«Un parlamento bloccato sarebbe un disastro per l'economia britannica. Non possiamo permetterci una situazione di incertezza». Le parole escono perentorie da una gola sciolta da due pinte dell'amata birra London Pride. Su uno dei divani del Marquis of Granby, pub del mondo politico britannico, ad un tiro di schioppo da Westminster, si staglia la sagoma imponente di Kenneth Clarke, l'uomo cui spetterà il potente ministero dell'Economia se i Tory vinceranno le elezioni. «I liberaldemocratici non sono mica un partito di governo! Sarà difficile formare una coalizione con loro» sbotta Clarke commentando le indiscrezioni dell'ultima ora sulle trattative per formare un governo di coalizione di fronte alla prospettiva di un «pareggio» alle prossime elezioni.
Classe 1940, oltre cento chili di stazza, Clarke è l'uomo di esperienza della squadra preparata da Cameron in vista dell'agognato ma sempre più incerto ritorno dei conservatori a Downing Street. Ministro per la salute e per l'educazione sotto la Thatcher, e poi ministro degli interni e cancelliere dello scacchiere sotto il governo Major, Clarke fu risuscitato nel 2009, quando Cameron lo volle nel suo governo ombra per dare credibilità alla politica economica dei Tory. In questa campagna elettorale Cameron lo ha voluto in prima linea a sparare quotidianamente battute taglienti contro Labour e i Libdem. In un momento di relax tra un attacco e l'altro Clarke si lascia andare a qualche commento indiscreto sulla competizione più incerta dal 1974.
Gli ultimi sondaggi danno i tre maggiori partiti quasi alla pari, attorno a quota 30%, con i conservatori in leggero vantaggio, e i liberaldemocratici in crescita dopo l'exploit del leader Nick Clegg nei dibattiti televisivi. Di fronte all'avanzata di Clegg, negli ultimi giorni, laburisti e Tory hanno invitato gli elettori a votare con il cervello invece che con il cuore, per assicurare la governabilità del paese. Ma nel frattempo dietro le quinte, Tory e labour fanno già la corte ai liberaldemocratici. Nick Clegg che da canto suo per il momento si tiene le mani libere. «Non mi importa chi saranno i nostri alleati dopo le elezioni» ha dichiarato ieri il leader dei Libdem. «Potrebbero essere pure i marziani per quello che mi importa. Quello che conta invece è realizzare la riforma istituzionale di cui questo paese a bisogno».
La dichiarazione di Clegg, che in molti hanno letto come un'apertura ai conservatori, trova orecchie sorde in Ken Clarke, che pure, da esponente dell'ala liberal dei Conservatori, rimpiange che quel «fuoriclasse» di Clegg non sia nel suo partito. «Clegg avrebbe dovuto essere un conservatore. Purtroppo quando lui entrò in politica, non era un momento buono per i conservatori». A dispetto della stima personale per Clegg, Clarke non crede alla possibilità di un accordo tra Tory e Libdem dopo le elezioni. «Trattare con i Libdem sarebbe molto difficile. Clegg si troverebbe in difficoltà a fare accettare all'assemblea del suo partito un'accordo con noi o con il Labour. Un parlamento bloccato rischia di trasformarsi in un pantano».
A preoccupare Clarke non è tanto la magra figura che ci farebbero le istituzioni britanniche - in crisi dopo lo scandalo dei rimborsi spese gonfiati - quanto i rischi per l'economia. «Questo paese non è mica uscito dalla crisi economica. Siamo soltanto rimbalzati dopo essere crollati. Se ci trovassimo di fronte ad un parlamento senza maggioranza certa, rischiamo di finire nelle mani del Fondo Monetario Internazionale. Abbiamo bisogno al più presto di un nuovo governo che faccia interventi urgenti».
«Speriamo che David faccia bene nell'ultimo dibattito in tv, così evitiamo di finire in questa situazione» sospira Clarke terminando l'ultima pinta di birra prima di andare a riposare. «I dibattiti televisivi stanno influenzando moltissimo questa campagna elettorale. E il rischio è che la gente guardi più ai personaggi che ai problemi veri. La gente ama Clegg, perché pensa che non sia un politico, un po' come succede da voi con Berlusconi. L'unica differenza è che Clegg non è un donnaiolo e un bugiardo, come Berlusconi. Da noi non funzionerebbe».