mercoledì 15 dicembre 2010

"Con Internet Wikileaks ha scardinato il giornalismo" - Intervista con John Pilger

LONDRA - «Wikileaks sta facendo quello che i giornalisti dovrebbero fare e non stanno facendo. Per questo c'è così tanta invidia». John Pilger, il 71enne decano del giornalismo investigativo britannico, anche lui di origini australiane come Julian Assange, celebre per i suoi documentari sulla guerra in Vietnam e in Cambogia, era ieri nell'anticamera della Westminster Magistrates Court assieme allo scrittore Tariq Ali, e al regista Ken Loach. Tutti venuti a dare sostegno al fondatore di Wikileaks. Per Pilger, che ha festeggiato la notizia del rilascio su cauzione di Assange, Wikileaks «sta cambiando la faccia del giornalismo investigativo. Tutti i giornalisti dovrebbero mostrare solidarietà verso Assange e i suoi collaboratori. Invece si avverte soprattutto il fastidio, dato che molte istituzioni del giornalismo si vedono superare da un gruppo di ragazzi con un sito Internet».

Con l'arresto di Julian Assange si sta aprendo nuovamente il dibattito sulla libertà di informazione. Gli Stati uniti che non vogliono fare la figura dei censori sostengono che Assange non è un giornalista. Lei come giornalista che cosa ne pensa?

Julian Assange sicuramente è un giornalista, come lui stesso mi ha detto. Del resto anche il suo titolo ufficiale è editor-in-chief, o capo redattore di Wikileaks. Poi chi è che decide chi è giornalista o no: il governo Usa? Stando a sentire i portavoce del governo statunitense né io né voi giornalisti de il manifesto verremmo considerati giornalisti, perché abbiamo una «linea politica». Come se i giornalisti mainstream o quelli di destra non avessero una linea politica.

Lei negli ultimi decenni è stato uno dei pionieri del giornalismo investigativo, prima come inviato speciale per il Daily Mirror e poi per la televisione. Qual è la vera novità del giornalismo investigativo via internet?


Prima di tutto la velocità. Wikileaks sta facendo in pochi giorni rivelazioni eclatanti sul funzionamento della diplomazia e dell'apparato militare statunitense che in passato avrebbero richiesto mesi se non anni di lavoro. E ha introdotto un modello interessante in cui i giornalisti diventano «facilitatori» per la diffusione di informazioni rivelate dai whistleblowers (letteralmente i fischiatori, una figura codificata nel mondo anglosassone). Persone che lavorano per lo stato e rendono noti segreti scottanti perché pensano sia giusto che il pubblico venga a sapere. Con o senza internet, non si fa giornalismo investigativo senza questi whistleblowers. Ed è importante che anche loro vengano protetti.

Nonostante l'importanza delle informazioni pubblicate da Wikileaks sembra esserci poca solidarietà da parte dei suoi colleghi giornalisti.


Il fatto è che Wikileaks sta mettendo in imbarazzo i giornalisti tradizionali che negli ultimi anni si sono abituati a fare gli stenografi del potere. È un vero e proprio choc per tante istituzioni giornalistiche come il New York Times, o il Washington Post, ma anche per tanti giornalisti del Guardian, illusi che il loro ruolo fosse insostituibile. Per questo nella stampa serpeggia invidia e risentimento verso Assange. Ma invece di arrabbiarsi dovrebbero cogliere quello che sta succedendo come un invito a tornare a svelare quello che i governi vorrebbero nascondere ai cittadini.

sabato 11 dicembre 2010

Risuona «Anarchy in the Uk»

«Anarchy in the Uk» titolano i giornali gratuiti a cui si aggrappano di mattina i pendolari sulla metropolitana londinese. Gli occhi strabuzzano alla vista della foto di Carlo e Camilla terrorizzati dagli studenti che circondano e colpiscono la Rolls Royce reale sulla luccicante Regent's Street. Qualcuno sogghigna. Altri scuotono la testa. «Fucking students!» - impreca a bassa voce un signore sulla cinquantina avvolto in un cappotto grigio. Il giorno dopo le scene da rivolta urbana viste giovedì prima e dopo il voto della Camera dei Comuni a favore dell'aumento delle rette universitarie a 9.000 sterline l'anno, Londra si risveglia incredula. Con le strade disseminate di cartelli, bastoni e cocci di bottiglia. E con la gente che cerca di capire i motivi di tanta rabbia nel paese della flemma e dell'understatement.

Per i politici che siedono in parlamento quello che si è visto giovedì sulle strade della capitale del Regno Unito è semplicemente «inaccettabile», «bestiale», «criminale». «Dobbiamo essere certi che gli studenti che si comportano in questa maniera vergognosa avvertano tutta la forza della legge di questo paese» - attacca minaccioso il primo ministro conservatore David Cameron che ha fatto i complimenti alla polizia per aver dimostrato «moderazione». Quanto agli studenti si tratta solo di «sognatori» come affermato dal detestato leader liberaldemocratico Nick Clegg. E di sognatori violenti, per giunta.

