La camera non è niente di speciale. Una stanzetta con armadio a muro che ospita un letto e un tavolino, al terzo piano di un casermone dell'edilizia popolare anni '50 nel quartiere di Mile End, a est di Londra. «450 sterline al mese escluse le spese», afferma l'agente immobiliare. «Mi chiami entro domani se la vuole. È un affare di questi tempi».
«Casa dolce casa», sospiravano compiaciuti i padri di famiglia borghesi della Londra vittoriana di ritorno alla loro dimora. Ma oggi per tanti londinesi la parola «casa» non evoca solo immagini di quiete, ma soprattutto preoccupazione e insicurezza. La crisi finanziaria che sta facendo traballare i pilastri dell'economia britannica è in buona parte frutto delle speculazioni fatte sul mercato delle abitazioni nell'ultimo decennio. Dal 2000 al 2007 il valore medio delle case è più che raddoppiato, in una bolla immobiliare senza precedenti, con cui si è prolungato artificialmente uno dei più lunghi cicli di crescita dell'economia britannica dal dopoguerra. Ed è proprio sulla casa che si abbattono le prime conseguenze del crollo delle borse.
Con la crisi dei mutui si sta aggravando il crollo del mercato immobiliare, cominciato nell'estate 2007. Secondo Halifax, la banca specializzata nel settore dei mutui che è stata appena salvata dal governo, negli ultimi dodici mesi il valore medio delle case è diminuito del 13% ed è destinato a scendere ulteriormente. Ma il crollo dei prezzi delle case non si traduce in un miglioramento della situazione abitativa. La prima conseguenza della crisi è il blocco quasi totale di una nuova ondata di costruzioni: 180.000 case che, secondo il governo, avrebbero dovuto alleggerire il mercato immobiliare.
«L'economia va male», dicono in coro gli esperti, e che l'economia vada male nessuno lo sa meglio di chi in questi giorni sta vedendo la casa portata via dalla banca. Anche qui come negli Usa si sono concessi mutui come fossero noccioline e adesso si vedono le conseguenze di questa dissennata corsa al mattone. Nell'ultimo mese le insolvenze sono aumentate del 17% . E secondo Shelter, Ong che si occupa di senza tetto e persone con problemi abitativi, almeno 900mila famiglie hanno problemi a pagare le rate.
Private delle casa, queste persone si trovano costrette a cercare una casa in affitto, e le agenzie immobiliari fanno fatica a rispondere alle domande. «Riusciamo a coprire solo un terzo delle richieste», conferma al telefono un'impiegata della Foxton's, una delle principali agenzie immobiliari. Basta scorrere gli annunci per camere e case in affitto: i prezzi puntano al rialzo e diventa sempre più difficile a Londra trovare una camera decente sotto le 500 sterline al mese, spese escluse, senza trasferirsi nelle cinture più esterne.
«Gli affitti stanno salendo», conferma Mike Heath di Shelter. « Così i primi ad essere colpiti dalla crisi sono quelli che già prima si trovavano ai margini del mercato abitativo. Molti si rivolgono a noi in questi giorni per richiedere informazioni o accedere ai nostri servizi. A causa del costo elevato degli affitti, e con l'inflazione sui beni di largo consumo in crescita, la gente si vede costretta a tagliare bisogni essenziali, pur di tenere la casa».
La crisi economica alimenta un clima di sospetto nel mercato immobiliare, le cui prime vittime sono gli inquilini a basso reddito. A chi cerca casa spesso vengono chieste informazioni sulla propria condizione lavorativa, copie dell'estratto conto e lettere di referenza dai precedenti padroni di casa. E per chi una casa l'ha già affittata, in questi mesi sono arrivate raffiche di rialzi. Con l'aumento dei interesse dei mutui negli ultimi mesi, tanti padroni di casa che avevano acceso un mutuo per poi affittare la casa (con un contratto denominato buy-to-let) si sono rifatti aumentando gli affitti.
Mentre aumentano le insolvenze e gli affitti salgono alle stelle, la situazione si fa difficile pure per chi una casa ha deciso di comprarla. Dopo anni di prestiti facili le banche sono spaventate e chiedono garanzie pesanti agli aspiranti proprietari. «Dopo questa crisi, una casa la devi ricevere in eredità, o avere un bel gruzzolo in banca per comprarla», afferma David Smith, coordinatore della campagna «Our Homes, Our London» dell'organizzazione civica London Citizens che raggruppa sindacati e organizzazioni religiose.
