mercoledì 15 luglio 2009

Strage di soldati, gli inglesi si riscoprono «no war»

I corpi sono arrivati. Scaricati uno a uno dalla pancia del C-17 che li ha portati alla base RAF di Lyneham, nel Wiltshire. Caricati con una coreografia militare su auto funebri Mercedes Benz, guidate da becchini con bastone e bombetta. Salutati da due ali di folla lungo le strade di Wooton Bassett, paese che vive all'ombra della base RAF da cui gli aerei partono carichi di mezzi e soldati per riportare indietro cadaveri e rottami. È la settantesima volta negli ultimi due anni che si svolge questa scena, dopo che gli abitanti del paese hanno chiesto di poter onorare pubblicamente i caduti, invece di vedere le auto che trasportano le bare avvolte dall'Union Jack passare di sfuggita come se nulla fosse. E non sarà certo l'ultima.
Ieri a passare per le strade di Wooton Bassett sono stati gli otto militari britannici morti venerdì scorso nella provincia dell'Helmand teatro di scontri feroci tra talebani da una parte e forze americane e britanniche dall'altra. In cinque sono morti per due bombe esplose in successione a Sangin. Altri due per l'esplosione di due ordigni a Nad-e-Ali. Un altro ancora è stato colpito a morte mentre faceva la sentinella a Char-e-Anjir. Otto morti pesanti, che portano la lista dei caduti in Afghanistan a quota 184: più dei 179 morti britannici in Iraq. I morti inglesi sono già 15 dall'inizio di luglio, quello che si sta rivelando il mese più sanguinoso dal settembre 2006. Così nella «guerra dimenticata» condotta da ormai quasi otto anni nelle lande impervie dell'Afghanistan, il mondo politico si trova costretto a fare i conti con il costo in vite umane dell'offensiva voluta dal presidente degli Stati uniti Barack Obama contro gli irriducibili talebani.
Brown ha approfittato della tragedia per invitare Karzai a schierare truppe afghane nell'Helmand al fine di «difendere il terreno conquistato con tanta fatica». I conservatori, invece, hanno colto l'occasione per criticare la conduzione della guerra. Il vice-segretario del partito John Maples ha affermato che «sempre più persone si chiedono se è possibile vincere questa guerra e se gli obiettivi che ci siamo posti siano ragionevoli, considerati i militari in campo ed il loro equipaggiamento». Critiche a cui l'esecutivo ha replicato dicendosi disposto a soddisfare ogni richiesta venga dai generali, rivendicando 3 miliardi di sterline spesi nel conflitto in un anno di crisi economica, e riaffermando con il neo-ministro della difesa Bob Ainsworth che la guerra deve essere vinta, costi quel che costi. Nel frattempo, 700 soldati inviati per fare da guardia alle elezioni presidenziali nel paese, rimarranno oltre la data prevista per il ritorno e ulteriori rinforzi potrebbero essere inviati nei prossimi mesi.
A essere poco convinti della necessità di questo conflitto continuano ad essere i sudditi del Regno unito, seppur la guerra in Afghanistan sia sempre stata più popolare di quella in Iraq. In base ad un sondaggio pubblicato ieri il 56 per cento dei britannici vorrebbe il ritiro delle truppe entro l'anno. Per Lindsey German, leader del gruppo anti-guerra Stop the War «sempre più persone capiscono che questo conflitto non ha a che fare con gli interessi degli afghani, ma con le mire del Regno Unito e degli Stati uniti. Il fatto è che hanno perso la guerra in Iraq e ora sperano di recuperare lo smacco vincendo il conflitto in Afghanistan». «Fa male vedere tanto sangue versato invano», le fa eco Rose Gentle, madre di Gordon Gentle, soldato morto in Iraq nel 2004, e diventata portavoce dei familiari dei militari che si oppongono alla guerra. «È arrivato il momento di dire basta. Il governo deve ascoltare i britannici e portare i nostri soldati a casa».

venerdì 10 luglio 2009

«Il vero anti-G8? A Copenaghen»

Sul clima si sono infrante le fanfare del G8 aquilano. Ed è proprio sul cambiamento climatico che potrebbe ripartire il movimento globale. Di questo è convinto Tadzio Müller, uno degli animatori di Climate Justice Action. La coalizione che comprende Ong come Friends of the Earth, Jubilee South, Focus on the Global South, Attac Francia, gruppi autonomi ed anarchici, si sta preparando da mesi alla conferenza dell'Onu sul Clima, che si terrà a Copenhagen a dicembre. Questa protesta secondo Müller potrebbe essere un'occasione per rigenerare i movimenti globali, rimasti senza un nemico forte con l'agonia del neoliberismo. Per l'attivista, che studia il "capitalismo verde" per la fondazione Luxemburg, «il cambiamento climatico deve diventare un nuovo terreno di lotta, perché mette in luce la follia del capitalismo e della crescita infinita».