«C'erano molte persone che chiaramente volevano commettere atti violenti e distruggere proprietà» - ha commentato Cameron che si trova a far fronte a un'ondata di conflitto sociale che apparentemente né lui né i suoi compagni di partito avevano messo pienamente in conto. A dare manforte al primo ministro, nell'aprire la caccia ai «vandali» che hanno avuto l'ardore di mettere a repentaglio l'incolumità degli eredi al trono è il Labour, che per voce di Ed Balls, ministro ombra agli interni attacca la «minoranza violenta» che «ha dirottato una protesta in gran parte pacifica». «Anarchici di professione e agitatori violenti» come li ha definiti il deputato conservatore David Davis, che pure ha votato contro l'aumento delle rette.

La polemica istituzionale si concentra sulla falla alla sicurezza di Carlo d'Inghilterra e Camilla Parker Bowles che avrebbe incassato un colpo nelle costole attraverso la finestra dell'auto finita aperta per errore proprio mentre i manifestanti lanciavano oggetti. Gli uomini della scorta che sarebbero stati sull'orlo di sfoderare le pistole contro i 40 manifestanti che giovedì sera avevano circondato contro la vettura reale nelle strade dello shopping. A finire per l'ennesima volta nell'occhio del ciclone è il capo di Scotland Yard Paul Stephenson: accusato nuovamente di aver sottovalutato le proteste.

Stephenson che ha promesso «un'indagine approfondita» sull'accaduto deve pure fare i conti con le critiche per la violenza della polizia. Una quarantina di manifestanti sono dovuti andare in ospedale per farsi curare le ferite riportate durante la protesta. Tra questi Alfie Meadows, un ragazzo ventenne che studia filosofia alla Middlesex University, sottoposto a un'intervento chirurgico d'emergenza alla testa durato tre ore per fermare un'emorragia cerebrale a seguito di una manganellata. Decine di studenti hanno riportato fratture ed ematomi dopo gli scontri con le forze dell'ordine che non ha esitato a ricorrere a cariche di poliziotti a cavallo per respingere la folla: una cosa così che non si vedeva dal 31 maggio 1990, giorno della grande protesta contro la poll tax voluta dalla lady di ferro Margaret Thatcher.

Ma a uscire veramente pesti da queste settimane di polemica politica e scontri di piazza sono soprattutto i liberaldemocratici che i sondaggi danno ridotti a un misero 8%. Ieri Clegg ha dovuto fare i conti con un'ondata di dimissioni di membri locali del partito che non hanno condiviso il voltagabbana sulle tasse universitarie. E in molti prevedono che il leader libdem potrebbe perdere la leadership, se gli elettori giovani a maggio bocceranno in massa il referendum per il passaggio a un sistema elettorale più proporzionale voluto da Clegg, per farla pagare ai libdem traditori.

"Ci avete rubato tutto, ieri i soldi e oggi la speranza"

«Che cosa diavolo è successo alla Harry Potter generation?», si chiede l’Inghilterra per bene sorpresa dall’esplosione di una rabbia giovanile che non si vedeva da decenni. «Chi semina vento raccoglie tempesta», risponde Jonas, un ragazzo di 17 anni che studia in un college di Hackney nella zona est di Londra. «Che cosa si aspettavano da ragazzi che stanno condannando ad una vita senza futuro?». Una generazione disillusa e arrabbiata, politicizzata ma poco ideologica che sembra trovare nella violenza di piazza l’unico mezzo per esprimere il proprio dissenso contro la politica lacrime e sangue proposta dal governo del Tory Cameron e del Libdem Clegg.

Ragazzi che per parafrasare un celebre proverbio arabo assomigliano molto di più ai tempi di crisi in cui sono cresciuti, piuttosto che ai propri genitori che ai loro tempi di proteste ne hanno fatte poche, per lo più pacifiche, e su problemi che non li toccavano direttamente come la fame nel terzo mondo o l’apartheid in Sudafrica. E che non si sentono rappresentati dal sindacato studentesco percepito come distante e parte del sistema, ma neppure dai gruppuscoli e partitini della sinistra antagonista che pure cercano di approfittare dell’ondata di mobilitazione per reclutare militanti.

Il vecchio motto punk «no compromise» è diventato non a caso uno degli slogan più popolari tra gli studenti che scendono in piazza con tanti cartelli ma poche bandiere. Con la testa incappucciata ed i volti coperti, ed al suono di musica drum’n’base come eravamo abituati a vedere in Germania, in Francia o in Italia. Certo non nel regno di Elisabetta II. E questo antagonismo si riflette nelle dichiarazioni dei leader del movimento per nulla intimiditi dall’attacco della stampa contro gli studenti che il “Sun” bolla «yobs», come i compagni di violenze di Alex in “Arancia Meccanica”.

Per Clare Solomon, presidente del sindacato degli studenti universitari londinesi, «chi parla di violenza è un ipocrita. Sono gli stessi che sostengono la guerra in Afghanistan. I violenti sono quelli che usano i fucili. Non chi rompe una vetrina». Sulla stessa linea Mark Bergfeld, carismatico leader della coalizione Education Activist Network che sostiene che la violenza è stato «il risultato delle condizioni orribili in cui sono stati tenuti gli studenti», finiti cordonati per ore dagli agenti nella zona del Parlamento.