«Si tratta di un vero e proprio apartheid nell'accesso ai diritti fondamentali», afferma Smith. «Il problema della casa si riflette sulla qualità della vita delle persone. Distrugge matrimoni e famiglie. In diverse comunità che fanno parte della nostra organizzazione le persone vivono già in una situazione di sovraffollamento». Basta farsi un giro tra le case popolari dell'Ocean Estate a Shadwell, per imbattersi in situazioni abitative da romanzo di Dickens. Famiglie pakistane e bengalesi di sette o otto persone, ammassate in una casa con due stanze da letto. Quello che era uno dei più grandi «council estates» della capitale verrà presto abbattuto per fare posto ad appartamenti di lusso per una nuova ondata di lavoratori finanziari che non arriverà mai.
Ed è proprio la svendita dell'edilizia popolare il principale imputato della crisi abitativa. È dal 1979, con la salita dei conservatori al potere che è diminuito il numero di case pubbliche. In quell'anno una Thatcher fresca di elezione lanciò il provvedimento Right-to-Buy (diritto all'acquisto), e il suo portavoce Heseltine annunciò che avrebbe portato una «rivoluzione sociale» nel paese. Con questa iniziativa, gli inquilini delle case popolari acquisivano il diritto a comprare l'appartamento in cui vivevano a prezzi modesti. Ma poiché il contratto non comprendeva la proprietà terreno, alcuni sono stati costretti ad andarsene sull'onda di progetti di rinnovamento e demolizione di vecchi palazzi, con in mano soldi insufficienti per comprare una casa sul mercato privato.
Dopo 27 anni di svendite, oggi la stragrande maggioranza delle case popolari sono in mani private, o assegnate a housing associations, organizzazioni a metà tra pubblico e privato, preoccupate prima di tutto ad abbassare le spese e aumentare gli introiti. Così se ne è andato uno dei patrimoni più consistenti di edilizia pubblica a livello europeo. La furia privatizzatrice thatcheriana, continuata sotto i governi Labour, ha lasciato dietro di sé un deserto abitativo, in cui la casa è diventata un macigno sulle spalle delle famiglie a basso reddito. «La gente ha lottato per decenni per avere garantito un diritto alla casa, con proteste e scioperi degli affitti», racconta Ellie, un'attivista per il diritto abitativo. «Ora ci troviamo di nuovo a dover ricostruire un movimento per la casa e riguadagnare ciò che abbiamo perduto in questi anni».
Le proposte innovative per rispondere alla crisi abitativa non mancano. La campagna di London Citizens «Our Homes, Our London» propone ad esempio l'introduzione di «Land Trust Schemes», in cui la proprietà dei terreni viene affidata ad un'organizzazione no-profit gestita dalla comunità locale, mentre gli inquilini possono acquistare le abitazioni a prezzi contenuti. In questo modo secondo London Citizens si potrebbe abbassare il costo delle abitazioni fino al 60% ed assicurare che i terreni rimangono proprietà delle comunità. Un progetto pilota è stato iniziato a Stratford, nell'est di Londra e l'organizzazione spera di diffondere l'iniziativa in altri quartieri.
«Questa iniziativa tuttavia non può sostituire un'edilizia pubblica che offra case a prezzi ragionevoli», avverte Smith. «Case economiche», aveva promesso il primo ministro Gordon Brown nel luglio 2007 di fronte alle prime avvisaglie della crisi. Ma dopo l'arrrivo della tempesta finanziaria e con il governo che ha accumulato un debito ingente per salvare le banche, ci sono forti dubbi che rimangano risorse per «salvare» chi ha bisogno di una casa.
giovedì 16 ottobre 2008
«Senza tetto né diritti in balìa dell'avidità»
Londra è la sede di alcune delle principali ong che si occupano del problema della povertà nel Terzo Mondo. La London Coalition Against Poverty (Lcap) - un gruppo di azione civica che è stato fondato ad Hackney un'anno e mezzo fa - invece si occupa della povertà che imperversa qui e ora nell'angolo nord-est della «capitale del capitale».