I grandi della terra sbandierano la promessa di tagliare i gas serra del 50% entro il 2050 come un successo. Dobbiamo credergli?
Tra qui e il 2050 ci saranno dieci tornate elettorali: per i politici è un po' come promettere che nel 2050 ci saranno stazioni turistiche su Marte. Viste le resistenze di Cina, India e altri paesi emergenti i grandi potranno continuare a fare il gioco dello scaricabarile. Poi basta vedere quanto successo nelle edizioni passate del G8 con le promesse mancate sulla lotta alla povertà per capire che non sono credibili.

Con il fallimento del G8 sul clima la palla passa al vertice sul clima di Copenhagen. Cosa succederà in quell'occasione?
Per Copenhagen stiamo mettendo assieme una coalizione molto ampia, unita da una secca denuncia delle politiche dell'Onu sul clima e dall'intenzione di usare la strategia dell'azione diretta contro il summit.

Eppure a vedere le proteste contro il G8 i movimenti globali sembrano in forte crisi.
Il fatto è che il G8 è ormai un guscio vuoto. Un tempo aveva senso opporvisi in maniera frontale perché era al timone dell'agenda neoliberista e ci forniva un nemico contro il quale unirci. Ora che il neoliberismo langue un terreno comune per i movimenti globali può essere quello dei cambiamenti climatici. Copenhagen potrebbe essere una nuova Seattle.

Molti nella sinistra guardano con sospetto all'attivismo sul clima, quasi si trattasse di una «preoccupazione borghese» che non ha a che fare con l'ingiustizia sociale.
Il cambiamento climatico ci sarà, che ci piaccia o meno. Le elite lo hanno capito e si stanno attrezzando, mettendo in campo nuove forme di potere. Noi come movimenti sociali dobbiamo accettare questa sfida, anche perché i cambiamenti climatici amplificheranno le diseguaglianze sociali.

mercoledì 8 luglio 2009

Il veterano no global: finita l'epoca dei controvertici, dobbiamo reinventarci

Pochi e confusi. Eppure fanno numero nella piccola folla che si riunisce a piazza Barberini per la protesta contro l'ambasciata americana fronteggiata da un imponente dispositivo delle forze di
polizia. Gli attivisti stranieri giunti a Roma per protestare contro il G8 non nascondono il disappunto di fronte a una mobilitazione che appare molto inferiore rispetto a quella di precedenti analoghe manifestazioni. Tra i capannelli di attivisti francesi, spagnoli,
tedeschi e greci che ieri si sono uniti ai manifestanti italiani c'era anche Kriss Sol, un attivista olandese veterano del movimento anti-globalizzazione, che ha partecipato alle grandi proteste globali da Praga in poi. «È un po' triste essere qui - afferma Kriss di fronte a un raduno soverchiato dalla presenza degli agenti anti-sommossa - sembra di essere veramente arrivati alla fine di un percorso. È necessario reinventare le forme di protesta e il modo in cui ci approcciamo alla gente.

Qual è la tua impressione di fronte a questa protesta piuttosto sguarnita?

Dobbiamo stare vedere quello che succederà nei prossimi giorni e quali azioni ci saranno. Ma credo che per chiunque assista a questa manifestazione e veda il numero di persone che ci sono in piazza è purtroppo chiaro che molte cose sono successe in Italia dal 2001 in poi e che il movimento si trova in una fase di forte debolezza. È un peccato, anche perché in passato in Italia il movimento contro la globalizzazione era molto forte. Poi, a vedere come si sta comportando
la polizia, è chiaro che non vogliono lasciare nessuno spazio ai manifestanti e che stanno limitando in maniera drastica il diritto di manifestare.

Come stanno vivendo questa mobilitazione gli attivisti stranieri che hai incontrato a Roma?

Rispetto ad altri mobilitazioni a cui ho partecipato - Praga, Genova, Gleneagles, Heiligendamm e molte altre - la situazione è differente dal punto di vista della mobilitazione a livello internazionale. Certo ci sono persone che vengono da molti paesi diversi. Io personalmente
oggi ho incontrato persone che vengono da almeno 10 paesi differenti. Ma si tratta di gruppi molto piccoli. Questo è dovuto anche al fatto che c'è stata molta confusione nella fase di preparazione per le proteste e per noi attivisti internazionali è stato difficile capire
quello che stava succedendo. Si avverte un'assenza di quelle infrastrutture e reti organizzate che c'erano in occasione di altre proteste contro il G8.

Cosa ti aspetti dalle manifestazioni dai prossimi giorni?