Aaron Porter, presidente del sindacato degli studenti universitari (Nus) che sin dall’occupazione di Millbank dello scorso novembre aveva criticato la «minoranza violenta», si ritrova un pastore senza gregge. La vigilia pacifica di protesta, con tanto di candele organizzata a Embankment sulle sponde del Tamigi, è stata un flop. Solo 7.000 persone contro le oltre 30.000 che hanno partecipato alla manifestazione di fronte al Parlamento in cui si sono visti scontri di massa tra studenti e polizia. Ed ora il fronte radicale degli studenti si sta organizzando per creare un nuovo sindacato degli studenti da opporre al sindacato unico Nus tacciato di moderazione e indecisione.

Il radicalismo che sta provocando una scissione tra moderati ed antagonisti nel movimento studentesco britannico è la spia di un risentimento largamente diffuso non solo tra gli studenti universitari ma anche tra i teenagers delle scuole superiori che gli hanno dato manforte delle proteste. Alla base c’è la percezione di un futuro che rischia di essere senza lavoro come è quello del 17% dei giovani inglesi, dato destinato a crescere nei prossimi mesi a causa del blocco delle assunzioni in buona parte del pubblico impiego e a causa della stretta sull’economia prodotta dai tagli. E va pure peggio per i laureati: il 25% sono senza lavoro in un paese in cui fino a tre anni fa le compagnie facevano incetta di studenti freschi di laurea.

Se ai tempi della crisi continuare a studiare non sembra aumentare le possibilità di trovare un posto di lavoro, per gli studenti l’università continua a rappresentare un approdo dove provare a esaudire i propri sogni anche se non sfoceranno in un posto di lavoro. «Perché devo fare per forza ingegneria o fisica, come vuole il governo?», si chiede Camilla una studentessa di 16 anni che vuole studiare antropologia all’università. Sono queste aspirazioni frustrate che alimentano gli insulti contro i «Tory feccia», e quello che si può solo chiamare un odio di classe contro i banchieri che come denuncia Thomas, uno studente di sociologia, «prima ci hanno rubato i soldi ed adesso ci vogliono rubare anche la speranza».

