito, già paese di famiglie indebitatissime, si appresta così a diventare pure un paese ad alto debito pubblico: oltre l'80% del Pil nel giro di 5 anni.
David Cameron, che non vede l'ora di arrivare alle elezioni previste tra un anno, ha criticato duramente la finanziaria, definendo il governo «incompetente» e paventando il dramma delle future generazioni schiacciate dal debito pubblico. Darling gli ha risposto che «non si puo uscire dalla crisi con i tagli alla spesa, ma soltanto con la crescita». Crescita che secondo Darling ritornerà a farsi viva già il prossimo anno con un Pil al +1,25%. Peccato che l'ottimismo del cancelliere sia stato immediatamente smentito dagli economisti dell' Fmi, secondo cui la recessione continuerà anche l'anno prossimo.
Le magre speranze di ripresa sono appese a un piatto misto di misure con cui Darling si è giocato i pochi soldi a sua disposizione. Due miliardi di sterline per un programma di creazione di posti di lavoro, di fronte a una disoccupazione a quota 6,7%, e un contributo rottamazione da 2 mila sterline per dare fiato all'industria automobilistica. Il tutto servito con un contorno verde, in cui figurano mezzo miliardo per la creazione di parchi eolici e 400 milioni di fondi per tecnologie a basso impatto ambientale.
Per essere probabilmente l'ultima finanziaria targata Gordon Brown e la prima finanziaria dopo l'inizio della «grande crisi», pubblico e commentatori si aspettavano qualcosa in più. Ma dopo aver speso centinaia di miliardi di sterline per salvare i banchieri sono rimaste solo briciole per salvare le classi popolari, colpite da aumenti dell'Iva nascosti alle pieghe della finanziaria. A essere colpita pure la bevanda nazionale: un penny in più di tasse per ogni pinta di birra.
sabato 18 aprile 2009
«Non è stato un infarto». L'autopsia sconfessa Scotland Yard
«Prima ci hanno detto che non c'era stato nessun contatto con la polizia. Poi ci hanno detto che era morto per infarto. Adesso sappiamo che è stato violentemente assalito da un agente ed è morto per emorragia interna. Speriamo che un giorno sia finalmente possibile ricostruire tutta la verità sulla morte di Ian».
La dichiarazione indignata della famiglia di Tomlinson riflette l'incredulità e la rabbia di fronte alle bugie della polizia inglese, dopo che il risultato della seconda autopsia ha gettato nuovo fango sul blasone di Scotland Yard. Ian Tomlinson, il giornalaio della City, deceduto durante le proteste contro il G20, nella sera del primo aprile, è morto per «emorragia addominale» e non per cause naturali, come sostenuto in un primo momento. Così per l'agente responsabile della morte - che ieri è stato finalmente interrogato sulla vicenda, ma di cui ancora non si conoscono le generalità - si fa sempre più probabile l'accusa di omicidio preterintenzionale. Un reato per cui in Inghilterra il massimo della pena è l'ergastolo.
I risultati del secondo esame post-mortem sono stati resi noti ad oltre una settimana di distanza dalla nuova autopsia, a conferma dell'imbarazzo che il caso sta creando alle forze dell'ordine d'oltremanica. Nonostante il linguaggio anodino, dal documento traspare un ribaltamento completo dei risultati del primo esame. Per il dottor Nat Cary, incaricato della nuova verifica, nonostante il cadavere di Ian Tomlinson mostri un indurimento delle arterie, il decesso non è dovuto ad infarto ma ad «emorragia addominale», la cui causa - si affretta a chiarire il comunicato - «non è ancora accertata». Il documento svela pure come già nella prima autopsia - condotta dal dottor Freddy Patel - fosse stata ravvisata «una sostanziale presenza di sangue nella cavità addominale». Perché la tesi dell'infarto allora? Un semplice errore o qualcosa di più?
Così in molti adesso si chiedono se la prima autopsia non sia stata manipolata dalla polizia. Ad alimentare i sospetti è la scelta come responsabile di un esame tanto delicato, di Freddy Patel, un dottore che in passato era già finito sotto inchiesta. Nel 1999 Patel fu multato dall'ordine dei medici dopo aver fatto trapelare dettagli privati su Roger Sylvester, un trentenne nero, morto in circostanze dubbie dopo essere stato fermato dalla polizia. Nel 2002 invece il dottor Patel dichiarò come morte per cause naturali, quella di Sally White una ragazza di 38 anni, rinvenuta dalla polizia nella camera da letto del maniaco Anthony Hardy, che successivamente uccise altre due ragazze. Una storia professionale discutibile che sembra ora destinata a macchiarsi di nuovo.
Il risultato della seconda autopsia giunge a due settimana dal decesso, dopo giorni durante i quali la versione sostenuta dalla polizia è già stata contraddetta da filmati che mostravano Tomlinson venire manganellato e cadere violentemente a terra dopo uno spintone alle spalle. Negli ultimi giorni su Internet sono comparsi nuovi filmati che forniscono ulteriori dettagli sulla morte di Tomlinson e illustrano altri casi di violenza della polizia contro i manifestanti durante le proteste attorno alla Banca d'Inghilterra. Mentre lo scandalo sulla brutalità della polizia contro i manifestanti del G20 viene alimentato ogni giorno da nuove rivelazioni, nessuna conseguenza ha toccato fino ad ora i vertici delle forze dell'ordine che hanno coordinato la repressione delle proteste.
La dichiarazione indignata della famiglia di Tomlinson riflette l'incredulità e la rabbia di fronte alle bugie della polizia inglese, dopo che il risultato della seconda autopsia ha gettato nuovo fango sul blasone di Scotland Yard. Ian Tomlinson, il giornalaio della City, deceduto durante le proteste contro il G20, nella sera del primo aprile, è morto per «emorragia addominale» e non per cause naturali, come sostenuto in un primo momento. Così per l'agente responsabile della morte - che ieri è stato finalmente interrogato sulla vicenda, ma di cui ancora non si conoscono le generalità - si fa sempre più probabile l'accusa di omicidio preterintenzionale. Un reato per cui in Inghilterra il massimo della pena è l'ergastolo.
I risultati del secondo esame post-mortem sono stati resi noti ad oltre una settimana di distanza dalla nuova autopsia, a conferma dell'imbarazzo che il caso sta creando alle forze dell'ordine d'oltremanica. Nonostante il linguaggio anodino, dal documento traspare un ribaltamento completo dei risultati del primo esame. Per il dottor Nat Cary, incaricato della nuova verifica, nonostante il cadavere di Ian Tomlinson mostri un indurimento delle arterie, il decesso non è dovuto ad infarto ma ad «emorragia addominale», la cui causa - si affretta a chiarire il comunicato - «non è ancora accertata». Il documento svela pure come già nella prima autopsia - condotta dal dottor Freddy Patel - fosse stata ravvisata «una sostanziale presenza di sangue nella cavità addominale». Perché la tesi dell'infarto allora? Un semplice errore o qualcosa di più?
Così in molti adesso si chiedono se la prima autopsia non sia stata manipolata dalla polizia. Ad alimentare i sospetti è la scelta come responsabile di un esame tanto delicato, di Freddy Patel, un dottore che in passato era già finito sotto inchiesta. Nel 1999 Patel fu multato dall'ordine dei medici dopo aver fatto trapelare dettagli privati su Roger Sylvester, un trentenne nero, morto in circostanze dubbie dopo essere stato fermato dalla polizia. Nel 2002 invece il dottor Patel dichiarò come morte per cause naturali, quella di Sally White una ragazza di 38 anni, rinvenuta dalla polizia nella camera da letto del maniaco Anthony Hardy, che successivamente uccise altre due ragazze. Una storia professionale discutibile che sembra ora destinata a macchiarsi di nuovo.
