COPENHAGEN - Li hanno presi lunedì notte sul selciato di Christiana, come venerdì, sabato e domenica sull’asfalto di Norrebro, Amagerbro e Osterport, i quartieri di Copenhagen che sono diventati il teatro delle proteste contro la conferenza Onu sul clima. Circondati, immobilizzati, ammanettati, messi in file ordinate sull’asfalto, tenuti seduti al freddo per ore, e poi caricati su bus e furgoni, per finire nelle gabbie di un ex deposito della Tuborg trasformato in carcere politico temporaneo. Alla vigilia della grande protesta «Reclaim the power», che questa mattina cercherà di fare breccia nell’apparato di sicurezza del Bella Center dove si svolge il summit per dare vita a un’«assemblea popolare sul clima», Copenhagen sembra un buco nero della democrazia.
Battuto ogni record di arresti in Europa negli ultimi decenni: 968 sabato, 200 domenica, 212 ieri notte, una decina ieri. Quasi tutti, senza accuse, rilasciati entro 12 ore,ma alcune persone sono finite in carcere pure due o tre volte. «Danimarca fuori dall´Unione Europea per i diritti umani» - ha denunciato L’Ong danese Krim, mentre Amnesty ha condannato il comportamento delle forze dell’ordine. i partiti di opposizione hanno chiesto che la legge che permette gli arresti preventivi, inasprita poche settimane fa, venga eliminata, perché il governo aveva promesso che sarebbe stata utilizzata solo in caso di emergenza. «Stiamo garantendo il diritto di protesta» ha dichiarato il portavoce della polizia Johnny Lundberg. «Avendo visto quello che è successo a Seattle e aGenova abbiamo deciso che questo era il modo per garantire una conferenza tranquilla». A coronare la campagna repressiva, ieri la polizia ha arrestato Tadzio Muller, tedesco, 33 anni, una delle figure di punta di Climate Justice Action, coalizione che va da attivisti anarchici ed autonomi fino a Friends of the Earth e Via Campesina. Se lo sono portato via tre agenti in borghese mentre verso le 3 abbandonava il Bella Center dove si era tenuta una conferenza stampa della coalizione di protesta. Istigazione di reato e resistenza a pubblico ufficiale le accuse mossegli.
A seguire nel pomeriggio sono stati condotti arresti al Klimaforum, il controvertice della società civile ed è stato perquisito il centro sociale Bolsjefabriken, dove sono alloggiatimolti attivisti internazionali. Lunedì notte invece la polizia aveva attaccato il «libero villaggio» di Christiania (occupato da una comunità hippie nel 1971) con centinaia di agenti, mentre era in corso una festa degli attivisti di Climate Justice Action. All’arrivo della polizia è partito un lancio di bottiglie e bombe carta, e barricate sono state innalzate alle diverse entrate. La polizia ha sparato diversi lacrimogeni ed è poi entrata in forze, arrestando 212 persone di cui solo sette trattenute oltre le 12 ore. «Stavamo bevendo una birra quando di colpo ci siamo ritrovati di fronte decine di agenti che urlavano, brandivano i manganelli e aizzavano i cani» spiega Laura, 31 anni di Roma. «Alcune ragazze sono andate in crisi di panico. Ci hanno ammanettato con lacci di plastica stretti sul polso, e ci hanno tenuto per terra al freddo per quasi due ore prima di portarci via». Sono decine gli italiani che sono finiti in carcere in seguito all’operazione, tutti rilasciati nella mattinata, fatta eccezione per Luca Tornatore, astrofisico che lavora all’osservatorio di Trieste ed è attivo al centro sociale Casa della cultura, accusato di «istigazione di reato».
«In tanti anni di proteste in giro per l’Europa non ho mai visto niente del genere» racconta Gianmarco De Pieri, attivista bolognese dell’area ex-disobbediente, «questa è una repressione preventiva e collettiva. L’obiettivo è chiudere ogni spazio a chi contesta la conferenza sul clima». «Spaventa vedere il proprio paese scivolare verso il fascismo» riflette Rune, 34 anni, che vive vicino a Christiania. «È una specie di fascismo dolce. La polizia ti arresta in maniera gentile. Main tanto ti impediscono di protestare » spiega Bernat un’attivista catalano che è stato arrestato con quattro amici ad Amagerbro, sabato scorso. «Non pensavo queste cose succedessero in Scandinavia». Nonostante l’attacco della polizia, la protesta di oggi va avanti, assicurano gli attivisti di Climate Justice Action. Gli attivisti si riuniranno attorno alle 8 dimattina alle stazioni di Tarnby e Orestad, per poi muoversi verso il Bella Center, dove vogliono tenere un’assemblea alternativa a quella ufficiale dove discutere «le soluzioni vere al cambiamento climatico, e non quelle propinate dalle multinazionali». Per Nick Thorpe uno dei portavoce di CJA, coalizione finita dentro la morsa delle forze dell’ordine. «Il comportamento degli ultimi giorni e l’arresto di Tadzio Mullermostrano il livello di disperazione della polizia e del governo, che vogliono soffocare il dissenso proprio mentre il negoziato ufficiale si sta avviando al fallimento».