Il quartiere popolare, nella zona nord-orientale di Londra, confina con la zona in cui si stanno costruendo le principali strutture per le Olimpiadi del 2012. E con i cantieri olimpici è arrivata pure la gentrificazione, sotto la forma di progetti di rigenerazione urbana che tentano di far affluire abitanti ad alto reddito. Nonostante la cattiva nomea di una zona in cui si trova il famoso «Murder Mile», un miglio quadrato con un'altissima incidenza di omicidi e violenze, gli investitori sperano di riuscire a fare qui quello che ha avuto successo in molte altre zone: trasformare una zona popolare nel nuovo quartiere alla moda per la classe creativa e i lavoratori del settore finanziario.
L'aumento degli affitti, portato dalla speculazione edilizia, sta peggiorando le condizioni di vita di un quartiere che già prima faceva fatica ad arrivare alla fine del mese. Il primo sintomo del degrado sociale è l'alto numero di senza tetto che vivono nell'area, persone a cui viene negata ogni forma di assistenza, in un quartiere che è stato governato per decenni dal Labour Party. «Le autorità locali, che sono gli organismi preposti ad aiutare i senza tetto, negano loro un diritto alla casa che viene sancito dalla legge», spiega Carl Taylor, segretario di Lcap. «Noi chiediamo a questi enti di fare semplicemente quello che è un loro obbligo fondamentale».
Quali sono le autorità responsabili per il problema dei senza tetto?
Ogni sobborgo della città ha un ente chiamato unità per i senza tetto. Questi enti dovrebbero fornire ai senza tetto un'abitazione se rispondono a una serie di criteri di vulnerabilità. In realtà fondamentalmente questi uffici non fanno altro che scacciare le persone, cercando cavilli burocratici per evitare che si iscrivano al registro dei senza tetto. Secondo la legge britannica le persone hanno dei diritti fondamentali quando perdono la casa. Ma questi diritti non vengono rispettati.
Non ci dovrebbero essere posti nelle case popolari per i senza tetto?
In teoria sì, ma le liste di attesa sono interminabili. Questo è il risultato di anni di svendita dell'edilizia pubblica. Le case popolari sono state quasi completamente privatizzate così i senza tetto sono costretti a vivere per strada. E spesso si tratta di persone in condizioni estreme, gente ammalata, persone vittime di angherie e violenze. Molti di questi vanno a riempire gli ostelli per i senza tetto gestiti dalle Ong, che spesso sono sovraffollati o in cattive condizioni.
Come state agendo contro questa situazione?
Quello che facciamo è una strategia a metà tra supporto legale ed azione diretta. Da un lato offriamo ai senza tetto consulenza per le questioni burocratiche. Dall'altro le sosteniamo direttamente presentandoci in massa davanti all'ufficio, quando devono fare il colloquio con gli impiegati dell'unità per i senza tetto.
Questo è un modo per dare coraggio alle persone che spesso si sentono impotenti di fronte ai dinieghi della burocrazia. Inoltre ci permette di fare pressione sulle autorità locali, perché possiamo dimostrare che stanno violando la legge. I risultati sono evidenti, gli enti preposti sono infastiditi da questo tipo di azione e sono diventati molto più reattivi alle nostre richieste.
Con il crollo del mercato immobiliare la situazione abitativa è destinata a peggiorare?
Da un lato c'è un crollo dei prezzi delle case, quindi uno potrebbe pensare che diventi più facile per le persone acquistare una casa. In realtà chi sta approfittando di questo calo dei prezzi sono le compagnie immobiliari e le organizzazioni abitative (Housing Associations) che già gestiscono le ex case popolari. Le persone comuni in questo momento non hanno assolutamente soldi per approfittare del crollo del mercato.
Cosa possono fare le autorità locali per risolvere la situazione della casa?
Le autorità locali in base alla legge possono requisire case private vuote per coprire l'emergenza abitativa. Questo di nuovo è un diritto sancito dalla legge. Tuttavia questa opzione al momento è ancora improbabile, almeno fin al momento in cui il diritto di proprietà continuerà a venire prima del diritto alla casa.