Il risultato della seconda autopsia giunge a due settimana dal decesso, dopo giorni durante i quali la versione sostenuta dalla polizia è già stata contraddetta da filmati che mostravano Tomlinson venire manganellato e cadere violentemente a terra dopo uno spintone alle spalle. Negli ultimi giorni su Internet sono comparsi nuovi filmati che forniscono ulteriori dettagli sulla morte di Tomlinson e illustrano altri casi di violenza della polizia contro i manifestanti durante le proteste attorno alla Banca d'Inghilterra. Mentre lo scandalo sulla brutalità della polizia contro i manifestanti del G20 viene alimentato ogni giorno da nuove rivelazioni, nessuna conseguenza ha toccato fino ad ora i vertici delle forze dell'ordine che hanno coordinato la repressione delle proteste.
giovedì 9 aprile 2009
«Lavoratori fregati? Noi resistiamo»
«Ci hanno chiamato tutti quanti a raduno alla fine del turno - spiega Pasquale, 43 anni, immigrato italiano di seconda generazione, l'accento casertano, appena spezzato da trent'anni vissuti nel regno di Elisabetta II -. Gli ci sono voluti 6 minuti per dirci che eravamo licenziati. Ce ne siamo andati tutti quanti a casa, rassegnati. Quasi senza dirgli niente a quelli, tanto eravamo choccati. Dopo tanti anni di lavoro essere trattati così, come animali!». Fuori dal cancello della fabbrica occupata della Visteon, una sussidiaria della Ford che produceva parti di plastica per automobile, stanno parcheggiate le utilitarie delle famiglie che hanno appena portato da mangiare ai lavoratori barricati nello stabilimento. Donne e bambini inglesi, indiani, lituani, italiani, giamaicani.
La fabbrica - a Enfield nella periferia a nord di Londra - è stata occupata il 1 aprile assieme a due altri stabilimenti, quello di Basildon nell'Essex, dove l'occupazione è già stata sgomberata e quello di Belfast nell'Irlanda del Nord, dove invece prosegue. 600 lavoratori hanno perso il posto per la chiusura della Visteon. Solo qui a Londra, per 200 persone si prospetta la disoccupazione. Ma i lavoratori non si rassegnano.
All'entrata della fabbrica uno striscione da il benvenuto ai visitatori denunciando «Banchieri salvati - Lavoratori fregati». Sulla balconata al di là dei cancelli, le bandiere del sindacato, e un cartello che avverte le autorità e i proprietari di tenersi alla larga. Su una rete dall'altro lato della strada messaggi di sostegno, cartelli e bandiere di sindacati, gruppi socialisti ed anarchici. Sopra le teste degli attivisti e della gente comune venuta a portare la propria solidarietà un cielo azzurro «che sembra di essere in Italia» appena punteggiato da nuvole, che proiettano la loro ombra sui capannoni abbandonati di questo distretto industriale dimenticato.
«Ci è voluta una notte per riprenderci dallo choc - spiega Maria, originaria di Canicattì -. Sono stati i più giovani a cominciare. Si sono detti no, questo non va bene. Si sono incontrati e ci hanno mandato a tutti degli Sms. Il mattino seguente alle dieci ci siamo ritrovati laggiù sulla strada che porta alla fabbrica. Eravamo arrabbiati! - dice quasi sottovoce, menando la mano nell'aria come se si fosse appena scottata - Arrabbiati si.. ma che cosa fare mica lo sapevamo! Poi qualcuno dei ragazzi che era andato a dare un'occhiata ci viene incontro con un sorriso e ci dice "si sono dimenticati un cancello aperto!". Un gruppo di uomini è entrato ed ha occupato lo stabilimento». A noi al momento nello stabilimento non ci fanno entrare. «Motivi di sicurezza» ci spiegano. Allora Carmine, un'altro operaio di origine italiana che lavora per la Visteon, decide di portarci a vedere i pezzi già lavorati, stoccati di fronte all'impianto. Centinaia di sagome di plastica nera, interni di automobile giacciono sull'asfalto. «Questo è l'interno di una Land Rover» - dice Carmine sollevando un pezzo di plastica ormai destinato alla spazzatura. «Mi sa che di questi tempi non c'è molta gente che si compra una Land Rover» obiettiamo. «Mica solo la Land Rover. Neppure Toyota, Ford o altri marchi più economici si comprano. La gente i soldi che c'ha li usa per comprarsi il pane mica le macchine!». Pasquale invece ci spiega la tecnica di lavorazione, l'iniezione di plastica nello stampo, la schiumatura, la verniciatura degli interni. Processi che ha imparato nei vent'anni passati in questa fabbrica. «Che deve fare la gente una volta che ha finito di lavorare qua? Mica siamo lavoratori qualificati noi. Fuori di qua un lavoro non ce lo da nessuno».
Gente con i mutui da pagare, con i figli da mandare a scuola. Gente che si era illusa che lavorando in questa fabbrica sussidiaria della Ford avrebbe avuto un lavoro garantito. «Lavorare per la Ford era ottimo - conferma Maria. Le condizioni che ci davano erano proprio buone. Per questo una donna della mia età è andata avanti tutti questi anni a fare i turni».
Molti dei lavoratori che incontriamo sono stati assunti quando la fabbrica era ancora sotto le insigne della Ford. Poi nel 2001 la multinazionale americana decide di scorporare la Visteon, per usare i suoi stabilimenti per produrre interni di altre marche come Toyota, Land Rover, Jaguar. «A noi c'hanno spiegato che così si poteva lavorare di più che era solo una cosa di branding sai.. che il contratto rimaneva identico. Hanno riverniciato sul muro della fabbrica la striscia blu della Ford con l'arancione della Visteon. Sembrava fosse tutto lì». Ma dopo pochi anni cominciano i problemi. Un giorno, due anni fa, il responsabile dello stabilimento si presenta nello stabilimento a dettare nuove condizioni. I lavoratori si rifiutano di accettarle. «Da quel giorno ci ha giurato vendetta» riflette Carmine. «Nell'ultimo periodo noi sentivamo che qualcosa non andava nel modo in cui i capi si comportavano - ricorda Pasquale. - Loro ci dicevano "C'è la crisi: dobbiamo cercare di risparmiare per andare avanti". Noi siamo stati comprensivi, volevamo aiutare l'impresa. Siamo passati da tre turni a un turno solo. Li abbiamo aiutati più che potevamo. Abbiamo perso una media di 100 sterline a testa a settimana pur di aiutare la compagnia. Qual è stata la ricompensa? Hanno usato la scusa della crisi per farci fuori!».
La gente non si toglie di testa la minaccia della chiusura. I pensieri corrono alle trattative che il sindacato Unite sta tenendo con la Ford. «Derek Simpson (segretario di Unite, ndr) in questo momento è su un aereo per New York» dice Deborah, 47 anni di cui 20 passati nella fabbrica. Ma i lavoratori non sono poi tanto entusiasti per la maniera in cui il sindacato si è comportato. «A parte i delegati di stabilimento non abbiamo ricevuto molta solidarietà dai dirigenti del sindacato. Li abbiamo dovuti mettere con le spalle al muro per farci dare una mano» - si lamenta Mel, un operaio inglese. Dal megafono un'operaia chiama i lavoratori all'assemblea. «Fate entrare il giornalista italiano» - cambiano idea. Dentro il reparto vernici, i lavoratori stanno ancora finendo di mangiare. Sui tavoli patatine, riso giamaicano, piatti indiani e pasta. Per terra, materassini e sacchi a pelo stesi a pochi metri dalle macchine che questi lavoratori non si rassegnano ad abbandonare. Ci fanno salire sul tetto a vedere l'estensione dello stabilimento. Poi un lavoratore prende da parte il fotografo. «Fate piano che cerchiamo di fotografare gli addetti alla sicurezza. Brutta gente quella. Gente si è fatta le ossa nell'esercito. Li hanno fatti venire dal Sud Africa». Ma nonostante due tentativi i lavoratori non sono mica riusciti ancora a scacciarli.
Sul tetto a fianco delle bandiere dei sindacati sventolano, la bandiera Britannica, la bandiera Indiana, bandiere africane e dell'Europa dell'Est, a celebrare la composizione multietnica dei lavoratori dello stabilimento. «Ci vogliono pure togliere le pensioni - si lamenta Carmine. - Fred Goodwin il banchiere della Royal Bank of Scotland ha rubato 70 milioni di sterline di pensione. Qua con 20 milioni di sterline si coprono le pensioni di tutti. Noi invece vogliamo solo quello che ci spetta e ce lo prenderemo. Quelli mica se l'aspettavano una resistenza cosi!».
La fabbrica - a Enfield nella periferia a nord di Londra - è stata occupata il 1 aprile assieme a due altri stabilimenti, quello di Basildon nell'Essex, dove l'occupazione è già stata sgomberata e quello di Belfast nell'Irlanda del Nord, dove invece prosegue. 600 lavoratori hanno perso il posto per la chiusura della Visteon. Solo qui a Londra, per 200 persone si prospetta la disoccupazione. Ma i lavoratori non si rassegnano.
