I dirigenti di Royal Mail lo chiamano «piano di modernizzazione», con un corredo di un miliardo di sterline di investimento in macchinari e l'obiettivo di rendere le poste nazionali capaci di competere con altre compagnie postali su un mercato europeo liberalizzato. Ma per i lavoratori delle poste britanniche la proposta del management dell'azienda non è nient'altro che un tentativo di dare il via alla privatizzazione di un'impresa che si è salvata alla svendita delle aziende pubbliche durante gli anni '80 e '90, e che negli ultimi mesi è scampata ad un piano di privatizzazioni, fortemente voluto dal potente ministro dell'Industria Peter Mandelson.
Per chiedere garanzie sul mantenimento dei posti di lavoro ed attaccare l'intenzione dell'azienda di puntare su impieghi di breve termine e part-time, decine di migliaia di lavoratori aderenti a Cwu (Communication Workers' Union) ieri hanno incrociato le braccia. Sin dalle prime ore della mattina 40.000 addetti allo sportello, impiegati e autisti dei furgoni rossi che ogni giorno riempiono le buche delle lettere dei sudditi di Sua Maestà si sono radunati di fronte alle centrali di smistamento di diverse città del Regno Unito. Oggi sarà la volta di 78.000 lavoratori addetti alla raccolta e alla consegna della posta. Lo sciopero ha già creato un forte rallentamento nella consegna di lettere e pacchi, e si prevede che se la disputa andrà avanti, produrrà rallentamenti nella consegna che si protrarranno fino al trafficato periodo delle vacanze natalizie. Per rispondere allo sciopero l'azienda ha deciso di assumere temporaneamente 30.000 lavoratori, e ha aperto nuovi centri di smistamento.
«I picchetti sono forti, con quasi il 100% della forza lavoro» - ha affermato Mole Meade, portavoce del sindacato Cwu, alla fine di una lunga giornata di picchettaggio, al centro di raccolta di Londra Est. «I lavoratori sono motivatati a continuare questa battaglia». «Royal Mail è un'azienda sana, che sta facendo profitti pure nella più grande recessione degli ultimi decenni. Qui non c'è bisogno di un piano di ristrutturazione come quello proposto dall'azienda» - ha dichiarato Pal Frey, delegato sindacale che rappresenta 11.000 lavoratori postali nella capitale. «Temiamo è che governo e management stiano cercando di mandare l'azienda in crisi, per poi dire che l'unica soluzione è la privatizzazione».
Le trattative tra azienda e sindacato, che Gordon Brown, ieri, ha invitato ripetutamente a sedere al tavolo, non danno segni di progresso e se non si arriverà ad una soluzione nei prossimi giorni i lavoratori minacciano di tornare a scioperare per tre giorni la prossima settimana. Per il primo ministro Gordon Brown lo sciopero è un'altra bella gatta da pelare in un momento non facile per l'esecutivo. Un conflitto che porta alla ribalta lo scontro tra il Labour Party e i sindacati che sono i suoi principali finanziatori, sul piano di privatizzazione di Royal Mail.
La privatizzazione di Royal Mail da parte del blairiano Mandelson, già commissario europeo al Commercio, è stato bloccata di fronte alla forte opposizione del sindacato e come contentino alla sinistra del partito che ha contribuito a salvare Brown, messo in pericolo dalla rivolta dei peones, nel giugno scorso. Mandelson tuttavia sembra aver mal digerito la sospensione del piano e negli ultimi giorni non ha perso occasione per attaccare i sindacati, affermando che lo sciopero rischia di segnare il declino dell'azienda e che molti clienti passeranno a usare servizi telematici per spedire documenti, dato che «su Internet non è possibile fare picchettaggi». Il leader dei conservatori David Cameron, ha approfittato dello sciopero per accusare il governo di debolezza di fronte ai sindacati e ha confermato che una volta al governo i Tory procederanno con il piano di privatizzazione.
Il conflitto tra sindacati e dirigenti di Royal Mail sta riportando alla memoria le grandi lotte dei lavoratori degli anni '70 e '80, con il Daily Mirror che ha addirittura paragonato i postini ai minatori che lottarono contro la Thatcher. A 30 anni di distanza dal Winter of Discontent, la versione britannica del nostro autunno caldo, lo sciopero dei postali sembra la prima avvisaglia di risveglio dei lavoratori britannici, che non ne vogliono sapere di pagare le conseguenze della crisi finanziaria.
venerdì 23 ottobre 2009
domenica 18 ottobre 2009
Nottingham, battaglia per la centrale a carbone
Le cime delle funi volano sopra il recinto elettrificato che protegge la centrale a carbone di Ratcliffe-on-Soar, vicino a Nottingham, di proprietà della multinazionale E.on.
Piccoli arpioni montati sui capi si agganciano attorno ai pali della barriera e gruppi di ragazzi cominciano a tirare la fune urlando: «Mai più carbone». «Centrali come queste sono dei dinosauri - protesta Tom, 25enne arrivato da Londra per partecipare alla protesta -: sono una tecnologia vecchia e dannosa. È ora che i governi cambino la maniera in cui produciamo energia».