mercoledì 16 dicembre 2009
domenica 13 dicembre 2009
Effetto terra a Copenhagen
Più di centomila, tra ecologisti e no global, invadono la capitale danese per chiedere alla Conferenza internazionale sul clima impegni precisi e urgenti contro le emissioni inquinanti. Centinaia di arresti in una città blindata e pugno duro della polizia. Cortei in tutto il mondo
Pugno duro della polizia con centinaia di arrestati alla prima protesta contro la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Centinaia di persone, 400 o 700 in base a informazioni fornite da polizia e organizzatori della protesta sono stati circondate, ammanettate e caricate su furgoni e pullman dalle forze dell'ordine danesi, che hanno approfittato di alcune scaramucce con la parte più militante della manifestazione per isolare la coda del corteo in cui si trovava il «blocco nero». La polizia ha utilizzato in modo massiccio, il diritto all'arresto preventivo, con la possibilità di fermi della durata di 12 ore, di recente approvato dal parlamento.
L'atteggiamento repressivo della polizia si è abbattuto su una manifestazione festosa e pacifica e che ha visto sfilare oltre 100.000 persone, appartenenti a più di 500 organizzazioni, venute a Copenhagen per protestare contro le élite politiche ed economiche del pianeta che continuano impedire la ricerca di una soluzione al riscaldamento globale.
Il corteo diretto al Bella Center, dove si tiene la conferenza delle Nazioni unite, è partito alle due dalla piazza di fronte al parlamento dove nella mattinata sostenitori di Friends of the Earth avevano inscenato un nuovo diluvio di Noé, per denunciare il rischio dall'innalzamento del livello dei mari, e l'aumento di uragani ed alluvioni scatenato dall'aumento della temperatura.
In testa al corteo si sono schierate le organizzazioni moderate, parte del cartello Tck Tck Tck. Dietro, partiti socialisti ed ecologisti, gli attivisti della coalizione Climate Justice Action, e i fazzoletti verdi di Via Campesina. A chiudere l'imponente serpentone umano, i gruppi più militanti del movimento, tra cui black bloc, con sciarpe e maschere a coprire il viso dal vento e dallo sguardo indiscreto delle telecamere della polizia.
Tra i manifestanti scesi ieri in piazza tante facce note del movimento no-global, tra cui Naomi Klein, che nelle settimane scorse aveva definito Copenhagen una nuova Seattle. Al loro fianco nuove leve di ventenni radicalizzatisi di fronte all'emergenza climatica, insieme a nuove sigle, nuove bandiere e nuovi slogan, del movimento globale sul clima, che vede la conferenza come una tappa decisiva nella lotta contro l'effetto serra.
I cartelli branditi dai manifestanti chiedono «giustizia climatica», «pianeta, non profitti», ed avvertono che non c'e' un pianeta di riserva in caso quello che abbiamo a disposizione finisca arrosto a causa di emissioni senza freno. Attivisti vestiti da pinguini, e orsi polari scongiurano di fermare lo scioglimento dei ghiacciai, mentre ragazzi hippie che brandiscono porri quasi fossero «armi improprie», gridano che il consumo di carne è una delle principali cause dell'effetto serra. Poco dietro tante giovani famiglie danesi giunte con passeggini e biciclette e preoccupate per la sorte dei figli in un paese che può finire sott'acqua con l'innalzamento del livello dei mari.
Lasse, 37 anni, porta a spalle suo figlio di 3 anni - «Mi piacerebbe che crescesse in un mondo in cui si potranno ancora vedere i fiocchi di neve». Ingrid, 26 anni di Parigi, porta al collo un salvagente di cartone, colorato di bianco e rosso che reca la scritta «il cambiamento climatico uccide». «I governi devono adottare politiche stringenti sulla questione del clima" - afferma . «Non bisogna cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema che ha causato il cambiamento climatico». Nella dimostrazione anche centinaia di italiani giunti da Torino, Milano, Bologna, Venezia, Roma, Napoli.