Il quartiere popolare, nella zona nord-orientale di Londra, confina con la zona in cui si stanno costruendo le principali strutture per le Olimpiadi del 2012. E con i cantieri olimpici è arrivata pure la gentrificazione, sotto la forma di progetti di rigenerazione urbana che tentano di far affluire abitanti ad alto reddito. Nonostante la cattiva nomea di una zona in cui si trova il famoso «Murder Mile», un miglio quadrato con un'altissima incidenza di omicidi e violenze, gli investitori sperano di riuscire a fare qui quello che ha avuto successo in molte altre zone: trasformare una zona popolare nel nuovo quartiere alla moda per la classe creativa e i lavoratori del settore finanziario.
L'aumento degli affitti, portato dalla speculazione edilizia, sta peggiorando le condizioni di vita di un quartiere che già prima faceva fatica ad arrivare alla fine del mese. Il primo sintomo del degrado sociale è l'alto numero di senza tetto che vivono nell'area, persone a cui viene negata ogni forma di assistenza, in un quartiere che è stato governato per decenni dal Labour Party. «Le autorità locali, che sono gli organismi preposti ad aiutare i senza tetto, negano loro un diritto alla casa che viene sancito dalla legge», spiega Carl Taylor, segretario di Lcap. «Noi chiediamo a questi enti di fare semplicemente quello che è un loro obbligo fondamentale».
Quali sono le autorità responsabili per il problema dei senza tetto?
Ogni sobborgo della città ha un ente chiamato unità per i senza tetto. Questi enti dovrebbero fornire ai senza tetto un'abitazione se rispondono a una serie di criteri di vulnerabilità. In realtà fondamentalmente questi uffici non fanno altro che scacciare le persone, cercando cavilli burocratici per evitare che si iscrivano al registro dei senza tetto. Secondo la legge britannica le persone hanno dei diritti fondamentali quando perdono la casa. Ma questi diritti non vengono rispettati.
Non ci dovrebbero essere posti nelle case popolari per i senza tetto?
In teoria sì, ma le liste di attesa sono interminabili. Questo è il risultato di anni di svendita dell'edilizia pubblica. Le case popolari sono state quasi completamente privatizzate così i senza tetto sono costretti a vivere per strada. E spesso si tratta di persone in condizioni estreme, gente ammalata, persone vittime di angherie e violenze. Molti di questi vanno a riempire gli ostelli per i senza tetto gestiti dalle Ong, che spesso sono sovraffollati o in cattive condizioni.
Come state agendo contro questa situazione?
Quello che facciamo è una strategia a metà tra supporto legale ed azione diretta. Da un lato offriamo ai senza tetto consulenza per le questioni burocratiche. Dall'altro le sosteniamo direttamente presentandoci in massa davanti all'ufficio, quando devono fare il colloquio con gli impiegati dell'unità per i senza tetto.
Questo è un modo per dare coraggio alle persone che spesso si sentono impotenti di fronte ai dinieghi della burocrazia. Inoltre ci permette di fare pressione sulle autorità locali, perché possiamo dimostrare che stanno violando la legge. I risultati sono evidenti, gli enti preposti sono infastiditi da questo tipo di azione e sono diventati molto più reattivi alle nostre richieste.
Con il crollo del mercato immobiliare la situazione abitativa è destinata a peggiorare?
Da un lato c'è un crollo dei prezzi delle case, quindi uno potrebbe pensare che diventi più facile per le persone acquistare una casa. In realtà chi sta approfittando di questo calo dei prezzi sono le compagnie immobiliari e le organizzazioni abitative (Housing Associations) che già gestiscono le ex case popolari. Le persone comuni in questo momento non hanno assolutamente soldi per approfittare del crollo del mercato.
Cosa possono fare le autorità locali per risolvere la situazione della casa?
Le autorità locali in base alla legge possono requisire case private vuote per coprire l'emergenza abitativa. Questo di nuovo è un diritto sancito dalla legge. Tuttavia questa opzione al momento è ancora improbabile, almeno fin al momento in cui il diritto di proprietà continuerà a venire prima del diritto alla casa.
sabato 4 ottobre 2008
Rimpasto anti-crisi di Brown, torna in sella Mandelson
Nel 2004 il Labour lo aveva parcheggiato a Bruxelles, nella posizione di commissario europeo per il commercio, chiamato a portare in Europa il verbo mercatista del New Labour. Ieri Gordon Brown lo ha richiamato in patria a salvare il paese dalla crisi dei mutui. L’insediamento di Peter Mandelson è il colpo a sorpresa del rimpasto effettuato da Gordon Brown per rimettere in fila il governo e ad approfittare dell’emergenza economica ricostruire il consenso perduto dopo un anno disastroso al governo.