All'entrata della fabbrica uno striscione da il benvenuto ai visitatori denunciando «Banchieri salvati - Lavoratori fregati». Sulla balconata al di là dei cancelli, le bandiere del sindacato, e un cartello che avverte le autorità e i proprietari di tenersi alla larga. Su una rete dall'altro lato della strada messaggi di sostegno, cartelli e bandiere di sindacati, gruppi socialisti ed anarchici. Sopra le teste degli attivisti e della gente comune venuta a portare la propria solidarietà un cielo azzurro «che sembra di essere in Italia» appena punteggiato da nuvole, che proiettano la loro ombra sui capannoni abbandonati di questo distretto industriale dimenticato.
«Ci è voluta una notte per riprenderci dallo choc - spiega Maria, originaria di Canicattì -. Sono stati i più giovani a cominciare. Si sono detti no, questo non va bene. Si sono incontrati e ci hanno mandato a tutti degli Sms. Il mattino seguente alle dieci ci siamo ritrovati laggiù sulla strada che porta alla fabbrica. Eravamo arrabbiati! - dice quasi sottovoce, menando la mano nell'aria come se si fosse appena scottata - Arrabbiati si.. ma che cosa fare mica lo sapevamo! Poi qualcuno dei ragazzi che era andato a dare un'occhiata ci viene incontro con un sorriso e ci dice "si sono dimenticati un cancello aperto!". Un gruppo di uomini è entrato ed ha occupato lo stabilimento». A noi al momento nello stabilimento non ci fanno entrare. «Motivi di sicurezza» ci spiegano. Allora Carmine, un'altro operaio di origine italiana che lavora per la Visteon, decide di portarci a vedere i pezzi già lavorati, stoccati di fronte all'impianto. Centinaia di sagome di plastica nera, interni di automobile giacciono sull'asfalto. «Questo è l'interno di una Land Rover» - dice Carmine sollevando un pezzo di plastica ormai destinato alla spazzatura. «Mi sa che di questi tempi non c'è molta gente che si compra una Land Rover» obiettiamo. «Mica solo la Land Rover. Neppure Toyota, Ford o altri marchi più economici si comprano. La gente i soldi che c'ha li usa per comprarsi il pane mica le macchine!». Pasquale invece ci spiega la tecnica di lavorazione, l'iniezione di plastica nello stampo, la schiumatura, la verniciatura degli interni. Processi che ha imparato nei vent'anni passati in questa fabbrica. «Che deve fare la gente una volta che ha finito di lavorare qua? Mica siamo lavoratori qualificati noi. Fuori di qua un lavoro non ce lo da nessuno».
Gente con i mutui da pagare, con i figli da mandare a scuola. Gente che si era illusa che lavorando in questa fabbrica sussidiaria della Ford avrebbe avuto un lavoro garantito. «Lavorare per la Ford era ottimo - conferma Maria. Le condizioni che ci davano erano proprio buone. Per questo una donna della mia età è andata avanti tutti questi anni a fare i turni».
Molti dei lavoratori che incontriamo sono stati assunti quando la fabbrica era ancora sotto le insigne della Ford. Poi nel 2001 la multinazionale americana decide di scorporare la Visteon, per usare i suoi stabilimenti per produrre interni di altre marche come Toyota, Land Rover, Jaguar. «A noi c'hanno spiegato che così si poteva lavorare di più che era solo una cosa di branding sai.. che il contratto rimaneva identico. Hanno riverniciato sul muro della fabbrica la striscia blu della Ford con l'arancione della Visteon. Sembrava fosse tutto lì». Ma dopo pochi anni cominciano i problemi. Un giorno, due anni fa, il responsabile dello stabilimento si presenta nello stabilimento a dettare nuove condizioni. I lavoratori si rifiutano di accettarle. «Da quel giorno ci ha giurato vendetta» riflette Carmine. «Nell'ultimo periodo noi sentivamo che qualcosa non andava nel modo in cui i capi si comportavano - ricorda Pasquale. - Loro ci dicevano "C'è la crisi: dobbiamo cercare di risparmiare per andare avanti". Noi siamo stati comprensivi, volevamo aiutare l'impresa. Siamo passati da tre turni a un turno solo. Li abbiamo aiutati più che potevamo. Abbiamo perso una media di 100 sterline a testa a settimana pur di aiutare la compagnia. Qual è stata la ricompensa? Hanno usato la scusa della crisi per farci fuori!».
La gente non si toglie di testa la minaccia della chiusura. I pensieri corrono alle trattative che il sindacato Unite sta tenendo con la Ford. «Derek Simpson (segretario di Unite, ndr) in questo momento è su un aereo per New York» dice Deborah, 47 anni di cui 20 passati nella fabbrica. Ma i lavoratori non sono poi tanto entusiasti per la maniera in cui il sindacato si è comportato. «A parte i delegati di stabilimento non abbiamo ricevuto molta solidarietà dai dirigenti del sindacato. Li abbiamo dovuti mettere con le spalle al muro per farci dare una mano» - si lamenta Mel, un operaio inglese. Dal megafono un'operaia chiama i lavoratori all'assemblea. «Fate entrare il giornalista italiano» - cambiano idea. Dentro il reparto vernici, i lavoratori stanno ancora finendo di mangiare. Sui tavoli patatine, riso giamaicano, piatti indiani e pasta. Per terra, materassini e sacchi a pelo stesi a pochi metri dalle macchine che questi lavoratori non si rassegnano ad abbandonare. Ci fanno salire sul tetto a vedere l'estensione dello stabilimento. Poi un lavoratore prende da parte il fotografo. «Fate piano che cerchiamo di fotografare gli addetti alla sicurezza. Brutta gente quella. Gente si è fatta le ossa nell'esercito. Li hanno fatti venire dal Sud Africa». Ma nonostante due tentativi i lavoratori non sono mica riusciti ancora a scacciarli.
Sul tetto a fianco delle bandiere dei sindacati sventolano, la bandiera Britannica, la bandiera Indiana, bandiere africane e dell'Europa dell'Est, a celebrare la composizione multietnica dei lavoratori dello stabilimento. «Ci vogliono pure togliere le pensioni - si lamenta Carmine. - Fred Goodwin il banchiere della Royal Bank of Scotland ha rubato 70 milioni di sterline di pensione. Qua con 20 milioni di sterline si coprono le pensioni di tutti. Noi invece vogliamo solo quello che ci spetta e ce lo prenderemo. Quelli mica se l'aspettavano una resistenza cosi!».
mercoledì 8 aprile 2009
Così è morto Tomlinson C'è un video che prova la violenza della polizia
Cammina tranquillo quella sera Ian Tomlinson. Se ne va da solo lungo la stradina di Cornhill vicino alla Banca d'Inghilterra, le scarpe da ginnastica che ritmano passi brevi sul selciato. L'uomo che lavorava come giornalaio nella City e in abbigliamento sportivo: porta una T-shirt grigia, con un disegno blu, pantaloni da ginnastica. Procede lentamente quasi che non si trovasse nel mezzo di una protesta finita sotto l'attacco pesante della polizia. Avanza con lo sguardo basso, le mani nelle tasche, ostenta indifferenza. Alle sue spalle si avvicina minacciosa una fila di poliziotti antisommosa. Agenti armati con scudo e manganello, intenti a «ripulire» la via. Al loro fianco poliziotti con i cani usati per spaventare la gente venuta a manifestare contro il disastro finanziario e il summit del G20. Ian Tomlinson continua a procedere calmo magari convinto che quella sia la maniera migliore per non farsi picchiare. Avrebbe fatto meglio a scappare.
Da dietro parte una manganellata - forse due - che lo colpisce all'addome. Tomlinson non se l'aspetta. Si volta, forse per chiedere una spiegazione all'agente che l'ha colpito. Ma il poliziotto non è interessato a parlare. La sua risposta è uno spintone violento, di quelli che mandano gambe all'aria. E per quanto Ian Tomlinson sia un uomo alto e corpulento, quella spinta data con tutta la forza lo coglie di sorpresa e gli fa perdere l'equilibrio. Cade in avanti, le mani incespicano e non fanno in tempo a proteggere la testa che sbatte contro il suolo. Finisce disteso e rimane fermo. Poi si mette seduto. Sembra che dica qualcosa agli agenti. Poi un manifestante gli si fa vicino. Cerca di sollevarlo. Lo aiuta ad alzarsi. Finalmente lui si alza e si allontana camminando a fatica, vacillando. A questo punto la sua sagoma esce dall'inquadratura. Sono le ultimi immagini di Ian Tomlinson vivo. Morirà quindici minuti più tardi.
