martedì 31 agosto 2010

La rivolta dei «boys», i figli del conflitto

Una famiglia di Pampore, centro del commercio di zafferano nel settentrionale stato indiano di Jammu e Kashmir, è riunita davanti alla tv dove va in onda l'ennesimo musical di Bollywood. E' la scena serale comune a milioni di case indiane, da Calcutta a Bombay, dal meridionale Tamil Nadu alle montagne dell'Himalaya. Qui però alla spensierata musica «filmi» si sovrappongono presto le grida di un] corteo che protesta per la morte di un manifestante ucciso dai soldati indiani. Allo slogan azadi (libertà) Zurbaid, il figlio più giovane, 13 anni, i capelli corti ben pettinati e una t-shirt verde Adidas, si alza di scatto ed esce di casa, senza uno sguardo. Il padre scuote la testa: «Non c'è niente da fare. Questi ragazzi non ci stanno a sentire», dice rassegnato: «They are fearless», non hanno paura di niente, «è impossibile fermare i boys».

Ormai Kashmir tutti li chiamano così, i boys: sono i ragazzini che tirano le pietre, protagonisti di quell'intifada di massa che questa estate è diventata la principale forma di protesta del movimento separatista, ennesima metamorfosi della rivolta cominciata nel 1989 e in cui sono morti ormai 70.000 kashmiri. I boys sono teenagers come Zurbaid, dai 10 ai 18 anni, ma anche bambini di 7, 8, 9 anni. Li vedi radunarsi a nugoli nelle viuzze dei villaggi di montagna o nelle stradine della città vecchia di Srinagar, capitale estiva dello stato di Jammu e Kashmir, per poi uscire in forza sulle strade principali con sassaiole improvvise. Scagliano pietre contro i muri delle caserme, le finestre degli edifici del governo, i sacchi di sabbia dei bunker piazzati a ogni incrocio e gli scudi di bambù dei soldati paramilitari indiani. Pochi minuti e arrivano le divise khaki della Crpf (Central Reserve Police Force) che per disperdere i boys sparano proiettili di gomma, gas lacrimogeni e raffiche di Ak47. Spesso un ragazzo rimane a terra in una pozza di sangue. Alla notizia di morti e feriti i boys si ributtano per strada a sfogare la loro rabbia con nuovi lanci di pietre. I soldati rispondono sparando senza troppi scrupoli, certi della protezione delle leggi speciali. Ogni giorno si aggiungono al conto nuovi morti e feriti che innescano nuove proteste, un circolo vizioso di cui non si vede la fine.

Soldati contro ragazzini

A due mesi e mezzo dall'inizio di questa ondata di proteste i morti sono 64, tutti civili. Oltre la metà dei caduti sono minorenni, tra cui anche tre bambini di 7 anni. A innescare l'intifada di quest'estate è stata del resto proprio l'uccisione di un ragazzo, Tufail Ahmed Mattoo, 17 anni, morto l'11 giugno. Passava accanto a una protesta pacifica contro un episodio di brutalità dell'esercito, tornando a casa dopo una lezione privata, quando è stato colpito in testa da un proiettile di gas lacrimogeno sparato ad alzo zero. Tufail è diventato così il primo di una serie di vittime minorenni: ragazzini come Faizan Rafiq, 13 anni annegato il 17 luglio dopo essere stato stordito dai soldati e poi buttato nel fiume Jhelum che attraversa Srinagar. O bambini come Sameer Ahmad Rah, 7 anni, morto il 2 agosto e diventato il simbolo della brutalità dello stato. Era uscito di casa per comprare della frutta quando è stato inseguito da cani randagi. Vedendolo correre i soldati lo hanno circondato e si sono accaniti su di lui, spezzandogli diverse costole prima di spingergli un bastone in fondo alla gola davanti a passanti terrorizzati.
L'impressionante numero di minorenni uccisi e mutilati dalle forze di sicurezza indiane in quest'estate di sangue è la prova di quello che vanno ripetendo tanti kashmiri adulti, increduli di fronte alla mattanza: che questo conflitto si sta transformando in un attacco ai figli della guerra civile, la generazione di kashmiri nata dopo il 1989. Una generazione cresciuta sotto l'occupazione militare, la cui vita quotidiana è stata segnata dall'ingombrante presenza di 700.000 soldati, ritmata da uccisioni indiscriminate, da storie di stupri e torture, il lutto per la morte di padri e parenti e l'umiliazione delle perquisizioni continue. Questi ragazzi non si sono abituati a vivere sotto il coprifuoco. Disillusi dal fallimento di ogni promessa di risoluzione del conflitto, usano le pietre come lettere di protesta indirizzate a New Delhi, per far sapere che in Kashmir non regna la pace.
Di fronte a ragazzini infuriati, la classe dirigente indiana e kashmira sembra incapace di fornire qualsiasi risposta che non esca dalla canna di un fucile. «Non so bene che cosa sperino di ottenere tirando pietre», ha affermato qualche tempo fa il chief minister (capo del governo) dello stato di Jammu e Kashmir Omar Abdullah, erede della dinastia che da nazionalista kashmira si è trasformata in rappresentante del partito del Congress, quindi dell'attuale governo centrale di New Delhi.