Scontri tra manifestanti e polizia esplodono quando la marcia passa presso Christiania, luogo occupato dal 1971, e simbolo della scena anarco-autonoma danese. Il blocco nero lancia un paio di bombe carta agli agenti e poi si dilegua per una strada laterale, seguito dai furgoni della polizia. Più di un centinaio di persone vengono circondate e detenute.
Circa un'ora piu tardi nuove scaramucce tra Black Bloc e polizia si verificano per le strade del quartiere di Amagerbro a metà strada tra il centro e il Bella Center. La polizia decide di fare fuori la coda del corteo, circonda ed ammanetta oltre duecento attivisti, che vengono tenuti per ore sull'asfalto ghiacciato prima di essere prelevati e portati in prigione. Nonostante il comportamento della polizia il grosso della manifestazione riesce ad arrivare senza incidenti di fronte al Bella Center.
Gli arresti di ieri sono un nuovo sintomo della preoccupazione della polizia danese che pur avendo concentrato quasi la metà delle forze dell'ordine nella capitale ha paura che la situazione le sfugga di mano. Alla vigilia della protesta di ieri, 78 manifestanti erano stati arrestati dopo una piccola dimostrazone pacifica tenuta nel quartiere di Norrebro. Tra loro 8 italiani, di cui 7 sono rilasciati dopo poche ore, mentre l'attivista veneziano Tommaso Cacciari è stato rilasciato solo nella mattinata di ieri dopo l'udienza di convalida. Per Luca Casarini che ha partecipato alla manifestazione assieme ad un contingente di 200 attivisti venuti da Bologna e dal Veneto - «questo caso è la dimostrazione di che cos'è il diritto di protesta nell'algida democrazia danese».
Dopo gli arresti di ieri, ora i riflettori sono tutti puntati sulla manifestazione Reclaim the Power, prevista mercoledì prossimo.Gli attivisti di Climate Justice Action, promettono di invadere il Bella center, per dare vita ad un'assemblea popolare sul cambiamento climatico. Ma vista la strategia mostrata ieri dalla polizia, è probabile che le forze dell'ordine cercheranno di disperdere la manifestazione molto prima che si avvicini al centro conferenze.
Pugno duro della polizia con centinaia di arrestati alla prima protesta contro la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Centinaia di persone, 400 o 700 in base a informazioni fornite da polizia e organizzatori della protesta sono stati circondate, ammanettate e caricate su furgoni e pullman dalle forze dell'ordine danesi, che hanno approfittato di alcune scaramucce con la parte più militante della manifestazione per isolare la coda del corteo in cui si trovava il «blocco nero». La polizia ha utilizzato in modo massiccio, il diritto all'arresto preventivo, con la possibilità di fermi della durata di 12 ore, di recente approvato dal parlamento.
L'atteggiamento repressivo della polizia si è abbattuto su una manifestazione festosa e pacifica e che ha visto sfilare oltre 100.000 persone, appartenenti a più di 500 organizzazioni, venute a Copenhagen per protestare contro le élite politiche ed economiche del pianeta che continuano impedire la ricerca di una soluzione al riscaldamento globale.
Il corteo diretto al Bella Center, dove si tiene la conferenza delle Nazioni unite, è partito alle due dalla piazza di fronte al parlamento dove nella mattinata sostenitori di Friends of the Earth avevano inscenato un nuovo diluvio di Noé, per denunciare il rischio dall'innalzamento del livello dei mari, e l'aumento di uragani ed alluvioni scatenato dall'aumento della temperatura.
In testa al corteo si sono schierate le organizzazioni moderate, parte del cartello Tck Tck Tck. Dietro, partiti socialisti ed ecologisti, gli attivisti della coalizione Climate Justice Action, e i fazzoletti verdi di Via Campesina. A chiudere l'imponente serpentone umano, i gruppi più militanti del movimento, tra cui black bloc, con sciarpe e maschere a coprire il viso dal vento e dallo sguardo indiscreto delle telecamere della polizia.