I pali verdi cominciano a piegarsi sotto l'impeto dei manifestanti, mentre tenaglie aprono buchi nella rete. Ma dentro il perimetro della centrale elettrica le giacchette catarifrangenti della polizia fanno muro chiudendo ogni breccia. Arrestano i pochi attivisti che riescono a filtrare o a scavalcare la barriera. E la montagna di carbone che alimenta le ciminiere della centrale a carbone rimane un nemico vicino ma al tempo stesso irraggiungibile.
In oltre mille hanno preso parte ieri alla protesta per denunciare la follia delle centrali a carbone, il combustibile che produce la maggior quantità di anidride carbonica. «Sono qui perché ho due figli di cinque ed undici anni - racconta James, assistente sociale di Bedford -. Centrali come questa stanno distruggendo il loro futuro. Il pianeta in cui loro vivranno sarà molto più inospitale di quello in cui sono vissuto io».
Organizzati in quattro blocchi differenti, si sono radunati nei boschi e nei campi vicini alla centrale per poi dirigersi - guidati da messaggi diffusi via sms e su twitter - verso diversi punti del perimetro. Intorno all'una i primi drappelli sono giunti in prossimità del cancello principale ed i gruppi più radicali hanno cominciato ad abbattere le barriere innalzate in previsione della protesta.
Poi, alle due, un gruppo di alcune decine di attivisti è riuscito a sfondare in prossimità della grande ciminiera che ogni anno immette nell'atmosfera oltre sei milioni di tonnellate di Co2 ma è stato bloccato dagli agenti prima che potesse sabotare l'impianto.
Un nuovo tentativo di sfondamento di massa attorno alle 3 ha visto uno scontro fisico tra la polizia e i manifestanti. Un agente e diversi attivisti sono stati portati via in ambulanza. Decine i detenuti.
Piccoli arpioni montati sui capi si agganciano attorno ai pali della barriera e gruppi di ragazzi cominciano a tirare la fune urlando: «Mai più carbone». «Centrali come queste sono dei dinosauri - protesta Tom, 25enne arrivato da Londra per partecipare alla protesta -: sono una tecnologia vecchia e dannosa. È ora che i governi cambino la maniera in cui produciamo energia».
I pali verdi cominciano a piegarsi sotto l'impeto dei manifestanti, mentre tenaglie aprono buchi nella rete. Ma dentro il perimetro della centrale elettrica le giacchette catarifrangenti della polizia fanno muro chiudendo ogni breccia. Arrestano i pochi attivisti che riescono a filtrare o a scavalcare la barriera. E la montagna di carbone che alimenta le ciminiere della centrale a carbone rimane un nemico vicino ma al tempo stesso irraggiungibile.
In oltre mille hanno preso parte ieri alla protesta per denunciare la follia delle centrali a carbone, il combustibile che produce la maggior quantità di anidride carbonica. «Sono qui perché ho due figli di cinque ed undici anni - racconta James, assistente sociale di Bedford -. Centrali come questa stanno distruggendo il loro futuro. Il pianeta in cui loro vivranno sarà molto più inospitale di quello in cui sono vissuto io».
Organizzati in quattro blocchi differenti, si sono radunati nei boschi e nei campi vicini alla centrale per poi dirigersi - guidati da messaggi diffusi via sms e su twitter - verso diversi punti del perimetro. Intorno all'una i primi drappelli sono giunti in prossimità del cancello principale ed i gruppi più radicali hanno cominciato ad abbattere le barriere innalzate in previsione della protesta.
Poi, alle due, un gruppo di alcune decine di attivisti è riuscito a sfondare in prossimità della grande ciminiera che ogni anno immette nell'atmosfera oltre sei milioni di tonnellate di Co2 ma è stato bloccato dagli agenti prima che potesse sabotare l'impianto.
Un nuovo tentativo di sfondamento di massa attorno alle 3 ha visto uno scontro fisico tra la polizia e i manifestanti. Un agente e diversi attivisti sono stati portati via in ambulanza. Decine i detenuti.
giovedì 15 ottobre 2009
Due vittorie per il clima
Due vittorie in due settimane per il movimento britannico contro il cambiamento climatico - alla vigilia della protesta prevista questo fine settimana contro la centrale a carbone di Ratcliffe-on-Soar vicino a Nottingham, in Inghilterra, proprietà della multinazionale E.on, sono stati bloccati altri due progetti che negli ultimi anni avevano sollevato grandi proteste: l'espansione dell'aeroporto di Heathrow e la costruzione di una nuova centrale a carbone a Kingsnorth nel Kent. Baa, compagnia controllata dalla multinazionale spagnola Ferrovial, che ha in gestione lo scalo di Londra, ha affermato che congelerà i piani per la costruzione di una terza pista causa l'avvicinarsi delle prossime elezioni politiche, in cui probabilmente vinceranno i conservatori che si sono detti contrari al contestato progetto. La settimana scorsa invece E.on, la più grande azienda energetica privata in Europa, con sede a Düsseldorf, ha annunciato il rinvio di almeno due o tre anni per la centrale a carbone a Kingsnorth. La ragione ufficiale è il calo di domanda di energia in seguito alla recessione. Ma è probabile che abbiano pesato le forti proteste degli ultimi 3 anni.