Sono curioso di vedere quello che succederà e mi auguro che molte più persone partecipino. Molto dipenderà da come andranno le cosiddette "azioni de-centrate" dei prossimi giorni. Ma a dire la verità non sono molto convinto da questa strategia perché troppe volte questa è
stata la scusa per non fare niente e giustificarsi di fronte al fatto di essere in pochi. Credo che continuiamo ad avere bisogno di momenti di partecipazione di massa in cui riunirci tutti quanti se vogliamo avere visibilità ed impatto.

Stiamo forse assistendo agli ultimi rantoli del movimento anti-globalizzazione?

Non so se si tratti della fine del movimento anti-globalizzazione in quanto tale, ma il formato del controvertice sembra essersi esaurito. Credo che sia arrivato il momento di rinnovare le pratiche e i modelli organizzativi se vogliamo fare di nuovo breccia nell'opinione pubblica. Bisogna avere il coraggio di ripartire da capo senza perdere la dimensione transnazionale, che è stata la componente fondamentale delle lotte contro la globalizzazione neoliberista.

«Articolo corretto, Berlusconi non è credibile»

Invece che una «grande cantonata da parte di un piccolo giornale»» - come l'ha ridimensionata con sprezzo Berlusconi, l'articolo del Guardian che ieri ha provocato le reazioni infuriate del governo, è l'ennesima mattonata per un paese che sulla scena internazionale appare sempre più inaffidabile. Tanto inaffidabile che c'è chi vuole liberarsene e sostituirlo con la Spagna nel G8. Questa l'indiscrezione raccolta dal giornalista del quotidiano inglese Julian Borger, tra fonti diplomatiche internazionali, pezzo forte di un articolo in cui si afferma che «i preparativi per il G8 dell'Aquila sono stati cosi caotici da creare una pressione crescente tra gli altri paesi per espellere l'Italia».
L'esperto di diplomazia del quotidiano londinese afferma che di fronte al disastro organizzativo e politico del G8, gli Stati Uniti sono stati costretti a prendere le redini della situazione e a mettere in campo i loro sherpa per salvare il salvabile. Il giornalista ricorda ai lettori come il periodo di preparazione del summit abruzzese «è stato dominato dalle notizie sulle feste di Berlusconi con giovani donne, e la decisione discutibile di svolgere l'incontro in una regione che è ancora soggetta a scosse d'assestamento dopo un devastante terremoto». La brutta figura che l'Italia sta facendo con questo G8 va a sommarsi alla crisi di credibilità del nostro vituperato presidente del consiglio e la situazione potrebbe andare a vantaggio dei nostri cugini iberici che come ricorda Borger «hanno un reddito pro-capite più alto e donano una percentuale più alta del Pil in aiuti per lo sviluppo».
Ed è di fatto proprio la promessa mancata di arrivare allo 0,7% del Pil in aiuti allo sviluppo - l'Italia è ferma a un imbarazzante 0,22% - uno dei fattori decisivi che secondo il Guardian avrebbero spinto governi e diplomazia internazionale a pensare di fare fuori l'Italia dal G8. Del resto, questa era la piaga in cui qualche giorno fa aveva messo il dito la star umanitaria Bob Geldof, che in un incontro con il nostro presidente del consiglio di cui aveva dato conto La Stampa, aveva rimproverato l'esecutivo per essere venuto meno alla promessa fatta in occasione del G8 di Gleneagles nel 2005. L'Italia al momento ha erogato soltanto il 3% degli aiuti che aveva promesso 4 anni fa.
Ieri a rincarare la dose ci ha pensato l'ex segretario generale dell'Onu Kofi Annan, che ha detto a Berlusconi che «non onorare gli impegni non renderebbe giustizia ai valori del tuo paese» e che un G8 «che non dedichi attenzione ai problemi dei paesi più poveri danneggia la credibilità e la leadership del gruppo». La risposta del governo di fronte alle critiche del Guardian non si è fatta attendere, dando vita all'ennesima prova berlusconiana di odio per la «perfida albione», con il ministro La Russa, che ha invitato perfino a non comprare più i giornali inglesi.
Ma di fronte alla reazione scomposta di Silvio e soci il Guardian non è retrocesso di un millimetro. Sentito al telefono da il manifesto Julian Borger ha confermato che il suo articolo «è basato su informazioni reperite tra personalità di spicco del mondo diplomatico». Rispondendo con britannico understatement, Borger rileva che «i politici hanno sempre diritto di critica rispetto al nostro lavoro» ma aggiunge «che il governo Berlusconi sta cercando di arrampicarsi sugli specchi di fronte a quello che ormai è evidente a tutti». A dargli manforte la direzione dello storico quotidiano di Farringdon Road, che in un comunicato anodino scrive di sostenere «appieno l'articolo pubblicato di Julian Borger» negando «recisamente che la notizia sia priva di fondamento».
Le critiche ricevute dal Guardian sono un nuovo motivo di imbarazzo per il nostro governo di fronte all'opinione pubblica anglosassone, i cui organi di informazione non hanno nascosto la propria incredulità di fronte alla situazione politica italiana, con un presidente del consiglio che sembra capace di sopravvivere a qualsiasi scandalo. E se qualche hanno fa l'Economist aveva affermato che Berlusconi non era «fit», adatto, a governare l'Italia, ora agli occhi della stampa di lingua inglese sembra che si sia arrivati al punto che il paese da lui governato, non è più «fit» per fare parte del club che conta.