Tra i manifestanti scesi ieri in piazza tante facce note del movimento no-global, tra cui Naomi Klein, che nelle settimane scorse aveva definito Copenhagen una nuova Seattle. Al loro fianco nuove leve di ventenni radicalizzatisi di fronte all'emergenza climatica, insieme a nuove sigle, nuove bandiere e nuovi slogan, del movimento globale sul clima, che vede la conferenza come una tappa decisiva nella lotta contro l'effetto serra.
I cartelli branditi dai manifestanti chiedono «giustizia climatica», «pianeta, non profitti», ed avvertono che non c'e' un pianeta di riserva in caso quello che abbiamo a disposizione finisca arrosto a causa di emissioni senza freno. Attivisti vestiti da pinguini, e orsi polari scongiurano di fermare lo scioglimento dei ghiacciai, mentre ragazzi hippie che brandiscono porri quasi fossero «armi improprie», gridano che il consumo di carne è una delle principali cause dell'effetto serra. Poco dietro tante giovani famiglie danesi giunte con passeggini e biciclette e preoccupate per la sorte dei figli in un paese che può finire sott'acqua con l'innalzamento del livello dei mari.
Lasse, 37 anni, porta a spalle suo figlio di 3 anni - «Mi piacerebbe che crescesse in un mondo in cui si potranno ancora vedere i fiocchi di neve». Ingrid, 26 anni di Parigi, porta al collo un salvagente di cartone, colorato di bianco e rosso che reca la scritta «il cambiamento climatico uccide». «I governi devono adottare politiche stringenti sulla questione del clima" - afferma . «Non bisogna cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema che ha causato il cambiamento climatico». Nella dimostrazione anche centinaia di italiani giunti da Torino, Milano, Bologna, Venezia, Roma, Napoli.
Scontri tra manifestanti e polizia esplodono quando la marcia passa presso Christiania, luogo occupato dal 1971, e simbolo della scena anarco-autonoma danese. Il blocco nero lancia un paio di bombe carta agli agenti e poi si dilegua per una strada laterale, seguito dai furgoni della polizia. Più di un centinaio di persone vengono circondate e detenute.
Circa un'ora piu tardi nuove scaramucce tra Black Bloc e polizia si verificano per le strade del quartiere di Amagerbro a metà strada tra il centro e il Bella Center. La polizia decide di fare fuori la coda del corteo, circonda ed ammanetta oltre duecento attivisti, che vengono tenuti per ore sull'asfalto ghiacciato prima di essere prelevati e portati in prigione. Nonostante il comportamento della polizia il grosso della manifestazione riesce ad arrivare senza incidenti di fronte al Bella Center.
Gli arresti di ieri sono un nuovo sintomo della preoccupazione della polizia danese che pur avendo concentrato quasi la metà delle forze dell'ordine nella capitale ha paura che la situazione le sfugga di mano. Alla vigilia della protesta di ieri, 78 manifestanti erano stati arrestati dopo una piccola dimostrazone pacifica tenuta nel quartiere di Norrebro. Tra loro 8 italiani, di cui 7 sono rilasciati dopo poche ore, mentre l'attivista veneziano Tommaso Cacciari è stato rilasciato solo nella mattinata di ieri dopo l'udienza di convalida. Per Luca Casarini che ha partecipato alla manifestazione assieme ad un contingente di 200 attivisti venuti da Bologna e dal Veneto - «questo caso è la dimostrazione di che cos'è il diritto di protesta nell'algida democrazia danese».
Dopo gli arresti di ieri, ora i riflettori sono tutti puntati sulla manifestazione Reclaim the Power, prevista mercoledì prossimo.Gli attivisti di Climate Justice Action, promettono di invadere il Bella center, per dare vita ad un'assemblea popolare sul cambiamento climatico. Ma vista la strategia mostrata ieri dalla polizia, è probabile che le forze dell'ordine cercheranno di disperdere la manifestazione molto prima che si avvicini al centro conferenze.
mercoledì 9 dicembre 2009
Il grido del Controforum: «I paesi ricchi devono pagare»
COPENHAGEN - Sono i paesi ricchi che hanno provocato il cambiamento climatico bruciando in pochi decenni buona parte delle riserve di combustibili fossili che si erano accumulate in decine di migliaia di anni. Ora sono loro che devono coprire i danni causati da questo comportamento irresponsabile, e dalle conseguenze del riscaldamento globale che rischia di rendere inabitabili ampie zone del pianeta. Questo il messaggio lanciato ieri dal palco del Klimaforum, la contro-conferenza messa in piedi dalle organizzazioni della società civile globale in occasione della conferenza Cop15 dell'Onu sul cambiamento climatico in corso a Copenhagen. In occasione dell'atteso dibattito sul «debito ecologico» svoltosi nel pomeriggio, rappresentanti di organizzazioni indigene e movimenti popolari del sud del mondo come Via Campensina e Jubilee South, hanno lanciato la proposta di un tribunale popolare per la «giustizia climatica» affinché i paesi ricchi paghino per i danni causati all'ecosistema.