venerdì 10 dicembre 2010

Assalto al Tesoro

«Vergogna». Un boato di rabbia esplode tra le migliaia di manifestanti assiepati di fronte al Big Ben, quando alle 5 e 42 arriva la notizia che nessuno voleva sentire. L’aumento delle rette universitarie fino a 9.000 sterline è passato con 323 «ayes» and 302 «noes». La ribellione dentro i liberaldemocratici c’è stata. In 21 hanno mantenuto la promessa elettorale di votare contro, tra cui due sottosegretari che si dimessi dagli incarichi di governo. E ad essi si sono uniti 8 deputati conservatori. Ma non è bastato a fermare un provvedimento che come sostiene il presidente del sindacato degli studeti universitari Aaron Porter «è ingiusto, sbagliato e non necessario».
«Un giorno difficile» – ha ammesso Vince Cable il vice-ministro liberaldemocratico all’economia, secondo cui l’aumento delle rette permetterà non solo di «mantenere l’alta qualità delle nostre università» ma anche «di aiutare gli studenti a basso reddito». Di tutt’altro avviso le decine di migliaia di studenti che per tutta la giornata si sono scontrati con la polizia e manifestanti di fronte ad un parlamento trasformato in un bunker come era successo la scorsa settimana nel centro di Roma, per il voto sulla riforma Gelmini. Scontri che sono proseguiti fino a tarda serata con decine di studenti arrestati, ed almeno 100 feriti.
«Tory feccia, stiamo arrivando» – gridava all’unisono il corteo di 20.000 persone partito a mezzogiorno dalla sede università di Londra. Sopra le teste campeggiavano migliaia di cartelli con insulti di ogni tipo diretti contro il traditore Nick Clegg, il vice-primo ministro liberaldemocratico che prima delle elezioni aveva promesso solennemente di opporsi all’aumento delle rette. «Dateci Clegg!» – urlavano ai poliziotti asseragliati dietro le transenne, gli studenti giunti verso l’una e mezza a Parliament Square.
Gli scontri esplodono verso le due quando centinaia di studenti cominciano a spingere contro i mille agenti schierati di fronte al parlamento, usando come arieti, pezzi del recinto messi a protezione del prato di Parliament Square, in vista del matrimonio reale tra il principe William e Kate Middleton. «Uno, due, tre, via!» – urlano i manifestanti, e partono a ripetizione gli spintoni contro le linee della polizia che si difende dietro una transenna attraverso cui gli studenti cercano inutilmente di aprirsi un varco.
Da dietro arrivano rinforzi, spinte ed urla di incoraggiamento. Ma anche caschi verdi, bastoni, scudi di cartone a forma di libro (come quelli usati in Italia), che vengono passati da mano a mano mentre gli studenti si alternano negli scontri. Dalle prime linee vengono portati indietroi feriti, trascinati a braccia dagli amici, con il sangue che gli cola dal naso, dalle guancie e dalla testa. «I prossimi a essere colpiti sarete voi» – urlano esasperati gli studenti contro i poliziotti, che nei prossimi anni verranno letteralmente decimati da pesanti tagli al bilancio per la sicurezza.
«Di qua non si passa». Allora all’improvviso verso le tre all’improvviso la folla cambia strategia e si muove in direzione di Victoria station per «andare a fare una visita al quartiere generale dei Liberaldemocratici», come spiega Lucas un ragazzo di diciott’anni con il cappuccio grigio sulla testa, ed una sciarpa nera a nascondere il volto. La polizia risponde caricando la folla con uno squadrone di 20 agenti a cavallo, che si rizzano spaventati sugli zoccoli per lo scoppio dei mortaretti, ed il bagliore dei fumogeni. E verso le cinque riesce a riportare la situazione sotto controllo, circondando gli studenti con cordoni di agenti schierati in massa sui quattro lati della piazza.
In attesa dei risultati del verdetto della Camera dei Comuni tra gli studenti domina il pessimismo. «Clegg ha cercato di spacciarsi per studente, e molti – me inclusa – gli hanno creduto» – confessa sconsolata Laura una studentessa di Lambeth nel sud di Londra, mentre si attendono i risultati del voto. «Sono dei maiali traditori» – aggiunge senza mezzi termini Elliot uno studente delle scuole superiori di Richmond. «Per colpa di questa gente, adesso rischio seriamente di non poter fare l’università».
Quando infine arriva la cattiva notizia le pietre cominciano a volare da ogni lato. Gli agenti indietreggiano sotto la spinta infuriata degli studenti, e presto sono costretti a ricorrere a gabbie di contenimento per evitare che i manifestanti si facciano strada verso il parlamento. Ma non riescono ad evitare che un centinaio di persone prenda d’assalto il palazzo del ministro del tesoro. Vanno giù le finestre, e in una decina riescono ad irrompere nell’edificio dopo aver sfondato un portone, mentre sul muro compaiono graffiti che inneggiano alla rivoluzione e avvertono i liberaldemocratici: «Ve la faremo pagare». Verso le otto la polizia è costretta a lasciare che la maggioranza delle persone defluisca dalla piazza.
Nella notte continuano gli scontri con gli studenti che prendono d’assalto le strade dello shopping. Preso di mira un negozio della catena Topshop. E nel traffico vengono sorpresi pure Carlo d’Inghilterra, la cui auto viene presa a mattonate da 50 manifestanti. Decine di falò cominciano ad illuminare la notte nel centro di Londra e anche il grande albero di natale in Trafalgar Square va a fuoco, con i pompieri che subito si adoperano per fermare le fiamme. Ma spegnere la rabbia di questa generazione tradita sarà molto più difficile.

venerdì 3 dicembre 2010

"Questa generazione chiede un'altra politica" - Intervista con John McDonnell (sinistra Labour)

«Il vento è cambiato e pure il nuovo leader del Labour Ed Miliband sarà costretto a fare i conti con il forte sentimento di opposizione ai tagli». Ad esserne convinto è John McDonnell, leader della corrente di sinistra all'interno del Labour Socialist Campaign Group e candidato sconfitto nella corsa alla guida del partito nel 2007 e nel 2010.

Per McDonnell portavoce in parlamento di un coordinamento di otto sindacati tra cui quello dei pompieri, dei giornalisti, degli impiegati della pubblica amministrazione e dei lavoratori della metropolitana londinese, «ora c'è soprattutto bisogno di unità tra le diverse lotte per evitare che Cameron ci colpisca e ci sconfigga uno ad uno». In questo contesto, «le proteste studentesche possono diventare la scintilla per la creazione di una coalizione di resistenza contro la politica di tagli della coalizione di governo di Tory e Libdem».

Così tanti studenti coinvolti in proteste così radicali era una cosa che non si vedeva da tanti anni. Che cosa sta succedendo ai giovani in Gran Bretagna?

Ci avevano raccontato che questa era una generazione non ideologizzata, a cui non interessava la politica. Invece è una generazione che si è svegliata e che sta insegnando alla mia generazione che è venuto il tempo di rimettersi in piedi e cominciare a lottare. Dobbiamo stare attenti a non sovraestimare quello che sta succedendo in queste settimane. Ma certamente si tratta di un cambiamento palpabile: un cambiamento che da speranza.

Mentre gli studenti protestano i lavoratori della metropolitana sono andati in sciopero. Prima di loro i pompieri, e i prossimi potrebbero essere i postini di Royal Mail, minacciati dalla privatizzazione. Al momento sembrano lotte scollegate..

L'inizio del nuovo anno porterà una nuova ondata di scioperi, e questa settimana i sindacati si sono incontrati per discutere di come coordinare queste lotte. È importante costruire collegamenti tra i lavoratori e gli studenti, che dal canto loro ci stanno già provando, come hanno fatto lunedì andando a sostenere i picchetti dei lavoratori della metropolitana.