domenica 5 luglio 2009

«Ci battiamo per Zelaya, che al ritorno dovrà tenere conto di noi»

Parla Melissa Cardoza, portavoce del Frente de Resistencia Popular che unisce movimenti e cittadini contro il golpe

Voci di manifestazioni represse nel sangue in giro per il paese, centinaia di compagni arrestati e spariti nel nulla, l'esercito che blocca le persone che ancora in queste ore tentano di entrare a Tegucigalpa per protestare, ed il cadavere di un manifestante pestato a sangue abbandonato per le strade della capitale, a mo' di avvertimento. Mentre migliaia di persone si stanno nuovamente mettendo in marcia per le strade della capitale, nella speranza che finalmente nelle prossime ore il presidente Manuel Zelaya rimetta piede in Honduras, il governo golpista non sembra disposto a retrocedere, nonostante l'isolamento internazionale. E nella confusione di queste ore si fa più forte la paura di una svolta violenta della crisi in cui è piombato il paese con il colpo di stato del 28 giugno. «Ci sono segnali inquietanti - afferma Melissa Cardoza, una delle portavoci del Frente de Resistencia popular, creato per unire movimenti e cittadini che si oppongono al golpe. - Sia ben chiaro che i golpisti non sono macchiette, ma fascisti pronti a tutto e c'è il rischio che nei prossimi giorni aumenti la repressione. C'è bisogno di uno sforzo di solidarietà internazionale per fermarli».
Com'è la situazione a Tegucigalpa in questo momento?
Nella capitale ci sono decine di migliaia di manifestanti, che sono giunti da ogni angolo dell'Honduras: contadini, operai, medici e maestri, uomini e donne, giovani e anziani. L'esercito per ora se ne sta in disparte e non attacca le manifestazioni che finora si sono comportate in maniera assolutamente pacifica. Ma c'è il rischio che presto la situazione cambi e cominci il massacro.
Le manifestazioni fanno traballare il governo golpista?
Purtroppo no. Il governo non sembra intenzionato a retrocedere dalle sue posizioni. Nonostante ciò il nostro morale è molto alto. Nella storia dell'Honduras non si erano mai viste manifestazioni grandi come quelle di questi giorni e con persone tanto diverse. Siamo convinti di essere dalla parte del diritto e continueremo a lottare finché il presidente non tornerà in carica.
Sembra che alcuni reparti dell'esercito si siano distanziati dai golpisti. Puoi confermare?
E' vero che alcuni reparti si stanno rifiutando di obbedire agli ordini o che quantomeno stanno a guardare come evolve la situazione. Ma nessun reparto è ancora uscito allo scoperto per sostenere i manifestanti e ripristinare lo stato di diritto. La stragrande maggioranza dell'esercito appoggia i golpisti come pure la chiesa evangelica e cattolica e le imprese, che in questi giorni stanno costringono i lavoratori a manifestare in favore del colpo di stato.
Qual è la vostra posizione rispetto al presidente Zelaya
Qui in piazza solo alcuni sono sostenitori di Zelaya o del suo partito. Certo, molti tra di noi sono scettici verso le istituzioni liberaldemocratiche ed il sistema capitalista da cui dipendono. Ma a questo punto l'unica garanzia che abbiamo è il ritorno del presidente legittimamente eletto. Quello che ci unisce è l'indignazione per il colpo di stato. Siamo usciti dalla dittatura solo 28 anni fa, e sappiamo bene cosa significa la violenza e la repressione. Nessuno vuole tornare a quel passato.
Quali prospettive per il futuro?
Difficile a dirsi. Fuori da questa crisi può venire fuori veramente di tutto. Potrebbero arrivare giorni terribili se il golpe riuscisse ad andare avanti e cominciassero i massacri. Ma tra di noi c'è pure molta speranza nel futuro e nel ritorno di Zelaya, che dovrà pur tenere in conto che è stato salvato dai movimenti sociali. Vogliamo che il presidente torni immediatamente, poi vedremo il da farsi.