«Nei paesi del terzo mondo, la gente ha poca responsabilità per quello che sta succedendo all'ecosistema. Eppure le conseguenze più gravi dell'effetto serra saranno avvertite soprattutto dagli abitanti del sud globale, a cui viene reso impossibile uscire dalla loro condizione di povertà», ha dichiarato l'attivista indonesiano Yuyun Harmono di fronte a oltre quattrocento persone venute a seguire l'evento. «Il cambiamento climatico non è un problema a sé. Non è nient'altro che l'ultimo capitolo di una lunga storia di ingiustizie, fatta di colonizzazione e depredamento delle risorse naturali da parte del Nord del mondo a scapito dei paesi del terzo mondo. Ora tocca ai paesi ricchi tagliare le emissioni e trovare i soldi per aiutare i paesi più poveri».
Per Percy Makombe, membro di Via Campensina venuto a Copenhagen dal Mali, il comportamento sconsiderato dei paesi industrializzati sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza di molte comunità rurali nell'Africa sub-sahariana. «Ogni anno vediamo il deserto che avanza, e la stagione delle pioggie che tarda ad arrivare. Abbiamo bisogno di agire in fretta per evitare la catastrofe. Eppure i potenti del pianeta non sembrano avvertire questo senso di urgenza».
In una giornata segnata dall'indignazione seguita alla rivelazione di una bozza di documento finale per la conferenza Onu sul clima preparato dai padroni di casa danesi, e completamente piegata sulle richieste dei paesi più ricchi, gli interventi sul palco del Klimaforum hanno affermato che nessun accordo è possibile se i paesi che hanno inquinato il pianeta non si assumeranno le proprie responsabilità.
«Qui la questione è decidere se vogliamo salvare la madre terra o se vogliamo andare avanti con il sistema capitalistico basato su un consumismo distruttivo», ha affermato Elyzabeth Peredo, della delegazione boliviana a Copenhagen. «Il compito che spetta al movimento per la giustizia climatica è costruire un paradigma differente rispetto a questo sistema suicida».
Il dibattito sulla questione del debito ecologico è uno dei 190 eventi ospitati dalla contro-conferenza. L'obiettivo è fare incontrare attivisti, contadini, pescatori, lavoratori, scienziati e le popolazioni colpite dall'effetto serra, per costruire un dibattito comune sull'emergenza clima e discutere le alternative economiche e sociali necessarie per costruire un futuro sostenibile.
Nonostante la diversità ideologica dei gruppi che partecipano al Klimaforum, tutti sono d'accordo nel rifiutare quanto viene proposto dai paesi più ricchi, in particolare il meccanismo della borsa delle emissioni di anidride carbonica. «Usare il mercato per risolvere l'emergenza clima è una follia», dice Ivonne Yanez, rappresentante di Oilwatch Americas, organizzazione che denuncia il depredamento delle risorse petrolifere nel continente americano. «L'ambiente è un bene comune a cui tutti hanno diritto, non una discarica dove si può pagare se si vuole inquinare di più».
martedì 1 dicembre 2009
Il verde e il no global: sul clima un nuovo movimento - intervista con Michael hardt
Dieci anni dopo le grandi proteste contro la riunione dell'Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, un nuovo movimento globale potrebbe nascere sulle strade gelate di Copenhagen, dove tra 6 giorni comincerà una conferenza Onu sul clima che sarà assediata da decine di migliaia di manifestanti. Reduce dalla recente pubblicazione di Commonwealth, libro che completa la trilogia di Impero e Moltitudine, scritta a quattro mani con Toni Negri, e che parla della necessità di costruire nuove istituzioni per gestire i beni comuni, Michael Hardt guarda con fiducia a una mobilitazione che, secondo l'autrice no-global Naomi Klein, segna il passaggio all'età adulta del movimento anti-globalizzazione. Tuttavia non nasconde le difficoltà che la questione del cambiamento climatico pone alla sinistra anticapitalista. «Bisogna trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche di benessere per tutti e i limiti delle risorse naturali. E non si tratta di un compito facile».