Ed Miliband ha dichiarato di essere stato tentato di solidarizzare con gli studenti, durante le proteste di una settimana fa, ma che purtroppo in quel momento era occupato con altre cose.. È un segnale che pure il Labour si sta svegliando?

Il Labour Party ha un problema di fronte a questa situazione, perchè è stato il Labour stesso in primo luogo a introdurre le rette universitarie (che non esistevano fino al 1999 ndr). Il partito è stato implicato pesantemente nelle politiche neoliberali. Ma al tempo stesso si stanno aprendo brecce dentro il partito, e si sta sviluppando una consapevolezza generale degli errori commessi nel passato durante il periodo New Labour.

Vedremo i laburisti scendere di nuovo in piazza, come non succede da decenni?

Sicuramente c'è bisogno di tornare in piazza e tornare a sostenere i picchetti. Onestamente non mi aspetto che Ed Miliband si trasformerà in un militante dalla sera alla mattina. Più realisticamente mi aspetto che un numero crescente di membri del Labour parteciperanno a queste campagne e la leadership sarà costretta rispondere, per non essere lasciata indietro. Se si vuole tornare al governo, c'è bisogno di riconnettersi con quello che sta succedendo nella comunità.

Se c'è una cosa positiva per il Labour in tutta questa storia, è il collasso dei Libdem, che hanno portato via al partito tanti voti nelle ultime elezioni, specie tra i più giovani..

I Libdem hanno a lungo cercato di mettersi alla sinistra del Labour Party che durante gli anni di governo era scivolato a destra. Ma come dimostrato da questa vicenda il loro essere «di sinistra» era puro opportunismo elettorale. Con il voltafaccia rispetto alle promesse elettorali di opporsi all'aumento delle rette universitarie hanno perso ogni credibilità e rischiano seriamente di implodere. Penso che metà confluiranno nei Tory, mentre l'altra metà passerà al Labour.

mercoledì 1 dicembre 2010

«Don't be kettled»

Fiocchi di neve cadono sulle strade dello shopping del centro di Londra da Oxford Street a Bond Street, imbiancando le illuminazioni natalizie con le immagini dei film della Disney, ed appesantendo i pellicciotti ed i piumini delle signore di Chelsea intente a fare i regali. Una scena da idillio consumista che viene rotta dall'irruzione di gruppetti di studenti, che gridando a squarciagola «no ai tagli all'università, senza se e senza ma», mandano in tilt il traffico di Jaguar e Mercedes, taxi neri e bus rossi a due piani.

«Move, don't get kettled" (muoviti, non farti intrappolare), era la parola d'ordine che girava sui siti del movimento studentesco alla vigilia della terza giornata di protesta contro i piani di riforma del governo Cameron, sostenuto da Conservatori e Liberaldemocratici che vuole triplicare il limite massimo delle rette universitarie, portandolo a 9.000 sterline. Per evitare di finire cordonati dai «bobbies», ed essere costretti per ore al freddo come successo mercoledì scorso, ieri gli studenti britannici hanno dato vita a «blocchi metropolitani», con proteste a macchia di leopardo nel centro della capitale, cogliendo di sorpresa la polizia.

Il tempo gelido e una bufera di neve che, a partire dalla mattinata, ha creato nuovamente disguidi ai trasporti cittadini, reduci da un grande sciopero lunedì scorso, ha limitato il numero di partecipanti a poche migliaia. Ma questo non è bastato a raffreddare l'entusiasmo degli studenti che tra le grida «Tory feccia» e «Libdem traditori», festeggiavano i segni di cedimento all'interno del governo, con i liberaldemocratici intenzionati ad astenersi nella votazione in parlamento. Piccoli scontri con la polizia si sono verificati verso le tre di pomeriggio, quando i diversi «serpentoni» che avevano paralizzato il traffico cittadino si sono radunati in Trafalgar Square. Una decina gli arresti.

Se tra i manifestanti c'erano tanti studenti delle venti università della capitale, come già successo la settimana scorsa, la maggioranza era composta da studenti delle superiori: ragazzini dai 14 ai 17 anni che temono di non potersi più permettere l'università se le rette venissero innalzate. «Io vorrei studiare psicologia» - spiega Alexandra una studentessa quattordicenne, avvolta in una sciarpa di lana per proteggersi dal vento gelido. «Ma dopo che i miei genitori hanno già pagato gli studi dei miei due fratelli maggiori, non so se riusciranno a pagare le mie rette universitarie. È un'ingiustizia verso i più giovani».

A preoccupare molti è anche la prevista eliminazione dell'Ema (Education Maintenance Allowance), un assegno per gli studenti delle scuole superiori. «Al momento mi danno 30 sterline a settimana» - spiega Robin un ragazzo di 16 anni di Southend. «Con quello mi pago il bus per andare a scuola e poco altro. E la sera devo lavorare come cameriere. Se mi togliessero anche quei soldi vorrebbe dire che dovrei lavorare anche il pomeriggio. Studiare per me diventerebbe davvero difficile». Oltre alle proteste della capitale, la giornata è stata segnata da cortei e sit-in decine di città universitarie del Regno Unito. A Cambridge, Edindurgo, Nottingham e Newcastle gli studenti hanno occupato aule e rettorati, mentre a Oxford in centinaia hanno invaso la sede dell'assemblea provinciale. Scontri con la polizia si sono registrati a Brighton, Bristol e Leeds.