Il primo ministro chiama in aiuto quello che è stato uno degli inventori del New Labour, un blairiano di ferro che era considerato un nemico di Gordon Brown. L’attuale primo ministro non gli perdonò di aver appoggiato Tony Blair invece che lui alla guida del partito, dopo la morte improvvisa di John Smith nel 1994. Blair lo prese sotto le sue ali e vista la sua esperienza come produttore televisivo gli affidò il coordinamento della comunicazione del partito per la vittoriosa campagna del 1997, che spedì a casa, gli odiati conservatori. I modi efficaci e senza scrupoli con cui ha influenzato la rappresentazione del Labour party nei media nazionali gli sono valsi l’epiteto di «principe delle tenebre».
Alla fama di manipolatore non hanno certo giovato gli scandali in cui è incappato mentre era al governo. Nel primo governo Blair, fu ministro con compiti di coordinamento e responsabile per il progetto del Millenium Dome. Il mastodontico spazio espositivo, costruito sulle rive del Tamigi, doveva essere un monumento alla «Cool Britannia» del periodo New Labour. Sin dall’esposizione inaugurale, dedicata al nuovo millennio, l’opera si rivelò un flop con un enorme buco in bilancio.
Ma Mandelson si dovette dimettere per uno scandalo privato: un prestito senza interessi da un compagno di partito. Dieci mesi dopo, nell’Ottobre 1999, fu rimesso al governo come Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord. Ma dopo poco più di un anno fu costretto a dimettersi nuovamente. Questa volta per aver fatto pressione perché un imprenditore indiano ottenesse la cittadinanza britannica.
Di fronte agli attacchi giunti da destra e sinistra dopo l’annuncio del ritorno di Mandelson, Gordon Brown ha risposto che «persone capaci sono necessarie per fronteggiare tempi difficili. Lui ha un’esperienza senza rivali come commissario europeo per il commercio». L’altra carta giocata da Brown per dimostrare la sua leadership di fronte alla crisi economica è la creazione di una «commissione economica nazionale», una specie di consiglio dei ministri ristretto, che si dovrebbe riunire una volta a settimana per fronteggiare la crisi finanziaria e i suoi impatti sull’economia reale. Questa commissione sarà in consultazione con 17 «ambasciatori del business», tra cui figurano i manager di alcune delle più grandi multinazionali inglesi: la banca Barclay’s, la catena commerciale Sainsbury’s, la Vodafone, la Borsa di Londra, la fabbrica di armamenti BAE Systems. Un altro chiaro segnale che il Labour è ostinatamente amico del business, anche in tempi di sventura.
Per il resto il rimpasto rivela poche sorprese. Più che altro di movimenti tattici di pedine, che premiano sia gli accoliti di Brown che i Blairiani che sono rimasti fedeli durante la crisi di fiducia nel governo degli ultimi mesi. Il possibile successore David Miliband mantiene il ministro degli esteri, mentre suo fratello Ed, sottosegretario alla presidenza del consiglio, guadagna responsabilità su clima ed energia. Così Brown spera di riassestare l’esecutivo che dopo la conferenza del Labour, il mese scorso, ha accorciato la distanza dai conservatori nei sondaggi, che rimangono comunque con dieci punti di vantaggio. Nella conferenza del partito conservatore che si è chiusa ieri, il leader del partito, David Cameron ha promesso «un impegno tanto forte sul sociale come quello che era stato fatto sull’economia dalla Thatcher». Con questo rimpasto Brown invece punta tutto sull’economia.