Queste le immagini che emergono da un video scottante pubblicato ieri sul sito del quotidiano londinese Guardian a conferma definitiva che la polizia inglese è responsabile per la morte di Ian Tomlinson, l'uomo morto durante le proteste contro il G20 il primo d'aprile vicino alla Banca d'Inghilterra. Il video girato alle 7 e 20 di sera e stato ottenuto ieri dal quotidiano britannico. L'autore sarebbe un uomo d'affari di New York che si trovava sul luogo dell'assalto e che avrebbe deciso di farsi avanti perche «la famiglia non stava ottenendo nessuna risposta» dalla polizia.
Il video corrobora le dichiarazioni fornite domenica scorsa alla Ipcc - la commissione che sta investigando le malefatte della polizia durante il G20 - da tre testimoni. La descrizione fornita dai tre degli ultimi minuti della vita di Ian Tomlinson constrastavano fortemente con la versione ufficiale della polizia. Scotland Yard aveva sollevato diversi sospetti dopo aver impiegato 12 ore prima di rivelare il nome del morto. Inoltre sin dall'inizio aveva negato recisamente che Tomlinson fosse stato colpito dalle forze dell'ordine prima di morire e aveva ripetuto la tesi delle «cause naturali» supportate pure da un esame autoptico. Il materiale pubblicato dal Guardian mostra invece come pochi minuti prima di morire Tomlinson fosse stato vittima di un attacco violento che avrebbe potuto facilmente causare l'infarto che, stando all'esame autoptico, lo ha ucciso. Mentre la notizia della nuova prova della responsabilità della polizia inglese nella morte di Tomlinson si diffondono tra gli attivisti londinesi già si preparano azioni di protesta davanti a Scotland Yard e una marcia sulla banca d'Inghilterra sabato prossimo perché la violenza poliziesca vista la settimana scorsa non si ripeta più.
Da dietro parte una manganellata - forse due - che lo colpisce all'addome. Tomlinson non se l'aspetta. Si volta, forse per chiedere una spiegazione all'agente che l'ha colpito. Ma il poliziotto non è interessato a parlare. La sua risposta è uno spintone violento, di quelli che mandano gambe all'aria. E per quanto Ian Tomlinson sia un uomo alto e corpulento, quella spinta data con tutta la forza lo coglie di sorpresa e gli fa perdere l'equilibrio. Cade in avanti, le mani incespicano e non fanno in tempo a proteggere la testa che sbatte contro il suolo. Finisce disteso e rimane fermo. Poi si mette seduto. Sembra che dica qualcosa agli agenti. Poi un manifestante gli si fa vicino. Cerca di sollevarlo. Lo aiuta ad alzarsi. Finalmente lui si alza e si allontana camminando a fatica, vacillando. A questo punto la sua sagoma esce dall'inquadratura. Sono le ultimi immagini di Ian Tomlinson vivo. Morirà quindici minuti più tardi.
Queste le immagini che emergono da un video scottante pubblicato ieri sul sito del quotidiano londinese Guardian a conferma definitiva che la polizia inglese è responsabile per la morte di Ian Tomlinson, l'uomo morto durante le proteste contro il G20 il primo d'aprile vicino alla Banca d'Inghilterra. Il video girato alle 7 e 20 di sera e stato ottenuto ieri dal quotidiano britannico. L'autore sarebbe un uomo d'affari di New York che si trovava sul luogo dell'assalto e che avrebbe deciso di farsi avanti perche «la famiglia non stava ottenendo nessuna risposta» dalla polizia.
Il video corrobora le dichiarazioni fornite domenica scorsa alla Ipcc - la commissione che sta investigando le malefatte della polizia durante il G20 - da tre testimoni. La descrizione fornita dai tre degli ultimi minuti della vita di Ian Tomlinson constrastavano fortemente con la versione ufficiale della polizia. Scotland Yard aveva sollevato diversi sospetti dopo aver impiegato 12 ore prima di rivelare il nome del morto. Inoltre sin dall'inizio aveva negato recisamente che Tomlinson fosse stato colpito dalle forze dell'ordine prima di morire e aveva ripetuto la tesi delle «cause naturali» supportate pure da un esame autoptico. Il materiale pubblicato dal Guardian mostra invece come pochi minuti prima di morire Tomlinson fosse stato vittima di un attacco violento che avrebbe potuto facilmente causare l'infarto che, stando all'esame autoptico, lo ha ucciso. Mentre la notizia della nuova prova della responsabilità della polizia inglese nella morte di Tomlinson si diffondono tra gli attivisti londinesi già si preparano azioni di protesta davanti a Scotland Yard e una marcia sulla banca d'Inghilterra sabato prossimo perché la violenza poliziesca vista la settimana scorsa non si ripeta più.
martedì 7 aprile 2009
Scricchiolano gli alibi: Ian Tomlinson è stato picchiato e ucciso dalla polizia
Ora ci sono pure tre testimoni a farsi avanti con nome e cognome e lo dicono chiaro e tondo: Ian Tomlinson - l'uomo morto durante le proteste contro il G20, mercoledi scorso a Londra - è caduto per mano della polizia. I tre hanno visto l'uomo, 47 anni, padre di una famiglia numerosa, che lavorarava come giornalaio nella City, venire colpito ripetutamente dalle manganellate di un reparto anti-sommossa prima di essere spinto violentemente a terra, dove avrebbe sbattuto la testa, pochi minuti prima di morire d'infarto alle 7.25. A quest'ultima circostanza si è appesa la versione ora sempre più traballante offerta dalla polizia, che dopo l'autopsia continua a sostenere che Tomlinson sarebbe morto per «cause naturali».
I nuovi dettagli sulla morte di Tomlinson sono emersi dopo che domenica scorsa tre testimoni dell'accaduto si sono presentati alla IPCC (Independent P olice Complaints Commission), la commissione indipendente che si occupa di esaminare le denunce dei cittadini contro la polizia.
Anna Branthwaite, 36 anni, fotografa del quartiere di Southwark, Kezia Rolfe, 27 anni, ricercatrice che abita a Stoke Newington, e Amiri Howe, 24 anni, un attore che vive nel nord di Londra, si trovavano in diversi punti nella zona attorno alla strada di Cornhill, vicino alla banca d'Inghilterra nei minuti precedenti alla morte. Due dei testimoni hanno riconosciuto l'uomo da una foto pubblicata sul Guardian, venerdi scorso. Un'altra foto della vittima uscita negli ultimi giorni sulla stampa inglese mostra l'uomo accasciato a pochi metri da una fila di polizia anti-sommossa in atteggiamento minaccioso.
Le dichiarazioni rilasciate dai testimoni sono un colpo pesante per la polizia inglese che è da giorni nell'occhio del ciclone per i metodi violenti con cui ha cercato di mettere a tacere una folla risoluta ma in gran parte pacifica che protestava contro la catastrofe economica prodotta dalle speculazioni finanziarie. I nuovi dettagli sulla vera dinamica della morte di Tomlinson giungono dopo giorni in cui i la polizia inglese ha dato vita ad un vero e proprio black-out informativo sull'accaduto.
Ma le nuove conferme sulla responsabilità della polizia promettono di fornire nuova legna alla rabbia di manifestanti finiti nel mirino di una repressione poliziesca senza precedenti nell'ultimo decennio. Per denunciare l'accaduto, sabato scorso centinaia di persone hanno protestato di fronte alla stazione di polizia di Bethnal Green , nell'est di Londra mentre nuove manifestazioni di protesta si annunciano per i giorni a venire.
La morte di Ian Tomlinson è l'evento piu eclatante di una vasta azione repressiva in cui - come documentano diversi filmati pubblicati in questi giorni su You tube - gruppi di manifestanti a mani alzate e volto scoperto sono stati circondati e picchiati selvaggiamente. La polizia inglese ha pure ricorso ai Taser, le pericolose pistole elettriche gia' responsabili per diverse morti. Durante lo sgombero violento del Convergence centre in cui dormivano diversi manifestanti una persona è stata mancata per un soffio da una scarica elettrica.
Il livello di violenza dispiegato dalle forze dell'ordine durante le proteste per il G20 potrebbe rivelarsi come una prova generale della risposta repressiva che le forze dell'ordine di Sua maestà preparano per le grandi proteste che gia si intravedono nei prossimi mesi, mentre giorno dopo giorno la crisi economica continua a mietere vittime attraverso l'isola, e dopo un decennio di relativa pace sociale gli inglesi si rimettono pure ad occupare le fabbriche.
I nuovi dettagli sulla morte di Tomlinson sono emersi dopo che domenica scorsa tre testimoni dell'accaduto si sono presentati alla IPCC (Independent P olice Complaints Commission), la commissione indipendente che si occupa di esaminare le denunce dei cittadini contro la polizia.