Le proteste studentesche si intensificheranno nelle prossime settimane, quando il piano di riforma arriverà in parlamento, con i Liberal-democratici in grave imbarazzo, dopo aver rinnegato la promessa elettorale di opporsi all'aumento delle rette e di fronte a sondaggi che li danno in crollo al 9%. Ieri, parlando alle telecamere della Bbc, Vince Cable, vice-ministro LibDem all'economia, con delega all'università, ha dichiarato che potrebbe astenersi assieme ai colleghi di partito quando il provvedimento verrà votato in parlamento. L'astensione dei LibDem permetterebbe comunque l'approvazione della riforma dell'università. E certamente non basterà a salvare la faccia ad un partito che gli studenti universitari, che a maggio lo avevano votato in massa, accusano di essersi colorato a tradimento di blu conservatore.

sabato 27 novembre 2010

Irlanda: 100.000 in marcia contro il salvataggio lacrime e sangue

Tutti si chiedevano perché gli irlandesi non si ribellassero al tentativo di far pagare ai lavoratori le follie del sistema bancario. Ieri dall'isola verde smeraldo è arrivato il primo segnale di risveglio, quando in più di 100.000 (in un paese di 4 milioni e mezzo di persone) hanno marciato per le strade di Dublino per protestare contro il «piano di rigore» messo a punto dal governo di Brian Cowen come contropartita al prestito da 85 miliardi promesso dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca centrale europea (Bce).
La manifestazione, indetta dalla confederazione dei sindacati irlandesi (Ictu), ha costeggiato il fiume Liffey che attraversa la capitale, per arrivare davanti all'ufficio centrale delle poste in O' Connell Street, dove nel 1916 fu dichiarata l'indipendenza dell'Irlanda. Nel corteo, lavoratori, studenti, pensionati, uniti contro il piano di austerità da 15 miliardi del governo che prevede l'eliminazione di 25.000 posti di lavoro nel settore pubblico, tagli a sussidi per la disoccupazione e assegni familiari, con il rischio di ridurre il prodotto interno lordo del 4%. Il tutto per accontentare Fmi e Bce, pronte a fornire 50 miliardi per consolidare il debito pubblico e 35 miliardi per stabilizzare i bilanci delle grandi banche dell'isola, sull'orlo del fallimento a causa dei mutui spazzatura.

«C'è una via migliore e più giusta» rispetto a quella proposta dal governo, affermavano centinaiai di cartelli gialli agitati tra il risuonare delle cornamuse da una folla da cui sono piovuti insulti contro l'impopolare premier Cowen ed il ministro delle finanze Lenihan. Nonostante il freddo pungente, la manifestazione ha superato le previsioni della vigilia in un paese non abituato alla politica di piazza. Uno spezzone di circa 500 persone ha raggiunto il Dail, la camera dei deputati, dove ci sono state alcune scaramucce della polizia e un'immagine di Cowen è stata data alle fiamme.
«Diverse generazioni di irlandesi pagheranno le conseguenze del debito» contratto dal governo, ha dichiarato il presidente della Ictu Jack O' Connor, nel comizio finale in cui diversi rappresentanti dei sindacati sono stati fischiati dalla folla, per non aver fatto abbastanza contro la politica del governo. Il segretario David Begg ha paragonato il governo a Dick Turpin, il celebre bandito inglese del '700. «Almeno Turpin quando rubava si copriva il volto», ha ironizzato Begg.

Mentre i manifestanti inondavano le strade della capitale, Cowen era in trattative con una delegazione del Fmi e della Bce per ultimare i dettagli del piano di salvataggio. Stando a indiscrezioni, al megaprestito, che verrà presentato la prossima settimana, verrebbe applicato un tasso d'interesse di oltre il 6%, ben superiore al 5,5% previsto in partenza. Se così fosse sarebbe l'ennesima umiliazione per Cowen, la cui maggioranza al Dail si è ridotta a due deputati, dopo che venerdì il Sinn Fein ha vinto le elezioni suppletive a West Donegal.

martedì 23 novembre 2010

Il salvataggio da 90 miliardi abbatte il governo Cowen

DUBLINO. Ventiquattro ore. Tanto è passato tra la richiesta di un megaprestito fatta dal primo ministro irlandese Brian Cowen del Fianna Fail e l'implosione del suo impopolare governo. Dopo l'annuncio, fatto domenica notte, del lancio di un piano di salvataggio da 90 miliardi di euro, sponsorizzato dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca centrale europea, ieri sera il primo ministro, sotto pressione da parte degli alleati Verdi, è stato costretto a promettere lo scioglimento del parlamento dopo la discussione della finanziaria in parlamento il prossimo 7 Dicembre.