Il primo ministro chiama in aiuto quello che è stato uno degli inventori del New Labour, un blairiano di ferro che era considerato un nemico di Gordon Brown. L’attuale primo ministro non gli perdonò di aver appoggiato Tony Blair invece che lui alla guida del partito, dopo la morte improvvisa di John Smith nel 1994. Blair lo prese sotto le sue ali e vista la sua esperienza come produttore televisivo gli affidò il coordinamento della comunicazione del partito per la vittoriosa campagna del 1997, che spedì a casa, gli odiati conservatori. I modi efficaci e senza scrupoli con cui ha influenzato la rappresentazione del Labour party nei media nazionali gli sono valsi l’epiteto di «principe delle tenebre».
Alla fama di manipolatore non hanno certo giovato gli scandali in cui è incappato mentre era al governo. Nel primo governo Blair, fu ministro con compiti di coordinamento e responsabile per il progetto del Millenium Dome. Il mastodontico spazio espositivo, costruito sulle rive del Tamigi, doveva essere un monumento alla «Cool Britannia» del periodo New Labour. Sin dall’esposizione inaugurale, dedicata al nuovo millennio, l’opera si rivelò un flop con un enorme buco in bilancio.
Ma Mandelson si dovette dimettere per uno scandalo privato: un prestito senza interessi da un compagno di partito. Dieci mesi dopo, nell’Ottobre 1999, fu rimesso al governo come Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord. Ma dopo poco più di un anno fu costretto a dimettersi nuovamente. Questa volta per aver fatto pressione perché un imprenditore indiano ottenesse la cittadinanza britannica.
Di fronte agli attacchi giunti da destra e sinistra dopo l’annuncio del ritorno di Mandelson, Gordon Brown ha risposto che «persone capaci sono necessarie per fronteggiare tempi difficili. Lui ha un’esperienza senza rivali come commissario europeo per il commercio». L’altra carta giocata da Brown per dimostrare la sua leadership di fronte alla crisi economica è la creazione di una «commissione economica nazionale», una specie di consiglio dei ministri ristretto, che si dovrebbe riunire una volta a settimana per fronteggiare la crisi finanziaria e i suoi impatti sull’economia reale. Questa commissione sarà in consultazione con 17 «ambasciatori del business», tra cui figurano i manager di alcune delle più grandi multinazionali inglesi: la banca Barclay’s, la catena commerciale Sainsbury’s, la Vodafone, la Borsa di Londra, la fabbrica di armamenti BAE Systems. Un altro chiaro segnale che il Labour è ostinatamente amico del business, anche in tempi di sventura.
Per il resto il rimpasto rivela poche sorprese. Più che altro di movimenti tattici di pedine, che premiano sia gli accoliti di Brown che i Blairiani che sono rimasti fedeli durante la crisi di fiducia nel governo degli ultimi mesi. Il possibile successore David Miliband mantiene il ministro degli esteri, mentre suo fratello Ed, sottosegretario alla presidenza del consiglio, guadagna responsabilità su clima ed energia. Così Brown spera di riassestare l’esecutivo che dopo la conferenza del Labour, il mese scorso, ha accorciato la distanza dai conservatori nei sondaggi, che rimangono comunque con dieci punti di vantaggio. Nella conferenza del partito conservatore che si è chiusa ieri, il leader del partito, David Cameron ha promesso «un impegno tanto forte sul sociale come quello che era stato fatto sull’economia dalla Thatcher». Con questo rimpasto Brown invece punta tutto sull’economia.
mercoledì 1 ottobre 2008
Lo tsunami di Wall Street si abbatte sulla City
Un nuovo 1929? Canada square, la piazza centrale di Canary Wharf, il nuovo polo finanziario di Londra, fatto costruire dalla Thatcher nella zona dei Docklands, sarebbe la perfetta scenografia per una apocalisse finanziaria, con i grattacieli giganteschi schiacciati sotto il cielo plumbeo e sferzati dal vento. Ma George, banchiere, 58 anni di cui 35 passati nel settore finanziario ostenta sicurezza. «La situazione non è poi così male come sembra. Noi stiamo meglio degli Stati Uniti. Sono sicuro che le cose miglioreranno. A meno che il Congresso americano non riesca finalmente ad approvare il piano di salvataggio finanziario giovedì prossimo. Oppure che i cinesi si mettano a svendere le azioni delle nostre banche.