Pensi che il movimento che si sta organizzando per Copenhagen sia una continuazione del movimento no-global?
Il ciclo cominciato a Seattle e continuato a Goteborg, Praga e poi Genova, che era caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di gruppi e di conflitti è terminato con l'inizio della guerra contro l'Iraq e l'Afghanistan. Copenhagen è qualcosa di nuovo in cui, penso, si vedranno alcune delle qualità che hanno caratterizzato il movimento contro la globalizzazione neoliberista, tra cui la presenza di forme di organizzazione orizzontale. Però, al momento, non è ancora chiaro se si tratta dell'apertura di un ciclo di dimensione simile a quello «no-global».
Questa volta, le proteste prendono di mira una conferenza che sulla carta punta a salvare l'ecosistema piuttosto che a fare del mondo un grande mercato comune
Diverso è anche l'atteggiamento dei movimenti. A Seattle eravamo contro il capitale globale e bisognava bloccare a tutti i costi quella riunione. In questo caso invece ci confrontiamo con un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere e su cui si deve prendere una decisione, ma la si deve prendere in maniera autentica e giusta.
Dall'antagonismo del ciclo no-global a un orientamento più riformista?
Non penso che le due cose si escludano. È vero che è urgente riformare l'economia globale e il rapporto con l'ambiente, perché le riforme sono necessarie e quelle proposte finora sono insufficienti. Ma in questo ambito non vedo una incompatibilità tra riforme e antagonismo. E neppure capisco chi storce il naso se uno chiede riforme sul clima anche a livello statale, e poi vuole costruire una politica radicalmente diversa che guardi oltre lo stato e oltre il mercato.
Qual è secondo te la principale differenza tra gli attivisti che andranno a Copenhagen e quelli che manifestarono a Seattle?
Mi sembra che la gente che si sta mobilitando per Copenhagen sia di due tipi diversi. Da un lato ci sono gruppi anticapitalisti come quelli che andarono a Seattle, dall'altro ci sono gruppi ecologisti. Entrambi questi fronti fanno riferimento a un'idea del bene comune, ma per altri versi sono ancora distanti. Nelle lotte anticapitaliste c'è l'idea dell'illimitatezza dei beni comuni. Invece nel movimento ecologista c'è una coscienza del limite. E in verità la terra, l'acqua, l'ambiente pongono dei limiti. È un conflitto interessante, che non può essere risolto a tavolino dagli intellettuali ma dev'essere risolto all'interno del movimento.
In alcune parti della sinistra anticapitalista sembra esserci una certa allergia verso un modo di affrontare la questione del cambiamento climatico considerato regressivo, perché cozza contro le richieste di benessere e si sposa invece con l'austerità.
È un istinto giusto quello di non fidarsi di coloro che insistono sull'austerità. Tuttavia, sono convinto che in questo ambito bisogna confrontarsi una buona volta sulla questione dei limiti. Questo non vuol dire che bisogna lasciar perdere la nostra battaglia per il benessere per tutti, il «vogliamo tutto» di Balestrini. Ma bisogna pure trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche e i limiti delle risorse naturali. Sono convinto che sia possibile tenere insieme l'illimitata creatività sociale umana e i limiti delle risorse naturali.
Spesso nel dibattito sul cambiamento climatico sentiamo riferimenti all'idea di «dovere»: dovere verso le generazioni future, dovere verso il terzo mondo, o dovere verso il pianeta. Sono discorsi che sembrano fare a pugni con quel concetto di desiderio che sta al centro del filone filosofico su cui tu e Toni Negri avete lavorato. Non è urgente recuperare a sinistra un'idea di dovere?
All'interno della sinistra anticapitalista il rifiuto del concetto di «dovere» viene da una diffidenza verso l'autorità e quindi dal rifiuto dell'autorità del padrone o del partito. Il dovere nel senso di contratto sociale dovrebbe essere distinto dal dovere come «responsabilità» verso la natura ad esempio. Sicuramente confrontare i limiti del desiderio è un compito molto alto. Purtroppo non è un compito facile.
In questi ultimi anni si è parlato molto di decrescita, e questo è un filone di discussione che acquista nuova forza alla luce dell'emergenza clima. Pensi che sia una proposta utile?