Anna Branthwaite, 36 anni, fotografa del quartiere di Southwark, Kezia Rolfe, 27 anni, ricercatrice che abita a Stoke Newington, e Amiri Howe, 24 anni, un attore che vive nel nord di Londra, si trovavano in diversi punti nella zona attorno alla strada di Cornhill, vicino alla banca d'Inghilterra nei minuti precedenti alla morte. Due dei testimoni hanno riconosciuto l'uomo da una foto pubblicata sul Guardian, venerdi scorso. Un'altra foto della vittima uscita negli ultimi giorni sulla stampa inglese mostra l'uomo accasciato a pochi metri da una fila di polizia anti-sommossa in atteggiamento minaccioso.
Le dichiarazioni rilasciate dai testimoni sono un colpo pesante per la polizia inglese che è da giorni nell'occhio del ciclone per i metodi violenti con cui ha cercato di mettere a tacere una folla risoluta ma in gran parte pacifica che protestava contro la catastrofe economica prodotta dalle speculazioni finanziarie. I nuovi dettagli sulla vera dinamica della morte di Tomlinson giungono dopo giorni in cui i la polizia inglese ha dato vita ad un vero e proprio black-out informativo sull'accaduto.
Ma le nuove conferme sulla responsabilità della polizia promettono di fornire nuova legna alla rabbia di manifestanti finiti nel mirino di una repressione poliziesca senza precedenti nell'ultimo decennio. Per denunciare l'accaduto, sabato scorso centinaia di persone hanno protestato di fronte alla stazione di polizia di Bethnal Green , nell'est di Londra mentre nuove manifestazioni di protesta si annunciano per i giorni a venire.
La morte di Ian Tomlinson è l'evento piu eclatante di una vasta azione repressiva in cui - come documentano diversi filmati pubblicati in questi giorni su You tube - gruppi di manifestanti a mani alzate e volto scoperto sono stati circondati e picchiati selvaggiamente. La polizia inglese ha pure ricorso ai Taser, le pericolose pistole elettriche gia' responsabili per diverse morti. Durante lo sgombero violento del Convergence centre in cui dormivano diversi manifestanti una persona è stata mancata per un soffio da una scarica elettrica.
Il livello di violenza dispiegato dalle forze dell'ordine durante le proteste per il G20 potrebbe rivelarsi come una prova generale della risposta repressiva che le forze dell'ordine di Sua maestà preparano per le grandi proteste che gia si intravedono nei prossimi mesi, mentre giorno dopo giorno la crisi economica continua a mietere vittime attraverso l'isola, e dopo un decennio di relativa pace sociale gli inglesi si rimettono pure ad occupare le fabbriche.
domenica 5 aprile 2009
La battaglia in casa Nato
«Guerra alla guerra» recitano le scritte sui muri dei quartieri di Strasburgo attraversati dalle proteste contro la Nato nel giorno del suo sessantesimo anniversario. E a Strasburgo, città che fu a lungo oggetto del contendere tra Francia e Germania, la guerra vista ieri in piazza, con violenti scontri e oltre 50 feriti, non aveva niente a che fare con una guerra tra nazioni ma piuttosto una guerra interna tra le forze di polizia e movimenti radicali.
Da un lato l'asse tra polizia francese e tedesca che si sono palleggiate per tutto il giorno il corteo, costringendolo ad andare avanti e indietro senza permettergli di raggiungere la destinazione finale. Dall'altro l'asse tra anarco-autonomia, tedesca e francese, che ha dato vita a un grande blocco nero che ieri rappresentava circa metà dell'intero corteo. Pomo della discordia una conferenza in cui Obama è infine riuscito a ottenere dagli alleati 5000 soldati in più per mettere le pezze all'occupazione in Afghanistan.
Di prima mattina gruppi di manifestanti abbandonano il campeggio no-Nato di fronte al quale venerdì notte si era svolta una battaglia dura tra polizia e black bloc infuriati per la notizia del morto durante le proteste contro il G20 a Londra. Gruppi di manifestanti scorrono di fianco a una grande barricata che protegge l'entrata al campeggio. La gente delle villette della zona prese in ostaggio dalla protesta non sembra troppo spaventata. Una coppia sulla cinquantina osserva incuriosita un gruppo di ragazzi vestiti di nero e con le maschere anti-gas che cantano in francese «chi ha rubato dovrà pagare».
I manifestanti camminano a passo spedito per raggiungere il punto di raduno della manifestazione, prima che la polizia riesca a spegnerla sul nascere. Si passa tra i palazzi popolari e multietnici della banlieue di Strasburgo. Famiglie turche, iraniane, algerine guardano curiose dai balconi le bandiere e gli striscioni che gridano allo scandalo della guerra. Bambini assiepati sull'erba che si mettono a scherzare con un attivista vestito da Bambi il cerbiatto. Ragazzine dei palazzi popolari, vestite di rosa, che mimano il pugno alzato alla gente che passa. Sorrisi.
Quando la maggior parte delle persone arriva finalmente al punto di partenza del corteo, la strada è già diventata un campo di battaglia tra polizia e manifestanti. Bombe sonore fanno tremare i timpani e feriscono volto e braccia. Pallottole di gomma che fischiano sopra la testa. Il fumo acre delle barricate che si mischia al fumo irritante dei lacrimogeni, portando le persone a coprirsi la bocca e a tossire nervosamente. In mezzo al fumo il bagliore improvviso delle molotov che tengono a bada la polizia francese. Un gruppo di ragazzi francesi abbatte una telecamera facendo partire la cantilena «anti-anti-anti-capitalista».
Col passare del tempo il corteo si fa più forte e determinato: le forze dell'ordine arretrano, le bandiere rosse di trotzkisti e maoisti e gli stendardi neri e rossoneri degli anarchici avanzano rapide verso il confine tra Francia e Germania. Si passa il primo ponte, il Pont Vauban che passa sopra un canale alimentato dalle acque del Reno. In mezzo alla folla un pupazzo di Obama con la tuta mimetica e la bussola simbolo della mano che imbraccia un fucile. Banlieusard locali costeggiano il corteo a cavallo dei loro motorini e fanno cenni d'intesa ai black bloc assieme ai quali avevano assaltato una stazione di polizia nella zona del campeggio.
Ragazzini dei palazzi popolari, con tute da rapper e cappelli da baseball danno indicazioni su possibili vie di fuga e guardano attenti per imparare come ci si comporta in queste situazioni. Il corteo procede tranquillo fin quando si intravede il Ponte dell'Europa, simbolo della fratellanza franco-tedesca e monumento all'alleanza tra Schuman ed Adenauer. I black bloc si preparano nuovamente alla battaglia. Carrelli colmi di pietre vengono portati verso la rampa che conduce al ponte. Ma il ponte è imprendibile. La polizia tedesca lo controlla con due grandi blindati armati di idranti che occupano le due corsie e un numero ingente di agenti anti-sommossa pronti a difendere gli spiragli rimasti aperti. Gruppi di ragazzi portano transenne e pezzi di legno per innalzare un barricata da questo lato del ponte. La polizia rimane sicura sulle sue posizioni in un tacito compromesso: noi non avanziamo, voi non passate.
Per rifarsi dal blocco della polizia ragazzi bardati di nero prendono d'assalto una dogana abbandonata che presto va a fuoco liberando un'alta colonna di fumo. La stessa sorte tocca a un albergo, l'Ibis, che viene prima preso a sassate e poi dato alle fiamme. Sotto la furia del blocco nero finiscono pure un autolavaggio, un centro commerciale e un ufficio nella zona portuale. Mentre la dogana sta cominciando ad andare a fuoco un anziano pacifista tedesco urla ad alcuni black bloc: «Noi lottiamo per la pace e quindi dobbiamo usare la non violenza. Altrimenti perdiamo il dibattito sui media». Ma i ragazzi non sembrano dargli retta.
Un pacifista francese con la bandiera arcobaleno non nasconde l'indignazione e facendo strada a un pacifista d'oltremanica gli dice: «Andiamo via di qua per far vedere che noi non abbiamo niente a che fare con tutta questa distruzione».
Trotzkisti e pacifisti si allontanano dai black bloc per riunirsi in uno spiazzo dove è stato montato un grande palco su cui cominciano i comizi. La situazione si fa più calma. Ma verso le tre si fa rivedere la polizia francese, infuriata per l'incendio all'hotel Ibis. Elicotteri delle forze dell'ordine cominciano a farsi minacciosi passando appena sopra gli alberi in un parco dove alcuni manifestanti si sono stesi per riprendere le forze. Reparti anti-sommossa tirano gas lacrimogeni a casaccio per liberare l'area, bersagliando pure lo spezzone di corteo che aveva deciso di mettersi in disparte dopo l'inizio delle violenze.