«Nell'interesse degli elettori non possiamo permetterci ritardi né dubbi sui passi necessari da intraprendere per assicurare il nostro futuro economico e finanziario» ha dichiarato Cowen nella serata ieri. Poi il primo ministro si è appellato a tutte le forze politiche nel chiedere l'approvazione della finanziaria, per «non arrecare ulteriori danni al paese». Ma ora anche la finanziaria da 4 miliardi di tagli, e l'annesso piano di aggiustamento da 15 miliardi, che verranno discussi il 7 dicembre rischiano di saltare, dopo alcune defezioni annunciate ieri da parte di alcuni deputati che sostenevano una maggioranza già molto risicata, mentre gli speculatori sono tornati all'attacco dei buoni del tesoro irlandesi.

L'annuncio di Cowen è arrivato dopo che nella prima mattinata di ieri i Verdi, che da quattro anni sono al governo con il Fianna Fail, avevano chiesto elezioni anticipate pur promettendo l'approvazione della finanziaria per «senso di responsabilità verso i cittadini irlandesi». «I cittadini si sentono ingannati e traditi» aveva affermato John Gormley, ministro dell'ambiente e leader del partito, decisivo per la maggioranza dell'esecutivo in parlamento denunciando di essere stato tenuto all'oscuro del piano di salvataggio. La crisi di governo è scatenata dopo che domenica notte il primo ministro Brian Cowen e il ministro delle finanze Lenihan avevano infine ammesso ufficialmente quello che tutti già sapevano. Il piano di salvataggio finanziaria si farà: per «garantire liquidità al sistema bancario» e «stabilizzare l'economia». Quanto alla cifra i due hanno solo lasciato intendere che sarà di poco inferiore a 100 miliardi sterline, molto i più dei 60 o 80 miliardi di cui si parlava solo la settimana scorsa. Subissati dalle domande dei giornalisti Cowen e Lenihan non hanno concesso nessuno scusa. «Mi spiace che le persone pensino che le ho ingannate - si è limitato ad affermare Lenihan -. Di sicuro io non le ho ingannate e nemmeno il governo lo ha fatto». Sulla stessa linea il primo ministro Cowen che ha risposto: «Non sono l'uomo nero che state cercando» a Vincent Browne dell'Irish Times che gli aveva chiesto se non si sentiva responsabile per aver «fottuto» il paese.
Ora tutta l'attenzione è focalizzata sul 7 dicembre, quando il governo presenterà in parlamento la finanziaria e l'annesso piano di aggiustamento quadriennale che il governo considera vitale per ristabilire la fiducia nei mercati finanziari. Ma al governo di Cowen che controllava solo 82 deputati contro i 79 dell'opposizione, potrebbero mancare i numeri dopo che ieri i deputati indipendenti Lowry e Healy-Rae, che sostenevano il governo hanno lasciato intendere che voteranno contro, e se - come tutti prevedono - il Fianna Fail perderà un altro deputato alle elezioni suppletive di giovedì prossimo a West Donegal.
Per l'Irlanda, in cui ieri sono esplose le proteste, ora si preannuncia un periodo politico di instabilità con gli speculatori finanziari che sono tornati ad attaccare i buoni del tesoro irlandese, schizzati verso l'alto dopo l'annuncio del piano di salvataggio e l'apertura della crisi di governo. Le elezioni previste per il prossimo gennaio potrebbero segnare un ritorno al governo dei laburisti, che ieri con il loro leader Eamon Gilmore hanno affermato che il governo «aveva ormai da tempo superato la data di scadenza».

«Salvano banche fallite, e frenano ogni ripresa» - Intervista con Kieran Allen

DUBLINO. Per l’Irlanda si prospetta un «terremoto politico» dopo il megaprestito concesso da Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca centrale europea. A prevederlo è il sociologo Kieran Allen, che già prima della crisi aveva denunciato i rischi della bolla immobiliare e della finanziarizzazione dell’economia nell’isola. «I cittadini irlandesi sono stati traditi per salvare il sistema bancario europeo, che è l’unica cosa che preoccupi la Banca centrale europea», afferma Allen. Che aggiunge: «Quello che sta succedendo in Irlanda deve servire da avvertimento a Portogallo, Spagna e Italia. Gli speculatori non si fermeranno qui».

90 miliardi di euro di prestito. Sono 20.000 euro per ogni cittadino irlandese, neonati compresi. È un debito sostenibile per l’Irlanda?

Non solo non è sostenibile ma non funzionerà. I cittadini irlandesi hanno già pagato 45 miliardi di euro, un terzo del Pil, per salvare le banche con il programma del governo. Questo piano di salvataggio aggiunge al conto 90 miliardi di euro, altri due terzi della ricchezza prodotta in un anno dal paese. L’Fmi e la Banca centrale europea in questo modo rendono più difficile la strada verso la ripresa, scaricando sulla collettività i debiti di banche destinate al fallimento.

Quali saranno le conseguenze di lungo termine di questa operazione?

