martedì 31 agosto 2010

Zahid Rafiq: «Sono pacifista, ma li capisco»

«Sono un pacifista, però ora vi spiego perché vorrei andare a tirare le pietre». Così esordisce Zahid Rafiq in un articolo su Tehelka, il settimanale indiano che negli ultimi anni si è affermato come un'autorevole voce critica. Rafiq, 26 anni, è un giornalista kashmiro che sa catturare in profondità la psicologia del conflitto in quella valle percorsa da una rivolta ormai più che ventennale: la rabbia dei ragazzi che tirano le pietre, l'atteggiamento supponente dell'establishment indiano «che si comporta come uno struzzo, nasconde la testa nella sabbia e pensa che non ci sia alcun problema».

Dopo la fine dell'insurrezione armata nel 2003 molti dicevano che i kashmiri si erano rassegnati a essere parte dell'India. Perché il conflitto sta riesplodendo?
Il sentimento di libertà non si è mai spento, neppure durante i quattro anni di relativa calma dopo il 2003. Non può essere schiacciato nel sangue né comprato con i soldi di New Delhi. Il fatto è dopo la vittoria militare delle forze di sicurezza indiane sui guerriglieri il movimento è stato costretto a trasformarsi passando dai fucili alle pietre. E' stato un passaggio complesso che non poteva avvenire in una notte..

Come è cambiato il conflitto in Kashmir rispetto agli anni '90?
Il conflitto in Kashmir è diventato una guerra in cui una parte decide di essere diseguale. Quando un ragazzo prende una pietra e cammina verso un soldato sa che la pietra può soltanto ferire superficialmente il soldato, ma sa pure che se il soldato gli spara lui probabilmente morirà oppure finirà mutilato. Scegliendo la pietra invece del fucile il ragazzo si pone su un piano morale più alto, dove lo scontro non ha più a che fare con la forza fisica ma con la forza morale.

Oltre ai ragazzini, si vedono anche molte donne scendere in piazza e tirare le pietre. Che significa?
Il governo aveva chiesto alle donne di andare alle proteste per fermare i propri figli. Loro sono andate a tirare le pietre. Per le donne kashmire è un atto catartico dopo vent'anni di silenzio, passati vedendo il fratello portato via dalla polizia, il marito maltrattato dai soldati, i funerali passare sotto la finestra. Le donne non potevano essere parte dell'insurrezione armata ma ora sono uscite allo scoperto.

Lo stato indiano risponde alle pietre con gli stessi mezzi con cui ha stroncato i ribelli armati. Perchè una risposta tanto repressiva?
Lo stato indiano continua a voler curare la malattia trattando i sintomi. Non vuole accettare il fatto che la stragrande maggioranza dei kashmiri desidera l'indipendenza. Il dramma per loro è che questo movimento è più difficile da fronteggiare che un'insurrezione armata. Gli indiani preferirebbero risolvere la situazione usando i 700.000 soldati stanziati in Kashmir. Vogliono evitare a tutti i costi manifestazioni politiche perché mettono a nudo il fatto che i separatisti non sono terroristi e hanno richieste legittime.

Si parla molto del rischio di una nuova insurrezione armata di impronta jihadista. Cosa ne pensa?
Dopo l'esperienza dell'insurrezione armata in Kashmir nessuno vuole imbracciare un fucile. Al momento i fondamentalisti musulmani non sono benvenuti in Kashmir, dove non è ricordato con piacere l'arrivo in massa di guerriglieri stranieri durante gli anni '90. Tuttavia con tutti i ragazzini che vengono uccisi uno può immaginare cosa passi per la testa ai loro fratelli, cugini, vicini di casa. Se il massacro continua c'è il rischio che i jihadisti trovino di nuovo spazio e che il Kashmir torni ad essere terreno di battaglia dai fondamentalisti musulmani dopo che gli americani si saranno ritirati dall'Afganistan. E sarebbe una tragedia, sia per l'India che per il Kashmir. I kashmiri si troverebbero a combattere una guerra che non gli appartiene. Al primo colpo sparato contro i soldati indiani questo movimento sarà morto.

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