Allora siamo proprio fregati». L'ondata di panico di Wall Street causata dalla mancata approvazione da parte del Congresso americano del piano di salvataggio del sistema finanziario si è abbattuta nella notte sulle rive del Tamigi. Alle 8 la borsa di Londra sembrava impazzita con perdite di oltre il dieci per cento, che colpivano in particolare i titoli bancari ed assicurativi. Ma la speranza che il piano bocciato del congresso possa essere approvato giovedì dopo i festeggiamenti per il nuovo anno ebraico hanno risollevato le quotazioni. E a fine giornata l'indice FTSE 100 chiuderà in positivo segnando addirittura un + 4,36%. Ma nel frattempo continuano ad addensarsi le nubi su alcune banche inglesi. Le azioni della HBOS specializzata nei mutui, hanno perso oltre il 20%, dopo che si era sparsa la voce che il piano di salvataggio da 12 miliardi di sterline lanciato da Lloyds TSB, una delle banche che sta approfittando di questo momento di crisi, non sarebbe andato in porto. E intanto si fanno sempre più intense le voci su un piano finanziario britannico sul modello di quello proposto da Bush al Congresso, dato che ieri il premier britannico Gordon Brown era a colloquio con il governatore della Banca di Inghilterra Mervyn King. Se così fosse sarebbe l'ennesimo intervento statale nel mercato finanziario, dopo che il governo ha appena nazionalizzato parte di Bradford & Bingley, banca specializzata nei mutui, lasciando al colosso spagnolo Santander i depositi bancari e la rete di filiali. È la seconda banca che viene nazionalizzata dal governo britannico, ad un anno distanza dall'acquisizione di Northern Rock, che fu la prima vittima europea della crisi dei mutui.
Così facendo il governo ha voluto evitare di ripetere le scene di risparmiatori in fila agli sportelli per ritirare i risparmi. Ed è diventato suo malgrado uno dei maggiori operatori finanziari del paese. Nel tardo pomeriggio, di fronte al grande display della Reuters che segna una catena di rimbalzi positivi si respira un clima di attesa. I banchieri camminano con passo spedito, le facce tirate e i negozi di lusso sotto il grattacielo di Canada One, sembrano a corto di clienti. «Sono tutti al lavoro - racconta George - c'è chi sta facendo degli ottimi affari in questi giorni comprando pezzi di compagnie che navigano in cattive acque». Paura di perdere il posto di lavoro? «Poca. Pensa che la maggior parte degli impiegati della Lehman sono già stati riassunti». Eppure per l'economia reale si preannuncia un futuro difficile. «Le banche ridurranno gli impiegati delle proprie filiali, alcuni supermercati arretreranno, molte ditte di costruzione falliranno» - sostiene Martin un broker quarantenne con la faccia sconsolata.
La recessione infatti è oramai realtà. Si prevede che nel 2009 il prodotto interno diminuirà dello 0,2%, dopo un 2008 fermo all'1,1 %. L'economia britannica rischia di perdere 500.000 posti di lavoro. Molti di questi direttamente collegati al settore finanziario da cui in Gran Bretagna dipende un quinto della forza lavoro. «C'è molta preoccupazione», racconta Tony che lavora come informatico all'ufficio Reuters di Canary Wharf. «Hanno bloccato le assunzioni e stanno tagliando le consulenze». «La gente tiene la testa bassa aspettando che la tempesta passi - ammette Chris, un avvocato abbronzato che lavora in uno studio commerciale - Alcuni miei amici hanno già perso il lavoro. Ma il problema più che altro è per quelli che cercano lavoro, non ci potrebbe essere momento peggiore». C'è addirittura chi teme una serie di suicidi di banchieri, dopo che la settimana scorsa, Kirk Stephenson, direttore della compagnia finanziaria Olivant si è buttato sotto un treno, dopo aver perso milioni di sterline nel crollo del mercato azionario. Ma se adesso pure i ricchi piangono, non sembra esserci molta compassione da parte dei tanti lavoratori comuni che tengono in piedi Canary Wharf. «Non cambia mica niente», dice Dimat, un cameriere albanese che lavora a Smollensky's, uno dei ristoranti ai piedi dei grattacieli. «Tanto questi i soldi per venire al ristorante li hanno messi da parte. Gente da servire ce ne sarà sempre».