A questo punto il corteo decide di tornare verso il campeggio. Ma sulla sua strada incontra le camionette della polizia parcheggiate una dietro l'altra che si bloccano a vicenda e diventano facile bersaglio del black bloc che le sorprendono dall'alto di un ponte ferroviario, bersagliandole con i sassi della massicciata. Chris Knight, uno degli animatori delle proteste contro il G20 a Londra, osserva compiaciuto la scena dall'alto.
Nel tardo pomeriggio, stremati da ore di scontri con la polizia, in molti si siedono e gli agenti decidono finalmente di lasciare che il corteo torni al campeggio. Per bloccare una nuova carica alcuni ragazzi spingono dei vagoni ferroviari adibiti al trasporto di cereali in mezzo alla strada dove diventano eccellenti barricate. La polizia risponde intensificando il lancio di gas lacrimogeni. Si va avanti così con continui botta e risposta fino a tarda serata. Poco a poco alcuni gruppi riescono a trovare spiragli nel dispositivo di sicurezza innalzato dalla polizia francese. La polizia cerca di intercettare alcuni gruppi sul percorso verso il campeggio. Sulla via di casa nuovi alterchi tra autonomi e pacifisti. «La violenza vera è quella in Afghanistan», urla un ragazzo francese a un vecchio che tenta di fermarlo mentre sfonda i vetri di una fermata del bus. «Questi sono solo un po' di vetri rotti».
Da un lato l'asse tra polizia francese e tedesca che si sono palleggiate per tutto il giorno il corteo, costringendolo ad andare avanti e indietro senza permettergli di raggiungere la destinazione finale. Dall'altro l'asse tra anarco-autonomia, tedesca e francese, che ha dato vita a un grande blocco nero che ieri rappresentava circa metà dell'intero corteo. Pomo della discordia una conferenza in cui Obama è infine riuscito a ottenere dagli alleati 5000 soldati in più per mettere le pezze all'occupazione in Afghanistan.
Di prima mattina gruppi di manifestanti abbandonano il campeggio no-Nato di fronte al quale venerdì notte si era svolta una battaglia dura tra polizia e black bloc infuriati per la notizia del morto durante le proteste contro il G20 a Londra. Gruppi di manifestanti scorrono di fianco a una grande barricata che protegge l'entrata al campeggio. La gente delle villette della zona prese in ostaggio dalla protesta non sembra troppo spaventata. Una coppia sulla cinquantina osserva incuriosita un gruppo di ragazzi vestiti di nero e con le maschere anti-gas che cantano in francese «chi ha rubato dovrà pagare».
I manifestanti camminano a passo spedito per raggiungere il punto di raduno della manifestazione, prima che la polizia riesca a spegnerla sul nascere. Si passa tra i palazzi popolari e multietnici della banlieue di Strasburgo. Famiglie turche, iraniane, algerine guardano curiose dai balconi le bandiere e gli striscioni che gridano allo scandalo della guerra. Bambini assiepati sull'erba che si mettono a scherzare con un attivista vestito da Bambi il cerbiatto. Ragazzine dei palazzi popolari, vestite di rosa, che mimano il pugno alzato alla gente che passa. Sorrisi.
Quando la maggior parte delle persone arriva finalmente al punto di partenza del corteo, la strada è già diventata un campo di battaglia tra polizia e manifestanti. Bombe sonore fanno tremare i timpani e feriscono volto e braccia. Pallottole di gomma che fischiano sopra la testa. Il fumo acre delle barricate che si mischia al fumo irritante dei lacrimogeni, portando le persone a coprirsi la bocca e a tossire nervosamente. In mezzo al fumo il bagliore improvviso delle molotov che tengono a bada la polizia francese. Un gruppo di ragazzi francesi abbatte una telecamera facendo partire la cantilena «anti-anti-anti-capitalista».
Col passare del tempo il corteo si fa più forte e determinato: le forze dell'ordine arretrano, le bandiere rosse di trotzkisti e maoisti e gli stendardi neri e rossoneri degli anarchici avanzano rapide verso il confine tra Francia e Germania. Si passa il primo ponte, il Pont Vauban che passa sopra un canale alimentato dalle acque del Reno. In mezzo alla folla un pupazzo di Obama con la tuta mimetica e la bussola simbolo della mano che imbraccia un fucile. Banlieusard locali costeggiano il corteo a cavallo dei loro motorini e fanno cenni d'intesa ai black bloc assieme ai quali avevano assaltato una stazione di polizia nella zona del campeggio.
Ragazzini dei palazzi popolari, con tute da rapper e cappelli da baseball danno indicazioni su possibili vie di fuga e guardano attenti per imparare come ci si comporta in queste situazioni. Il corteo procede tranquillo fin quando si intravede il Ponte dell'Europa, simbolo della fratellanza franco-tedesca e monumento all'alleanza tra Schuman ed Adenauer. I black bloc si preparano nuovamente alla battaglia. Carrelli colmi di pietre vengono portati verso la rampa che conduce al ponte. Ma il ponte è imprendibile. La polizia tedesca lo controlla con due grandi blindati armati di idranti che occupano le due corsie e un numero ingente di agenti anti-sommossa pronti a difendere gli spiragli rimasti aperti. Gruppi di ragazzi portano transenne e pezzi di legno per innalzare un barricata da questo lato del ponte. La polizia rimane sicura sulle sue posizioni in un tacito compromesso: noi non avanziamo, voi non passate.
Per rifarsi dal blocco della polizia ragazzi bardati di nero prendono d'assalto una dogana abbandonata che presto va a fuoco liberando un'alta colonna di fumo. La stessa sorte tocca a un albergo, l'Ibis, che viene prima preso a sassate e poi dato alle fiamme. Sotto la furia del blocco nero finiscono pure un autolavaggio, un centro commerciale e un ufficio nella zona portuale. Mentre la dogana sta cominciando ad andare a fuoco un anziano pacifista tedesco urla ad alcuni black bloc: «Noi lottiamo per la pace e quindi dobbiamo usare la non violenza. Altrimenti perdiamo il dibattito sui media». Ma i ragazzi non sembrano dargli retta.
Un pacifista francese con la bandiera arcobaleno non nasconde l'indignazione e facendo strada a un pacifista d'oltremanica gli dice: «Andiamo via di qua per far vedere che noi non abbiamo niente a che fare con tutta questa distruzione».
Trotzkisti e pacifisti si allontanano dai black bloc per riunirsi in uno spiazzo dove è stato montato un grande palco su cui cominciano i comizi. La situazione si fa più calma. Ma verso le tre si fa rivedere la polizia francese, infuriata per l'incendio all'hotel Ibis. Elicotteri delle forze dell'ordine cominciano a farsi minacciosi passando appena sopra gli alberi in un parco dove alcuni manifestanti si sono stesi per riprendere le forze. Reparti anti-sommossa tirano gas lacrimogeni a casaccio per liberare l'area, bersagliando pure lo spezzone di corteo che aveva deciso di mettersi in disparte dopo l'inizio delle violenze.
A questo punto il corteo decide di tornare verso il campeggio. Ma sulla sua strada incontra le camionette della polizia parcheggiate una dietro l'altra che si bloccano a vicenda e diventano facile bersaglio del black bloc che le sorprendono dall'alto di un ponte ferroviario, bersagliandole con i sassi della massicciata. Chris Knight, uno degli animatori delle proteste contro il G20 a Londra, osserva compiaciuto la scena dall'alto.
Nel tardo pomeriggio, stremati da ore di scontri con la polizia, in molti si siedono e gli agenti decidono finalmente di lasciare che il corteo torni al campeggio. Per bloccare una nuova carica alcuni ragazzi spingono dei vagoni ferroviari adibiti al trasporto di cereali in mezzo alla strada dove diventano eccellenti barricate. La polizia risponde intensificando il lancio di gas lacrimogeni. Si va avanti così con continui botta e risposta fino a tarda serata. Poco a poco alcuni gruppi riescono a trovare spiragli nel dispositivo di sicurezza innalzato dalla polizia francese. La polizia cerca di intercettare alcuni gruppi sul percorso verso il campeggio. Sulla via di casa nuovi alterchi tra autonomi e pacifisti. «La violenza vera è quella in Afghanistan», urla un ragazzo francese a un vecchio che tenta di fermarlo mentre sfonda i vetri di una fermata del bus. «Questi sono solo un po' di vetri rotti».
sabato 4 aprile 2009
Dall'anti-G20 alla Nato, il viaggio dei no war
L'appuntamento è là dove tutto era iniziato, sabato scorso con la prima marcia dei 40 mila contro il G20. Una settimana dopo, tutti a Strasburgo, e dopo i banchieri questa volta tocca alle guerre e ai guerrafondai. Quello che parte per aggiungersi alle decine di migliaia di persone che questa mattina a Strasburgo e Baden Baden manifesteranno contro la Nato è una parte del popolo che è sceso in piazza in questi giorni. Quello più militante, a volte antiamericano altre filopalestinese oppure entrambe le cose, altre ancora pacifista e basta.