Una generazione senza leader

Farooq ha 17 anni, i capelli alla Ronaldinho sotto una cuffia da rapper, assomiglia ai ragazzi maghrebini, turchi o pakistani che affollano i quartieri popolari di Parigi, Londra e Berlino. Passa le giornate chiuso in casa per il coprifuoco facendo zapping. Poi la sera si incontra con gli amici in centro a Srinagar: va «a tirare le pietre», come ammette senza darsi troppe arie. A volte quando la situazione si fa calda non torna per giorni, provocando l'angoscia della madre, Salima, una delle tante vedove della guerra civile. Il marito, che si era unito alla lotta armata, è scomparso dieci anni fa. Di lui rimane una foto sovraesposta appesa nella piccola stanza che funge da soggiorno e camera da letto. Se i padri, che negli anni '90 hanno imbracciato le armi, sono stati sconfitti militarmente, uccisi, incarcerati o scomparsi, i loro figli sono tutt'altro che rassegnati. «Uccidono una persona in una famiglia e pensano di metterla a tacere», dice Salima. «Ma è l'opposto. Per ogni ucciso due persone si ribellanno».
Oggi i boys non sembrano disposti ad ascoltare i richiami alla calma. «I ragazzini sono incontrollabili», ripetono adulti e anziani. Non sembra avere presa neppure la guida dei due principali leader della Hurriyat conference, il «cartello» delle forze politiche e sociali kashmire che chiedono l'indipendenza, il moderato Mirvaiz Umar Farooq e il radicale Syed Ali Shah Geelani: alcuni boys li tacciano di «venduti». Come tanti altri leader nel passato, primo fra tutti Sheik Abdullah, nonno dell'attuale chief minister, a suo tempo riconosciuto e stimati leader dei kashmiri (fu lui a optare per New Delhi in un quadro di autonomia nel 1947, quando dal vecchio impero coloniale nascevano le due nazioni separate di india e Pakistan): la cui tomba è costantemente presidiata da quattro soldati per evitare profanazioni. «I boys non hanno leader»: lo dicono gli oppositori del movimento per certificarne la follia e giustificarne la repressione, ma lo sostengono gli stessi ragazzi, che ci tengono a non farsi dipingere come le pedine di qualche grande vecchio o come manovalanza dello stato pakistano, pagati 200 rupie al giorno per tirare pietre come sostiene la stampa nazionalista indiana che dietro ogni protesta vede la longa manus dell'Isi, il famigerato servizio segreto di Islamabad.
Una persona per la verità c'è che gode della fiducia di boys, e che la rivolta degli ultimi mesi sta innalzando a nuovo leader del movimento separatista. E' Masarat Allam, leader della Muslim League del Kashmir e vice del venerando Geelani alla guida della fazione radicale della Hurriyat: con i suoi 39 anni non è certo un teenager, ma che con la sua intransigenza si è guadagnato il rispetto dei ragazzini tirapietre. Se il calendario di protesta ufficiale (non è del tutto vero che il movimento non ha riferimenti) è ancora redatto da Geelani, stando ai boys è Allam dal suo rifugio segreto a muovere le fila dell'insurrezione. Ha coniato lui lo slogan «Go India, go back», diventato la parola d'ordine di questo movimento. Dietro la sua lunga barba da ligio musulmano si sta assembrando una generazione intransigente che chiede azadi, libertà.
Ma se chiedi ai boys che cosa intendano esattamente per «azadi» non parlano di indipendenza, autonomia, auto-governo e di altre possibili soluzioni negoziali. «Quello che vogliamo è semplice» dice Farooq: «Che i soldati se ne vadano. Vogliamo vivere senza dover spiegare a un soldato dove stai andando ogni volta che esci di casa, senza essere umiliati. Vogliamo vivere senza paura». Lo dice guardando i due fratelli minori giocare a cricket con una palla di plastica e un asse di legno. E' cosi che tanti boys hanno imparato a prendere la mira. La prossima estate potrebbe essere il loro turno.

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