Lo stop a due progetti che nel Regno Unito sono diventati il simbolo dell'ipocrisia di governo e multinazionali di fronte al problema del cambiamento del clima è stato accolto come un segnale propizio in vista di Copenhagen, dove in dicembre il vertice dell'Onu sul clima sarà contestato di migliaia di manifestanti. La compagnia NoTrag, che si oppone all'espansione degli aeroporti, ha festeggiato il congelamento dell'espansione a Heathrow affermando che si tratta di «una vittoria per le prossime generazioni». Per Emma Jackson, portavoce del Climate Camp, il gruppo che ha organizzato campeggi di protesta a Heathrow e Kingsnorth nell'estate del 2007 e del 2008, «E.on e BAA stanno riconoscendo che non è più tempo per crimini climatici e centrali a carbone. Ora è venuto il momento di spegnere le centrali a carbone che sono già in funzione. E' per questo motivo che nei prossimi giorni saremo alla volta di Ratcliffe-on-Soar».
Sabato e domenica dunque la centrale a carbone da 2034 megawatt nei pressi di Nottingham sara' l'obiettivo di una protesta denominata «The Great Climate Swoop», il grande assalto climatico, con cui gli attivisti ecologisti puntano a spegnere per diverse ore un'impianto che emette ogni anno nove milioni di tonnellate di anidride carbonica. Centinaia di persone convergeranno da diversi punti intorno alla centrale, organizzati in piccoli gruppi, armati di lucchetti e colla a presa rapida per bloccare i cancelli d'entrata e badili per svuotare i vagoni colmi di carbone che entrano nell'impianto. Sul sito web del Climate Camp i partecipanti possono scaricare una mappa della zona e iscriversi a un servizio di informazione via sms che coordinerà l'azione in tempo reale.
Con questa protesta gli attivisti del Climate Camp puntano ancora una volta il dito contro il carbone, il combustibile fossile che produce la più alta quantità di anidride carbonica per unità di energia. Ed Miliband, sottosegretario per il cambiamento climatico e le energie alternative nel governo britannico, ponte tra il governo e l'ala più istituzionale del movimento ecologista, continua a sostenere che il «carbone pulito» - con la costruzione di impianti di cattura e sequestro dell'anidride carbonica - può essere parte di un nuovo sistema energetico sostenibile. Ma per gli attivisti che questo fine settimana circonderanno Ratcliffe-on-Soar, l'unica cosa da fare con il carbone è lasciarlo sotto terra.
Lo stop a due progetti che nel Regno Unito sono diventati il simbolo dell'ipocrisia di governo e multinazionali di fronte al problema del cambiamento del clima è stato accolto come un segnale propizio in vista di Copenhagen, dove in dicembre il vertice dell'Onu sul clima sarà contestato di migliaia di manifestanti. La compagnia NoTrag, che si oppone all'espansione degli aeroporti, ha festeggiato il congelamento dell'espansione a Heathrow affermando che si tratta di «una vittoria per le prossime generazioni». Per Emma Jackson, portavoce del Climate Camp, il gruppo che ha organizzato campeggi di protesta a Heathrow e Kingsnorth nell'estate del 2007 e del 2008, «E.on e BAA stanno riconoscendo che non è più tempo per crimini climatici e centrali a carbone. Ora è venuto il momento di spegnere le centrali a carbone che sono già in funzione. E' per questo motivo che nei prossimi giorni saremo alla volta di Ratcliffe-on-Soar».
Sabato e domenica dunque la centrale a carbone da 2034 megawatt nei pressi di Nottingham sara' l'obiettivo di una protesta denominata «The Great Climate Swoop», il grande assalto climatico, con cui gli attivisti ecologisti puntano a spegnere per diverse ore un'impianto che emette ogni anno nove milioni di tonnellate di anidride carbonica. Centinaia di persone convergeranno da diversi punti intorno alla centrale, organizzati in piccoli gruppi, armati di lucchetti e colla a presa rapida per bloccare i cancelli d'entrata e badili per svuotare i vagoni colmi di carbone che entrano nell'impianto. Sul sito web del Climate Camp i partecipanti possono scaricare una mappa della zona e iscriversi a un servizio di informazione via sms che coordinerà l'azione in tempo reale.