Io penso che il discorso che si è sviluppato attorno al concetto di decrescita sconti due grossi equivoci. Prima di tutto bisogna chiarire cosa si intende per crescita, se si intende quella della grande industrializzazione, della produzione di merce materiale, oppure se si intende la crescita di conoscenze, immagini e codici. Questo è un tipo di crescita che secondo me è illimitata e che non produce necessariamente danni all'ecosistema. L'altro equivoco è che non si fa differenza tra mondo dominante e mondi subordinati. Prova a dire in un foro sociale mondiale ai sindacalisti indiani e indonesiani che non devono crescere e quelli ti mandano a quel paese. E a ragione. Perché la questione della crescita è una questione che si pone in maniera diversa per diverse economie. In ogni caso, credo che l'idea di decrescita sia parte di una discussione che è necessario fare e sono felice che nell'avvicinamento a Copenhagen si stia sviluppando un dibattito intenso attorno a questa ed altre questioni.
Che connessione c'è tra crisi finanziaria e crisi climatica? È il cambiamento climatico il sintomo che l'esaurimento delle risorse naturali sta inverando la caduta tendenziale del tasso di profitto prevista da Marx?
Sicuramente c'è un nesso tra la scarsità delle risorse e la difficoltà del capitale globale, ma non mi sembra convincente vedere il motivo principale della crisi economica attuale nei problemi ecologici come fanno alcuni. Di certo, entrambe queste crisi vedono sia il capitale che i governi nazionali in difficoltà, perché i problemi in campo sembrano al di fuori della loro portata e della loro capacità di azione.
Il neoliberismo dato più volte per morto non vuole saperne di tirare le cuoia, mentre non sembra esserci un'alternativa coerente capace di scalzarlo. In un'era segnata dal cambiamento climatico il pensiero ecologista può costituire la base per una tale alternativa? È il verde il nuovo rosso?
È vero che nessuna alternativa al momento è in grado di sostituire il neoliberismo. D'altro canto, ciò che esiste al momento è una sorta di ideologia keynesiana-socialista, che è però di fatto un altro morto che cammina. Io non sono convinto che il conflitto ecologista offra una nuova alternativa teorica, né che il verde sia il nuovo rosso. Credo piuttosto che la questione del cambiamento climatico sia un campo di battaglia dove sviluppare una nuova forma di governo dell'economia alternativa al capitalismo.
Pensi che il movimento che si sta organizzando per Copenhagen sia una continuazione del movimento no-global?
Il ciclo cominciato a Seattle e continuato a Goteborg, Praga e poi Genova, che era caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di gruppi e di conflitti è terminato con l'inizio della guerra contro l'Iraq e l'Afghanistan. Copenhagen è qualcosa di nuovo in cui, penso, si vedranno alcune delle qualità che hanno caratterizzato il movimento contro la globalizzazione neoliberista, tra cui la presenza di forme di organizzazione orizzontale. Però, al momento, non è ancora chiaro se si tratta dell'apertura di un ciclo di dimensione simile a quello «no-global».
Questa volta, le proteste prendono di mira una conferenza che sulla carta punta a salvare l'ecosistema piuttosto che a fare del mondo un grande mercato comune
Diverso è anche l'atteggiamento dei movimenti. A Seattle eravamo contro il capitale globale e bisognava bloccare a tutti i costi quella riunione. In questo caso invece ci confrontiamo con un problema vero che in qualche modo bisogna risolvere e su cui si deve prendere una decisione, ma la si deve prendere in maniera autentica e giusta.
Dall'antagonismo del ciclo no-global a un orientamento più riformista?
Non penso che le due cose si escludano. È vero che è urgente riformare l'economia globale e il rapporto con l'ambiente, perché le riforme sono necessarie e quelle proposte finora sono insufficienti. Ma in questo ambito non vedo una incompatibilità tra riforme e antagonismo. E neppure capisco chi storce il naso se uno chiede riforme sul clima anche a livello statale, e poi vuole costruire una politica radicalmente diversa che guardi oltre lo stato e oltre il mercato.
Qual è secondo te la principale differenza tra gli attivisti che andranno a Copenhagen e quelli che manifestarono a Seattle?
Mi sembra che la gente che si sta mobilitando per Copenhagen sia di due tipi diversi. Da un lato ci sono gruppi anticapitalisti come quelli che andarono a Seattle, dall'altro ci sono gruppi ecologisti. Entrambi questi fronti fanno riferimento a un'idea del bene comune, ma per altri versi sono ancora distanti. Nelle lotte anticapitaliste c'è l'idea dell'illimitatezza dei beni comuni. Invece nel movimento ecologista c'è una coscienza del limite. E in verità la terra, l'acqua, l'ambiente pongono dei limiti. È un conflitto interessante, che non può essere risolto a tavolino dagli intellettuali ma dev'essere risolto all'interno del movimento.