Ci si trova in ottanta alle sei di mattina alla fermata Embankment della Tube per la seconda tappa dell'offensiva di primavera: le proteste previste oggi e domani a Strasburgo contro una Nato che si appresta a celebrare il suo sessantesimo anniversario. La gente si raduna nello stesso punto da cui sabato scorso è partita la marcia di quarantamila persone che ha dato inizio alle proteste contro il summit del G20. Una pattuglia della Metropolitan Police osserva con distacco la spedizione di studenti, sindacalisti, lavoratori pubblici salire ordinatamente sul pullman.
Appena partiti cominciamo a discutere quello che ci attende in Francia, dove protesteremo dopo le botte prese in questi giorni per le strade di Londra. «Trecento fermati», dice qualcuno che ha appena ricevuto notizie fresche da casa. Una donna passa cercando di vendere copie di Socialist workers, il quotidiano dei trotzkisti inglesi.
Fuori dal finestrino tanta nebbia. Dentro, gente che legge sui quotidiani delle proteste dei giorni scorsi, e fatica a riconoscersi.
In un paio d'ore siamo a Dover e poi un traghetto attraverso la Manica fino ad approdare in Francia, paese tanto invidiato dal popolo di sinistra inglese, con i suoi scioperi massicci, le proteste da milioni di persone, con i suoi moti popolari. Eppure dopo gli scontri attorno alla Banca d'Inghilterra giovedì scorso, sembra che l'Inghilterra - questo paese alla deriva del vecchio continente - abbia riscoperto la rabbia di piazza, così come la violenta repressione poliziesca.
Tony Stanton, sindacalista e attivista contro la guerra, distribuisce la sua attenzione tra la campagna francese e una mappa di Strasburgo, città che domani verso mezzogiorno sarà attraversata da una grande protesta. «Non c'è niente di sorprendente nella violenza della polizia nei giorni scorsi - afferma ostentando la sua lunga esperienza in materia di conflitti sociali del Regno Unito - Reprimere il dissenso è quello che la polizia ha sempre fatto sin dagli albori del movimento operaio, nel 1800. Se qualcuno si sorprende è perché stiamo uscendo da un periodo di relativa pace sociale. I cosiddetti figli della Thatcher, la gente che oggi ha tra i 25 e i 35 anni, è stata pacificata da media e consumismo. I giovanissimi invece hanno fatto vedere in piazza che sono pieni di rabbia e che sono determinati a lottare».
Al secondo piano del pullman incontro un gruppo di quattro studenti universitari scozzesi, reduci dall'ondata di occupazioni messe su in protesta contro l'attacco a Gaza. «L'ondata di occupazioni è un fatto straordinario per un paese come la Gran Bretagna - sostiene Peter, studente a Glasgow - Ultimamente vedo molta più rabbia, molta più militanza. E i giovani non sono infuriati solamente per l'attacco a Gaza ma pure per la situazione economica che ci tocca affrontare. In base alle statistiche, in Scozia quest'anno si laureeranno 300 mila persone ma solo 80 mila troveranno lavoro». Arrabbiati con le generazioni precedenti che hanno goduto di una sicurezza sociale che i giovani di oggi non vedranno mai? «No», dice netto Ben che studia vicino a Stratclyde. «Le generazioni precedenti, i diritti se li sono guadagnati con le lotte. Questo è quello che dobbiamo fare noi: tornare a lottare».
Una pausa caffè in uno squallido autogrill francese. Toilette gratuita: ultimo bastione del bene comune non privatizzato nella terra di Sarkozy. Fuori incontro Andy Bowman, un dottorando di Manchester che ha visto da vicino il decesso di Ian Tomlinson, vittima degli scontri di mercoledì scorso. «In quell'area ci sono stati scontri pesanti e diversa gente che lo ha visto prima che morisse, mi ha detto che era stato ferito alla testa prima di collassare. Quando i poliziotti in assetto antisommossa hanno capito quello che stava succedendo, sono sbiancati in volto. Le versioni dell'accaduto che hanno fornito sono state contraddittorie».
Il pullman corre attraverso le colline della Lorena. Mancano ormai solo due ore all'arrivo e un gruppo di veterani del movimento anti-guerra condivide racconti di scontri in piazza, di botte scampate o arresti subiti.
Stewart, 28 anni, attivista di Stop the war, passa lungo il corridoio per distribuire una mappa dell'area di protesta e per dare informazioni pratiche sul soggiorno a Strasburgo. «I grandi al G20 hanno tracciato i contorni economici di quello che chiamano il nuovo ordine mondiale. A Strasburgo ne tracceranno quelli militari. Dobbiamo dimostrare che la gente questo nuove ordine mondiale non lo vuole, e che invece vuole il ritiro immediato delle truppe dal Pakistan e dall'Afghanistan».
Sono le otto di sera. Nel contingente studentesco al secondo piano del pullman si sfodera una chitarra e si stappa l'ennesima birra. Stiamo ormai arrivando a Strasburgo. Lo si capisce dall'infittirsi delle camionette della polizia. «Ne hanno mobilitati 25 mila», fa qualcuno. «Quando lo stato fa vedere il suo lato repressivo significa che è debole, non che è forte», risponde un altro.
Ci si trova in ottanta alle sei di mattina alla fermata Embankment della Tube per la seconda tappa dell'offensiva di primavera: le proteste previste oggi e domani a Strasburgo contro una Nato che si appresta a celebrare il suo sessantesimo anniversario. La gente si raduna nello stesso punto da cui sabato scorso è partita la marcia di quarantamila persone che ha dato inizio alle proteste contro il summit del G20. Una pattuglia della Metropolitan Police osserva con distacco la spedizione di studenti, sindacalisti, lavoratori pubblici salire ordinatamente sul pullman.
Appena partiti cominciamo a discutere quello che ci attende in Francia, dove protesteremo dopo le botte prese in questi giorni per le strade di Londra. «Trecento fermati», dice qualcuno che ha appena ricevuto notizie fresche da casa. Una donna passa cercando di vendere copie di Socialist workers, il quotidiano dei trotzkisti inglesi.
Fuori dal finestrino tanta nebbia. Dentro, gente che legge sui quotidiani delle proteste dei giorni scorsi, e fatica a riconoscersi.
In un paio d'ore siamo a Dover e poi un traghetto attraverso la Manica fino ad approdare in Francia, paese tanto invidiato dal popolo di sinistra inglese, con i suoi scioperi massicci, le proteste da milioni di persone, con i suoi moti popolari. Eppure dopo gli scontri attorno alla Banca d'Inghilterra giovedì scorso, sembra che l'Inghilterra - questo paese alla deriva del vecchio continente - abbia riscoperto la rabbia di piazza, così come la violenta repressione poliziesca.
Tony Stanton, sindacalista e attivista contro la guerra, distribuisce la sua attenzione tra la campagna francese e una mappa di Strasburgo, città che domani verso mezzogiorno sarà attraversata da una grande protesta. «Non c'è niente di sorprendente nella violenza della polizia nei giorni scorsi - afferma ostentando la sua lunga esperienza in materia di conflitti sociali del Regno Unito - Reprimere il dissenso è quello che la polizia ha sempre fatto sin dagli albori del movimento operaio, nel 1800. Se qualcuno si sorprende è perché stiamo uscendo da un periodo di relativa pace sociale. I cosiddetti figli della Thatcher, la gente che oggi ha tra i 25 e i 35 anni, è stata pacificata da media e consumismo. I giovanissimi invece hanno fatto vedere in piazza che sono pieni di rabbia e che sono determinati a lottare».
Al secondo piano del pullman incontro un gruppo di quattro studenti universitari scozzesi, reduci dall'ondata di occupazioni messe su in protesta contro l'attacco a Gaza. «L'ondata di occupazioni è un fatto straordinario per un paese come la Gran Bretagna - sostiene Peter, studente a Glasgow - Ultimamente vedo molta più rabbia, molta più militanza. E i giovani non sono infuriati solamente per l'attacco a Gaza ma pure per la situazione economica che ci tocca affrontare. In base alle statistiche, in Scozia quest'anno si laureeranno 300 mila persone ma solo 80 mila troveranno lavoro». Arrabbiati con le generazioni precedenti che hanno goduto di una sicurezza sociale che i giovani di oggi non vedranno mai? «No», dice netto Ben che studia vicino a Stratclyde. «Le generazioni precedenti, i diritti se li sono guadagnati con le lotte. Questo è quello che dobbiamo fare noi: tornare a lottare».