Con questa protesta gli attivisti del Climate Camp puntano ancora una volta il dito contro il carbone, il combustibile fossile che produce la più alta quantità di anidride carbonica per unità di energia. Ed Miliband, sottosegretario per il cambiamento climatico e le energie alternative nel governo britannico, ponte tra il governo e l'ala più istituzionale del movimento ecologista, continua a sostenere che il «carbone pulito» - con la costruzione di impianti di cattura e sequestro dell'anidride carbonica - può essere parte di un nuovo sistema energetico sostenibile. Ma per gli attivisti che questo fine settimana circonderanno Ratcliffe-on-Soar, l'unica cosa da fare con il carbone è lasciarlo sotto terra.
martedì 13 ottobre 2009
Crisi nera, Brown si vende pure il tunnel nella Manica
Che inventarsi per uscire dalle sabbie mobili di una crisi prodotta dalle follie del mercato? Niente di meglio che una bella svendita di beni pubblici ai privati. Questa la soluzione suggerita dal primo ministro britannico Gordon Brown che ieri, nel giorno di riapertura ufficiale del parlamento del Regno Unito dopo la pausa estiva, ha reso noto un piano di privatizzazioni del valore di 16 miliardi di sterline, con cui il governo punta a tenere sotto controllo una spesa pubblica con il deficit schizzato al 10% del Pil: il valore più alto tra i paesi Ue.
Tra le proprietà che il governo vuole cedere al mercato spicca la bretella ferroviaria ad alta velocità tra la stazione di San Pancras a Londra e l'imbocco dell'Eurotunnel, costata allo stato 6 miliardi di sterline. Parte della «lenzuolata» voluta da Brown pure la compagnia proprietaria del sistema di scommesse Tote, il ponte stradale di Dartford sul Tamigi - collegamento strategico tra la capitale e il Sud-est del paese -, il fondo per i prestiti d'onore degli studenti universitari e la quota pubblica in Urenco, una compagnia che si occupa dell'arricchimento di uranio per le centrali nucleari. Illustrando l'operazione ad una riunione di imprenditori, Brown ha affermato che spera di ricavare da queste vendite 3 miliardi di sterline. I restanti 13 miliardi dovrebbero arrivare da cessioni di immobili pubblici detenuti dagli enti locali, il cui patrimonio è stimato in 220 miliardi di sterline. Se il piano andasse in porto, si tratterebbe della più grande ondata di privatizzazioni dopo quelle degli anni '80, con cui un milione di lavoratori passarono dal pubblico al privato, e milioni di sudditi di Sua Maestà si trasformarono in azionisti.
Critiche e reazioni indignate sono seguite all'annuncio dell'operazione voluta da un primo ministro che si vuole difendere dagli attacchi dei conservatori che lo accusano di aver mandato il Regno Unito sull'orlo della bancarotta. Il Guardian ha parlato di «svendita a prezzi stracciati», mentre i Tory hanno affermato che l'operazione non rimedierà alle perdite del bilancio pubblico. Il responsabile economico dei liberaldemocratici, Vince Cable, ha definito il piano di vendita «un'operazione strampalata» nell'attuale situazione economica. Particolarmente duro il sindacato Rmt che rappresenta lavoratori impiegati per la pulizia dei treni Eurostar che passano sotto la Manica, che ha parlato di un Brown «sull'orlo della disperazione». Forti proteste anche da parte del sindacato dei ricercatori e professori universitari Ucu che ha denunciato che la vendita del fondo dei prestiti d'onore rischia di mettere in forse il diritto allo studio dei tanti giovani che vi devono fare ricorso a prestiti di fronte alla diminuzione drastica delle borse di studio e alla crescita delle tasse universitarie.
In molti dubitano che Brown riuscirà ad ottenere la cifra sperata, dato che aveva già tentato inutilmente di cedere la compagnia di scommesse Tote, quote del fondo per i prestiti d'onore e beni immobili pubblici sin dal 1998. Quello che è sicuro è che questo piano è l'ennesimo segnale che dopo aver superato la fase più critica della crisi finanziaria il mondo politico britannico sembra ansioso di ritornare al dettame neoliberista del meno tasse, tagli alla spesa pubblica e largo ai privati. E con un governo conservatore alle porte invece di tartassare i più ricchi che sono scampati alle conseguenze della crisi, un esangue governo Labour non sa inventarsi di meglio che «svendere l'argenteria di famiglia».
E Ieri Downing Street ha annunciato che il primo ministro restituirà oltre 12.000 sterline di rimborsi per spese di giardinaggio e di pulizia come stabilito dalla commissione indipendenti messa in piedi per fare chiarezza sullo scandalo dei rimborsi gonfiati che ha fatto traballare le istituzioni britanniche nel giugno scorso.