In alcune parti della sinistra anticapitalista sembra esserci una certa allergia verso un modo di affrontare la questione del cambiamento climatico considerato regressivo, perché cozza contro le richieste di benessere e si sposa invece con l'austerità.
È un istinto giusto quello di non fidarsi di coloro che insistono sull'austerità. Tuttavia, sono convinto che in questo ambito bisogna confrontarsi una buona volta sulla questione dei limiti. Questo non vuol dire che bisogna lasciar perdere la nostra battaglia per il benessere per tutti, il «vogliamo tutto» di Balestrini. Ma bisogna pure trovare una conciliazione tra le nostre domande democratiche e i limiti delle risorse naturali. Sono convinto che sia possibile tenere insieme l'illimitata creatività sociale umana e i limiti delle risorse naturali.
Spesso nel dibattito sul cambiamento climatico sentiamo riferimenti all'idea di «dovere»: dovere verso le generazioni future, dovere verso il terzo mondo, o dovere verso il pianeta. Sono discorsi che sembrano fare a pugni con quel concetto di desiderio che sta al centro del filone filosofico su cui tu e Toni Negri avete lavorato. Non è urgente recuperare a sinistra un'idea di dovere?
All'interno della sinistra anticapitalista il rifiuto del concetto di «dovere» viene da una diffidenza verso l'autorità e quindi dal rifiuto dell'autorità del padrone o del partito. Il dovere nel senso di contratto sociale dovrebbe essere distinto dal dovere come «responsabilità» verso la natura ad esempio. Sicuramente confrontare i limiti del desiderio è un compito molto alto. Purtroppo non è un compito facile.
In questi ultimi anni si è parlato molto di decrescita, e questo è un filone di discussione che acquista nuova forza alla luce dell'emergenza clima. Pensi che sia una proposta utile?
Io penso che il discorso che si è sviluppato attorno al concetto di decrescita sconti due grossi equivoci. Prima di tutto bisogna chiarire cosa si intende per crescita, se si intende quella della grande industrializzazione, della produzione di merce materiale, oppure se si intende la crescita di conoscenze, immagini e codici. Questo è un tipo di crescita che secondo me è illimitata e che non produce necessariamente danni all'ecosistema. L'altro equivoco è che non si fa differenza tra mondo dominante e mondi subordinati. Prova a dire in un foro sociale mondiale ai sindacalisti indiani e indonesiani che non devono crescere e quelli ti mandano a quel paese. E a ragione. Perché la questione della crescita è una questione che si pone in maniera diversa per diverse economie. In ogni caso, credo che l'idea di decrescita sia parte di una discussione che è necessario fare e sono felice che nell'avvicinamento a Copenhagen si stia sviluppando un dibattito intenso attorno a questa ed altre questioni.
Che connessione c'è tra crisi finanziaria e crisi climatica? È il cambiamento climatico il sintomo che l'esaurimento delle risorse naturali sta inverando la caduta tendenziale del tasso di profitto prevista da Marx?
Sicuramente c'è un nesso tra la scarsità delle risorse e la difficoltà del capitale globale, ma non mi sembra convincente vedere il motivo principale della crisi economica attuale nei problemi ecologici come fanno alcuni. Di certo, entrambe queste crisi vedono sia il capitale che i governi nazionali in difficoltà, perché i problemi in campo sembrano al di fuori della loro portata e della loro capacità di azione.
Il neoliberismo dato più volte per morto non vuole saperne di tirare le cuoia, mentre non sembra esserci un'alternativa coerente capace di scalzarlo. In un'era segnata dal cambiamento climatico il pensiero ecologista può costituire la base per una tale alternativa? È il verde il nuovo rosso?
È vero che nessuna alternativa al momento è in grado di sostituire il neoliberismo. D'altro canto, ciò che esiste al momento è una sorta di ideologia keynesiana-socialista, che è però di fatto un altro morto che cammina. Io non sono convinto che il conflitto ecologista offra una nuova alternativa teorica, né che il verde sia il nuovo rosso. Credo piuttosto che la questione del cambiamento climatico sia un campo di battaglia dove sviluppare una nuova forma di governo dell'economia alternativa al capitalismo.
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