Allora siamo proprio fregati». L'ondata di panico di Wall Street causata dalla mancata approvazione da parte del Congresso americano del piano di salvataggio del sistema finanziario si è abbattuta nella notte sulle rive del Tamigi. Alle 8 la borsa di Londra sembrava impazzita con perdite di oltre il dieci per cento, che colpivano in particolare i titoli bancari ed assicurativi. Ma la speranza che il piano bocciato del congresso possa essere approvato giovedì dopo i festeggiamenti per il nuovo anno ebraico hanno risollevato le quotazioni. E a fine giornata l'indice FTSE 100 chiuderà in positivo segnando addirittura un + 4,36%. Ma nel frattempo continuano ad addensarsi le nubi su alcune banche inglesi. Le azioni della HBOS specializzata nei mutui, hanno perso oltre il 20%, dopo che si era sparsa la voce che il piano di salvataggio da 12 miliardi di sterline lanciato da Lloyds TSB, una delle banche che sta approfittando di questo momento di crisi, non sarebbe andato in porto. E intanto si fanno sempre più intense le voci su un piano finanziario britannico sul modello di quello proposto da Bush al Congresso, dato che ieri il premier britannico Gordon Brown era a colloquio con il governatore della Banca di Inghilterra Mervyn King. Se così fosse sarebbe l'ennesimo intervento statale nel mercato finanziario, dopo che il governo ha appena nazionalizzato parte di Bradford & Bingley, banca specializzata nei mutui, lasciando al colosso spagnolo Santander i depositi bancari e la rete di filiali. È la seconda banca che viene nazionalizzata dal governo britannico, ad un anno distanza dall'acquisizione di Northern Rock, che fu la prima vittima europea della crisi dei mutui.
Così facendo il governo ha voluto evitare di ripetere le scene di risparmiatori in fila agli sportelli per ritirare i risparmi. Ed è diventato suo malgrado uno dei maggiori operatori finanziari del paese. Nel tardo pomeriggio, di fronte al grande display della Reuters che segna una catena di rimbalzi positivi si respira un clima di attesa. I banchieri camminano con passo spedito, le facce tirate e i negozi di lusso sotto il grattacielo di Canada One, sembrano a corto di clienti. «Sono tutti al lavoro - racconta George - c'è chi sta facendo degli ottimi affari in questi giorni comprando pezzi di compagnie che navigano in cattive acque». Paura di perdere il posto di lavoro? «Poca. Pensa che la maggior parte degli impiegati della Lehman sono già stati riassunti». Eppure per l'economia reale si preannuncia un futuro difficile. «Le banche ridurranno gli impiegati delle proprie filiali, alcuni supermercati arretreranno, molte ditte di costruzione falliranno» - sostiene Martin un broker quarantenne con la faccia sconsolata.
La recessione infatti è oramai realtà. Si prevede che nel 2009 il prodotto interno diminuirà dello 0,2%, dopo un 2008 fermo all'1,1 %. L'economia britannica rischia di perdere 500.000 posti di lavoro. Molti di questi direttamente collegati al settore finanziario da cui in Gran Bretagna dipende un quinto della forza lavoro. «C'è molta preoccupazione», racconta Tony che lavora come informatico all'ufficio Reuters di Canary Wharf. «Hanno bloccato le assunzioni e stanno tagliando le consulenze». «La gente tiene la testa bassa aspettando che la tempesta passi - ammette Chris, un avvocato abbronzato che lavora in uno studio commerciale - Alcuni miei amici hanno già perso il lavoro. Ma il problema più che altro è per quelli che cercano lavoro, non ci potrebbe essere momento peggiore». C'è addirittura chi teme una serie di suicidi di banchieri, dopo che la settimana scorsa, Kirk Stephenson, direttore della compagnia finanziaria Olivant si è buttato sotto un treno, dopo aver perso milioni di sterline nel crollo del mercato azionario. Ma se adesso pure i ricchi piangono, non sembra esserci molta compassione da parte dei tanti lavoratori comuni che tengono in piedi Canary Wharf. «Non cambia mica niente», dice Dimat, un cameriere albanese che lavora a Smollensky's, uno dei ristoranti ai piedi dei grattacieli. «Tanto questi i soldi per venire al ristorante li hanno messi da parte. Gente da servire ce ne sarà sempre».
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