Tra le proprietà che il governo vuole cedere al mercato spicca la bretella ferroviaria ad alta velocità tra la stazione di San Pancras a Londra e l'imbocco dell'Eurotunnel, costata allo stato 6 miliardi di sterline. Parte della «lenzuolata» voluta da Brown pure la compagnia proprietaria del sistema di scommesse Tote, il ponte stradale di Dartford sul Tamigi - collegamento strategico tra la capitale e il Sud-est del paese -, il fondo per i prestiti d'onore degli studenti universitari e la quota pubblica in Urenco, una compagnia che si occupa dell'arricchimento di uranio per le centrali nucleari. Illustrando l'operazione ad una riunione di imprenditori, Brown ha affermato che spera di ricavare da queste vendite 3 miliardi di sterline. I restanti 13 miliardi dovrebbero arrivare da cessioni di immobili pubblici detenuti dagli enti locali, il cui patrimonio è stimato in 220 miliardi di sterline. Se il piano andasse in porto, si tratterebbe della più grande ondata di privatizzazioni dopo quelle degli anni '80, con cui un milione di lavoratori passarono dal pubblico al privato, e milioni di sudditi di Sua Maestà si trasformarono in azionisti.
Critiche e reazioni indignate sono seguite all'annuncio dell'operazione voluta da un primo ministro che si vuole difendere dagli attacchi dei conservatori che lo accusano di aver mandato il Regno Unito sull'orlo della bancarotta. Il Guardian ha parlato di «svendita a prezzi stracciati», mentre i Tory hanno affermato che l'operazione non rimedierà alle perdite del bilancio pubblico. Il responsabile economico dei liberaldemocratici, Vince Cable, ha definito il piano di vendita «un'operazione strampalata» nell'attuale situazione economica. Particolarmente duro il sindacato Rmt che rappresenta lavoratori impiegati per la pulizia dei treni Eurostar che passano sotto la Manica, che ha parlato di un Brown «sull'orlo della disperazione». Forti proteste anche da parte del sindacato dei ricercatori e professori universitari Ucu che ha denunciato che la vendita del fondo dei prestiti d'onore rischia di mettere in forse il diritto allo studio dei tanti giovani che vi devono fare ricorso a prestiti di fronte alla diminuzione drastica delle borse di studio e alla crescita delle tasse universitarie.
In molti dubitano che Brown riuscirà ad ottenere la cifra sperata, dato che aveva già tentato inutilmente di cedere la compagnia di scommesse Tote, quote del fondo per i prestiti d'onore e beni immobili pubblici sin dal 1998. Quello che è sicuro è che questo piano è l'ennesimo segnale che dopo aver superato la fase più critica della crisi finanziaria il mondo politico britannico sembra ansioso di ritornare al dettame neoliberista del meno tasse, tagli alla spesa pubblica e largo ai privati. E con un governo conservatore alle porte invece di tartassare i più ricchi che sono scampati alle conseguenze della crisi, un esangue governo Labour non sa inventarsi di meglio che «svendere l'argenteria di famiglia».
E Ieri Downing Street ha annunciato che il primo ministro restituirà oltre 12.000 sterline di rimborsi per spese di giardinaggio e di pulizia come stabilito dalla commissione indipendenti messa in piedi per fare chiarezza sullo scandalo dei rimborsi gonfiati che ha fatto traballare le istituzioni britanniche nel giugno scorso.
domenica 4 ottobre 2009
L'impaurita Irlanda si pente: una valanga di sì
Un sospiro di sollievo percorre l'Irlanda dopo che la vittoria del si al referendum sul trattato europeo invade l'etere. Non solo per un risultato che aggancia saldamente l'Irlanda ad un Europa vista sempre più come un salvagente in mezzo alla tempesta, ma pure per la sensazione di essersi tolti di mezzo un fastidioso impaccio per un paese che sembra avere al momento ben altre urgenze che l'oscuro progetto di riforma delle istituzioni della Unione europea. Il si stravince con il 67% contro il 32.9 del no, superando le previsioni e dando il via libera all'implementazione del trattato di Lisbona, a meno di sorprese che potrebbero arrivare da Polonia, e Repubblica ceca, gli unici due paesi che assieme all'Irlanda non l'avevano ancora ratificato.
Il 20% degli elettori irlandesi hanno cambiato opinione rispetto al referendum del giugno 2008, dove prevalse il no. Un responso legittimato da un'affluenza del 58% in aumento rispetto al 53% di un anno fa, con molti elettori che hanno approfittato delle ultime ore a disposizione per partecipare alla consultazione. Festeggia il premier («Taoiseach» in gaelico) Brian Cowen che rischiava di affondare se fosse passato nuovamente il no e che ieri affermava che «dobbiamo lavorare con i nostri partner europei per assicurare che le riforme di questo trattato vengano attuate». E festeggia pure la tecnocrazia di Bruxelles, con Manuel Barroso che ieri ha accolto raggiante il risultato sostenendo che «l'Irlanda ha riconosciuto il ruolo che l'Unione europea ha giocato per rispondere alla crisi economica».
Delusione sul fronte del no. Declan Ganley, il businessman leader del gruppo anti-europeista Libertas, ha sostenuto «che non siamo riusciti a prevalere, ma abbiamo detto la verità e sono orgoglioso di questo». Per il parlamentare europeo del partito socialista Joe Higgins, il risultato è frutto di una «campagna di paura ed intimidazione sostenuta dalla élites politiche d economiche e dal mondo dei media».