Una pausa caffè in uno squallido autogrill francese. Toilette gratuita: ultimo bastione del bene comune non privatizzato nella terra di Sarkozy. Fuori incontro Andy Bowman, un dottorando di Manchester che ha visto da vicino il decesso di Ian Tomlinson, vittima degli scontri di mercoledì scorso. «In quell'area ci sono stati scontri pesanti e diversa gente che lo ha visto prima che morisse, mi ha detto che era stato ferito alla testa prima di collassare. Quando i poliziotti in assetto antisommossa hanno capito quello che stava succedendo, sono sbiancati in volto. Le versioni dell'accaduto che hanno fornito sono state contraddittorie».
Il pullman corre attraverso le colline della Lorena. Mancano ormai solo due ore all'arrivo e un gruppo di veterani del movimento anti-guerra condivide racconti di scontri in piazza, di botte scampate o arresti subiti.
Stewart, 28 anni, attivista di Stop the war, passa lungo il corridoio per distribuire una mappa dell'area di protesta e per dare informazioni pratiche sul soggiorno a Strasburgo. «I grandi al G20 hanno tracciato i contorni economici di quello che chiamano il nuovo ordine mondiale. A Strasburgo ne tracceranno quelli militari. Dobbiamo dimostrare che la gente questo nuove ordine mondiale non lo vuole, e che invece vuole il ritiro immediato delle truppe dal Pakistan e dall'Afghanistan».
Sono le otto di sera. Nel contingente studentesco al secondo piano del pullman si sfodera una chitarra e si stappa l'ennesima birra. Stiamo ormai arrivando a Strasburgo. Lo si capisce dall'infittirsi delle camionette della polizia. «Ne hanno mobilitati 25 mila», fa qualcuno. «Quando lo stato fa vedere il suo lato repressivo significa che è debole, non che è forte», risponde un altro.
mercoledì 1 aprile 2009
Forti proteste a Londra contro il G20
Un calcio, poi un altro. La parete del cantiere in cui una ventina di persone si sono rifugiate per sfuggire alle cariche della polizia cigola sotto la furia di un reparto antisommossa. «Arrivano, arrivano » grida qualcuno. Tutti di corsa all’impazzata sul terreno sconnesso. La polizia alle spalle. La paura delle manganellate. Un altro parapetto da scalare aiutandosi l’un l’altro in fretta e furia prima che arrivano gli agenti. Poi via di corsa tra macerie emacchine da costruzione. Le guardie di sicurezza che controllano il cantiere che gridano minacciose e fanno segnali agli agenti. Un’altra parete di legno da scalare dall’altro lato del cantiere. Un salto alla cieca prima di atterrare sull’asfalto. Un sospiro di sollievo e poi via di corsa. Una grande protesta ha mandato ieri in tilt la City di Londra, con una folla colorata e determinata che ha urlato forte che è ora di cambiare rotta e che il neoliberalismo deve rimanere nella tomba. La manifestazione è stata segnata da scontri, dopo che la polizia ha risposto con mano pesante all’affluire dimigliaia di persone infuriate per la crisi economica e l’ipocrisia dell’elite politica e finanziaria. Spintoni e cariche sono cominciate dopo che la polizia ha imprigionato per oltre quattro ore la gente nell’area portandola all’esasperazione. Alla pressione della folla che voleva uscire dai cordoni degli agenti, le forze dell’ordine hanno risposto con manganelli, spray urticante, e polizia a cavallo. Una trentina di persone sono state arrestate nella zona attorno alla Banca d’Inghilterra e le cariche della polizia hanno lasciato sul terreno decine di feriti, di cui alcuni gravi. Quando attorno a mezzogiorno oltre ottomila persone convergono a pochi minuti di stanza nella piazza di fronte alla sede della banca nazionale è subito chiaro che questa non è una piccola azione simbolica dei no global,ma una vera e propriamanifestazione di massa a cui si sono unite centinaia di persone alla loro prima esperienza di piazza, cosa inusitata per queste latitudini. La polizia ha cercato di spegnere la manifestazione sul nascere cordonando i manifestanti attorno alle stazioni di Liverpool Street, Cannon Street, Moorgate e London Bridge, punto di ritrovo dei quattro cortei della coalizione G20 Meltdown, guidate da pupazzi che simboleggiavano i cavalieri dell’Apocalisse. Masospinte da rivoli di persone giunte in rinforzo nell’area della protesta, le forze dell’ordine sono state presto costrette a fare procedere i cortei fino alla loro destinazione. Tra la folla radunata di fronte alla Banca d’Inghilterra un popolo variegato, composto da ecologisti, attivisti contro la guerra, anarchici ma anche tanta gente comune alla prima esperienza di piazza. Tra questi Mick, un pony express, che lavora per diversi uffici nella City. «Sono venuto qui a vedere quello che la gente ha da dire. Anche noi siamo preoccupati perché il lavoro comincia a scarseggiare a causa del collasso del settore finanziario ». Brian, 55 anni, lavora come rappresentante di una ditta di cartoleria ed ha deciso anche lui all’ultimo minuto di unirsi alla protesta «perché è uno scandalo che gente che ha lavorato tutta la vita abbia perso la propria pensione per colpa delle banche ». Per un po’ nel centro della City si respira un’atmosfera da festa in piazza, bande che suonano musica balcanica, piccoli sound system che fanno ballare gruppetti di manifestanti. Coppie di attivisti con il bebè nel passeggino che camminano a lato di militanti in completo nero con le bandiere rossonere. Un battello pirata invita banchieri e poliziotti a convertirsi al movimento. I cartelli recitano «è venuto il momento di riprenderci quello che ci hanno tolto» e «disgustosa signora Thatcher guarda a che cosa ci hai portato». Ma dopo un paio d’ore il clima cambia, la polizia comincia a farsi più aggressiva. In molti vogliono muoversi altrove per continuare la protesta o per tornare a casa. «La polizia sta impedendo il mio diritto al movimento - urla Tom un pensionato di 62 anni, che non partecipava a una protesta da 20 anni – Queste sono le prove generali dello stato di polizia». Verso le due e mezza la parte più radicale del corteo decide di reagire. Duemila persone si fanno strada su Threadneedle Street e spintone dopo spintone respingono gli agenti. Una sede della Royal Bank of Scotland, infangata dallo scandalo della crisi dei mutui e dal fondo pensione da decine di milioni di sterline, messa in tasca dall’ex manager Fred Goodwin viene presa d’assalto. Venti manifestanti riescono a fare irruzione nell’edificio e per un quarto d’oramettono a soqquadro gli uffici, distruggendo computer e mobili e tirando giù una vetrina. Uno dei ragazzi monta una tenda dentro l’edificio per inscenare un’occupazione. Fuori la folla urla eccitata e alcuni ragazzi si arrampicano sulle facciate degli edifici circostanti per assistere alla scena. La polizia risponde irrompendo nella banca, e arrestando alcuni occupanti. Poi dietro le fila della polizia fanno la comparsa una ventina di poliziotti a cavallo.Ma la folla non si fa intimidire e grida in coro «di chi sono le strade? Le strade sono nostre». Molto più tranquille le altre due grandi proteste che si sono svolte in parallelo aG20 Meltdown. Quasi duemila attivisti del Climate Camp sono riusciti ad occupare attorno a mezzogiorno Bishopsgate la grande strada antistante il Climate Exchange Market, la borsa delle emissioni dei gas serra. Sotto tono la protesta di Stop theWar di fronte al parlamento, a cui hanno partecipato poco più di un migliaio di persone. Dopo la grande partecipazione registrata nella protesta di ieri e la mano dura usata dalle forze dell’ordine c’è da aspettarsi scintille nelle proteste di oggi dirette contro l'Excel Centre nei Docklands dove si riunirà il G20. Sono previste tre marce che si dirigeranno sin dalla mattinata verso il centro conferenze per mettere sotto scacco i leader dei venti paesi più ricchi al mondo. «Sono dieci anni che non vedo una manifestazione come questa a Londra – afferma Karen, un’attivista londinese, dopo la lunga giornata di ieri – mi sa che domani (oggi, ndr) ne vedremo delle belle».
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