L'impressione che si registra parlando con gli elettori a Dublino è che la sconfitta del referendum un anno fa fosse dovuta a una carenza di informazione riguardo al contenuto del trattato. «Bene per noi e bene per l'Europa. Questa sera ci sarà da brindare a pinte di Guinness per me e per te», afferma un signore di 63 che abita nella zona sud della capitale irlandese, che ha visto uno dei maggiori spostamenti di voto dal no al si. «C'erano un paio di punti del trattato che la gente non aveva capito, per colpa del governo che non aveva spiegato bene per cosa si andava a votare. Noi non siamo mica come gli inglesi. Noi ci crediamo all'Europa. E con questo referendum siamo riusciti a rimanere ancora una volta al centro del dibattito e a mantenere un'influenza molto grande considerando che siamo una piccola nazione».
La campagna per il referendum si è concentrata sulla situazione economica in un paese dove la disoccupazione ha raggiunto quota 12,6%. La tigre celtica, si è trasformata in un micietto impaurito nel giro di pochi mesi, con il Fondo monetario internazionale che prevede che nel 2010 l'economia irlandese si sarà contratta del 13% rispetto al 2008, una vera e propria decimazione. Responsabile per il collasso una politica economica che ha puntato ancora più che altrove sul settore immobiliare, come pure il crollo della sterlina, che ha affossato il valore delle esportazioni in un paese per cui il Regno unito è il primo partner commerciale. Di fronte a questa situazione molti elettori hanno ritenuto più prudente dare un segnale di fedeltà alle istituzioni europee, che in passato avevano riversato ingenti quantità di denaro nel quadro dei programmi regionali di sviluppo.
La vittoria nel referendum allunga la vita all'impopolare governo di Brian Cowen, del liberale Fianna Fail, sostenuto pure dai verdi. Un esecutivo che si trova ai minimi di popolarità ed è accusato pure di sprechi e di corruzione. Ma secondo molti commentatori la fine è vicina, e Brian Cowen sarà mandato a casa prima di Natale. Il prossimo ostacolo è l'approvazione in parlamento del controverso provvedimento NAMA (National Asset Management Agency), che creerebbe un'ente per comprare 4 miliardi di euro di «titoli tossici», e che segue un simile piano da 2 miliardi varato a gennaio. Un intervento che vale il 2% del pil e i cui fondi saranno raccolti con pesanti tagli alla spesa pubblica. I sindacati hanno affermato che si tratta di una «decisione brutale» e hanno annunciato una grande protesta per il 6 di novembre.
Il risultato positivo del referendum irlandese potrebbe innescare una reazione a catena in Cecoslovacchia e Polonia che erano rimasti alla finestra in attesa del responso irlandese come. Forte imbarazzo tra i conservatori britannici che ieri hanno aperto il loro congresso a Manchester e con David Cameron primo ministro in pectore che potrebbe essere costretto ad un'imbarazzante passo indietro sull'opposizione al trattato di Lisbona, per non isolarsi ulteriormente sul fronte europeo dove si è già fatto molti nemici.
Il 20% degli elettori irlandesi hanno cambiato opinione rispetto al referendum del giugno 2008, dove prevalse il no. Un responso legittimato da un'affluenza del 58% in aumento rispetto al 53% di un anno fa, con molti elettori che hanno approfittato delle ultime ore a disposizione per partecipare alla consultazione. Festeggia il premier («Taoiseach» in gaelico) Brian Cowen che rischiava di affondare se fosse passato nuovamente il no e che ieri affermava che «dobbiamo lavorare con i nostri partner europei per assicurare che le riforme di questo trattato vengano attuate». E festeggia pure la tecnocrazia di Bruxelles, con Manuel Barroso che ieri ha accolto raggiante il risultato sostenendo che «l'Irlanda ha riconosciuto il ruolo che l'Unione europea ha giocato per rispondere alla crisi economica».
Delusione sul fronte del no. Declan Ganley, il businessman leader del gruppo anti-europeista Libertas, ha sostenuto «che non siamo riusciti a prevalere, ma abbiamo detto la verità e sono orgoglioso di questo». Per il parlamentare europeo del partito socialista Joe Higgins, il risultato è frutto di una «campagna di paura ed intimidazione sostenuta dalla élites politiche d economiche e dal mondo dei media».
L'impressione che si registra parlando con gli elettori a Dublino è che la sconfitta del referendum un anno fa fosse dovuta a una carenza di informazione riguardo al contenuto del trattato. «Bene per noi e bene per l'Europa. Questa sera ci sarà da brindare a pinte di Guinness per me e per te», afferma un signore di 63 che abita nella zona sud della capitale irlandese, che ha visto uno dei maggiori spostamenti di voto dal no al si. «C'erano un paio di punti del trattato che la gente non aveva capito, per colpa del governo che non aveva spiegato bene per cosa si andava a votare. Noi non siamo mica come gli inglesi. Noi ci crediamo all'Europa. E con questo referendum siamo riusciti a rimanere ancora una volta al centro del dibattito e a mantenere un'influenza molto grande considerando che siamo una piccola nazione».
La campagna per il referendum si è concentrata sulla situazione economica in un paese dove la disoccupazione ha raggiunto quota 12,6%. La tigre celtica, si è trasformata in un micietto impaurito nel giro di pochi mesi, con il Fondo monetario internazionale che prevede che nel 2010 l'economia irlandese si sarà contratta del 13% rispetto al 2008, una vera e propria decimazione. Responsabile per il collasso una politica economica che ha puntato ancora più che altrove sul settore immobiliare, come pure il crollo della sterlina, che ha affossato il valore delle esportazioni in un paese per cui il Regno unito è il primo partner commerciale. Di fronte a questa situazione molti elettori hanno ritenuto più prudente dare un segnale di fedeltà alle istituzioni europee, che in passato avevano riversato ingenti quantità di denaro nel quadro dei programmi regionali di sviluppo.
La vittoria nel referendum allunga la vita all'impopolare governo di Brian Cowen, del liberale Fianna Fail, sostenuto pure dai verdi. Un esecutivo che si trova ai minimi di popolarità ed è accusato pure di sprechi e di corruzione. Ma secondo molti commentatori la fine è vicina, e Brian Cowen sarà mandato a casa prima di Natale. Il prossimo ostacolo è l'approvazione in parlamento del controverso provvedimento NAMA (National Asset Management Agency), che creerebbe un'ente per comprare 4 miliardi di euro di «titoli tossici», e che segue un simile piano da 2 miliardi varato a gennaio. Un intervento che vale il 2% del pil e i cui fondi saranno raccolti con pesanti tagli alla spesa pubblica. I sindacati hanno affermato che si tratta di una «decisione brutale» e hanno annunciato una grande protesta per il 6 di novembre.
Il risultato positivo del referendum irlandese potrebbe innescare una reazione a catena in Cecoslovacchia e Polonia che erano rimasti alla finestra in attesa del responso irlandese come. Forte imbarazzo tra i conservatori britannici che ieri hanno aperto il loro congresso a Manchester e con David Cameron primo ministro in pectore che potrebbe essere costretto ad un'imbarazzante passo indietro sull'opposizione al trattato di Lisbona, per non isolarsi ulteriormente sul fronte europeo dove si è già fatto molti nemici.
giovedì 1 ottobre 2009
New Tory? La crisi la pagheranno i poveri
«Trenta anni fa abbiamo vinto le elezioni lottando contro le tasse al 98% per i più ricchi. Oggi dobbiamo mostrare che siamo indignati di fronte alle ingiustizie verso i più poveri». Nel discorso di chiusura del congresso del partito conservatore a Manchester - a poco più di sette mesi da elezioni che potrebbero vedere il ritorno dei conservatori a Downing Street dopo 12 anni di opposizione - il leader dell'opposizione David Cameron, ha presentato i Tory come un partito che ha cambiato pelle. Un partito «progressista» impegnato per la giustizia sociale e rispettoso delle minoranze. Un partito che può riuscire a «rimettere la Gran Bretagna in piedi» senza produrre tensioni tra le classi sociali.
Quarantadue anni, di cui quattro alla guida del partito di Margaret Thatcher, il leader dei conservatori ha puntato tutto il suo discorso sul tentativo di conquistare la fiducia di quei tanti sudditi di Sua Maestà che non ne vogliono più sapere del Labour ma sono ancora lungi dall'essere innamorati dei conservatori. Al centro del suo intervento, l'immagine di un «paese rotto», oberato dal debito pubblico, sfiancato dalla disoccupazione, lacerato dalla crisi delle famiglie e inquieto per una gioventù priva di speranza e prona alla violenza. La soluzione? Non più il «big government» offerto dal Labour. Non uno «stato forte» ma «una società forte, famiglie forti, comunità forti» ed una «assunzione di responsabilità» da parte dei cittadini. Espressioni che riecheggiano la retorica della responsabilità di Barack Obama, molto ammirato da Cameron, con le scritte «pronti per il cambiamento» che campeggiano sulle pareti del centro conferenze. Il tutto all'insegna del «conservatorismo compassionevole», la nuova ideologia che Cameron ha preparato per convincere quella parte della Gran Bretagna che ancora si ricorda del cinismo dell'era Thatcher. Ma quanto c'è di vero in questo cambiamento di quello che ancora in molti chiamano il «nasty party», il partito cattivo?
«Non sono più il partito razzista e omofobo degli anni '80», sostengono i giornalisti del Guardian e dell'Independent che hanno assistito al congresso, facendo notare come nel programma abbondassero eventi dedicati a ambiente, multiculturalità e diritti di gay e lesbiche, e tra i delegati ci fossero più donne e componenti di minoranze etniche rispetto al passato. Ma non molto sembra essere cambiato sul fronte della politica economica, dove la parola d'ordine è quella del libero mercato e del taglio alla spesa pubblica.
Per il cancelliere ombra George Osborne servirà una nuova era di austerità per rimettere in sesto le finanze pubbliche. A pagarla saranno famiglie a basso reddito, disoccupati e dipendenti pubblici. Violando l'usanza di non svelare tagli pesanti prima delle elezioni, Osborne ha annunciato un congelamento dei redditi per un anno che colpirà 5 milioni di dipendenti pubblici. L'aumento dell'età pensionabile a 66 anni verrà anticipato dal 2020 al 2016. Cancellati provvedimenti a favore dei bambini più poveri. E i conservatori hanno pure in serbo tagli pesanti ai sussidi di disoccupazione «perché tutte le persone che possono lavorare devono lavorare».
«Siamo tutti sulla stessa barca», ha rassicurato Osborne affermando che ogni classe sociale dovrà fare la sua parte per contribuire a sanare la crisi economica, e che il governo Tory.
Tuttavia la classe imprenditoriale e finanziaria che durante il periodo di crescita dell'economia dell'ultimo decennio ha ingrandito il proprio patrimonio e ristrutturato le proprie case di campagna verrà in buona parte risparmiata dalla nuova politica di austerità. L'aliquota per i redditi più alti innalzata dal 45 al 50% nell'ultima finanziaria targata Labour verrà mantenuta ha promesso Osborne. Ma la tassa sull'eredità verrà cancellata per patrimoni inferiori ad un milione di sterline. «Faremo una riforma sociale tanto radicale quanto quella economica della Thatcher», ha promesso ieri Cameron a un paese che ancora non si fida dei Tory. E a vedere quello che intendono per riforma sociale c'è proprio da aver paura.
Quarantadue anni, di cui quattro alla guida del partito di Margaret Thatcher, il leader dei conservatori ha puntato tutto il suo discorso sul tentativo di conquistare la fiducia di quei tanti sudditi di Sua Maestà che non ne vogliono più sapere del Labour ma sono ancora lungi dall'essere innamorati dei conservatori. Al centro del suo intervento, l'immagine di un «paese rotto», oberato dal debito pubblico, sfiancato dalla disoccupazione, lacerato dalla crisi delle famiglie e inquieto per una gioventù priva di speranza e prona alla violenza. La soluzione? Non più il «big government» offerto dal Labour. Non uno «stato forte» ma «una società forte, famiglie forti, comunità forti» ed una «assunzione di responsabilità» da parte dei cittadini. Espressioni che riecheggiano la retorica della responsabilità di Barack Obama, molto ammirato da Cameron, con le scritte «pronti per il cambiamento» che campeggiano sulle pareti del centro conferenze. Il tutto all'insegna del «conservatorismo compassionevole», la nuova ideologia che Cameron ha preparato per convincere quella parte della Gran Bretagna che ancora si ricorda del cinismo dell'era Thatcher. Ma quanto c'è di vero in questo cambiamento di quello che ancora in molti chiamano il «nasty party», il partito cattivo?
«Non sono più il partito razzista e omofobo degli anni '80», sostengono i giornalisti del Guardian e dell'Independent che hanno assistito al congresso, facendo notare come nel programma abbondassero eventi dedicati a ambiente, multiculturalità e diritti di gay e lesbiche, e tra i delegati ci fossero più donne e componenti di minoranze etniche rispetto al passato. Ma non molto sembra essere cambiato sul fronte della politica economica, dove la parola d'ordine è quella del libero mercato e del taglio alla spesa pubblica.
Per il cancelliere ombra George Osborne servirà una nuova era di austerità per rimettere in sesto le finanze pubbliche. A pagarla saranno famiglie a basso reddito, disoccupati e dipendenti pubblici. Violando l'usanza di non svelare tagli pesanti prima delle elezioni, Osborne ha annunciato un congelamento dei redditi per un anno che colpirà 5 milioni di dipendenti pubblici. L'aumento dell'età pensionabile a 66 anni verrà anticipato dal 2020 al 2016. Cancellati provvedimenti a favore dei bambini più poveri. E i conservatori hanno pure in serbo tagli pesanti ai sussidi di disoccupazione «perché tutte le persone che possono lavorare devono lavorare».
«Siamo tutti sulla stessa barca», ha rassicurato Osborne affermando che ogni classe sociale dovrà fare la sua parte per contribuire a sanare la crisi economica, e che il governo Tory.
Tuttavia la classe imprenditoriale e finanziaria che durante il periodo di crescita dell'economia dell'ultimo decennio ha ingrandito il proprio patrimonio e ristrutturato le proprie case di campagna verrà in buona parte risparmiata dalla nuova politica di austerità. L'aliquota per i redditi più alti innalzata dal 45 al 50% nell'ultima finanziaria targata Labour verrà mantenuta ha promesso Osborne. Ma la tassa sull'eredità verrà cancellata per patrimoni inferiori ad un milione di sterline. «Faremo una riforma sociale tanto radicale quanto quella economica della Thatcher», ha promesso ieri Cameron a un paese che ancora non si fida dei Tory. E a vedere quello che intendono per riforma sociale c'è proprio da aver paura.
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