In cambio del prestito, Fmi e Unione europea imporranno una politica restrittiva che non farà altro che peggiorare la situazione economica, con il rischio di scatenare una spirale negativa senza via d’uscita. Come successo durante la crisi degli anni ’60 e della fine anni ’80, ancora una volta il sistema capitalista irlandese si rifà sui lavoratori e condanna il paese all’emigrazione di massa. Per sapere cosa succederà all’Irlanda nei prossimi anni, basta guardare a Lituania e Lettonia, da cui la gente è fuggita dopo il lancio di piani di aggiustamento strutturale.

Con l’uscita dei Verdi dalla maggioranza le elezioni anticipate, previste a gennaio, sembrano inevitabili. Che succederà alla politica irlandese?

Quello che ci attende è un cambiamento epocale simile a quello che è successo in Italia con la fine della Prima repubblica. Il Fianna Fail, il partito di governo, ha dominato la politica irlandese per gli ultimi 60 anni, presentandosi come un amministratore oculato dell’economia. Ma dopo il disastro servito agli elettori saranno puniti pesantemente e rischiano di diventare un partitino sotto il 10%. Neppure bene andrà ai Verdi che si sono comportati in maniera assolutamente vigliacca, appoggiando tutte le scelte più impopolari del governo e abbandonando solo all’ultimo la nave che affonda.


È un’occasione per la sinistra per costruire un’alternativa economica al neoliberalismo made in Ireland?

Tutti prevedono che dopo le prossime elezioni, il Labour Party tornerà al governo, e probabilmente al suo interno la componente di sinistra, marginalizzata negli ultimi anni ne uscirà rafforzata. Ma temo che una volta al governo il Labour si comporterà come ha fatto il Pasok in Grecia. Si legherà mani e piedi al programma imposto dall’Fmi. Così questa rischia di essere un’occasione persa dalla sinistra irlandese per ripensare il nostro modello economico distrutto dal sistema bancario dei mutui spazzatura.

sabato 20 novembre 2010

Una generazione in fuga dalla crisi

«Prima venivano tutti qui, da Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa ed Europa dell'est. Ora il flusso ha preso il verso contrario. Gli immigrati se ne sono già tornati a casa e a seguirli in massa ora sono gli irlandesi disposti a fare qualsiasi lavoro». Albert ha ventun'anni e la scorsa settimana è stato licenziato in tronco insieme a dieci colleghi da un negozio della catena Laura Ashley, che vende arredamento e abbigliamento femminile, sulla opulenta Grafton Street nel centro di Dublino.

«Molti miei amici sono già partiti per l'estero - racconta -. Io me ne vado in Nuova Zelanda, ho già comprato il visto. Sono disposto a fare qualsiasi cosa. Gli irlandesi non si possono più permettere di scegliere il lavoro che gli piace».
In giro per la capitale e per le strade delle città e dei paesi dell'isola «verde smeraldo» di gente come Albert, che si prepara a lasciare un paese vittima della catastrofe economica provocata dalle banche dai mutui facili, ce ne sono a fiumi. Secondo uno studio condotto dall'Economic and social research institute (Esri), ogni mese 5.000 cittadini irlandesi abbandonano il paese per cercare lavoro all'estero. A fine 2010, 70.000 persone avranno lasciato l'Irlanda. Nel 2011 saranno almeno 50.000. Così, mentre gli effetti sociali della crisi diventano sempre più evidenti, sul paese del quadrifoglio incombe minaccioso uno spettro che ha da queste parti ha sempre accompagnato i periodi di povertà: l'emigrazione di massa.
Nel 2008 e nel 2009, dopo lo choc iniziale dell'esplosione della crisi delle banche e del settore immobiliare, ad abbandonare il paese erano soprattutto i lavoratori stranieri venuti in Irlanda durante il periodo delle vacche grasse. Secondo l'Esri 100.000 lavoratori stranieri, tra cui molti dell'Europa dell'Est, hanno abbandonato il paese nel biennio. Ma ora sono soprattutto gli irlandesi a fare la valigia, per evitare di andare ad allungare le fila dei disoccupati, che negli ultimi mesi hanno raggiunto quota 640.000 persone.
«Ormai per i giovani irlandesi ci sono solo due possibilità lasciare il paese o diventare disoccupati» afferma Gary Redmond, presidente del sindacato studentesco Union of Students (Usi). «Sembra di rivedere quello che succedeva durante i periodi di grande povertà, come alla fine degli anni '80». Uno studio condotto dall'organizzazione prevede che nei prossimi cinque anni 150.000 laureati abbandoneranno l'Irlanda. «Stiamo creando una generazione perduta. Il nostro paese ha speso tanti soldi per formare queste persone. Molte non torneranno mai a casa».
La fuga in massa dei lavoratori, e in particolare dei giovani da quel paese che fino a tre anni fa si fregiava del titolo di «tigre celtica» non è solo una fuga di cervelli, di laureati, ma anche una fuga di braccia, di tecnici e manovali. In partenza, verso i paesi del Commonwealth, dove l'economia va meglio, ci sono anche schiere di carpentieri, muratori, meccanici, saldatori, agenti immobiliari rimasti a secco, dopo che la bolla immobiliare è scoppiata, e più della metà delle imprese legate all'edilizia sono fallite.
«Molti miei amici che facevano i muratori se ne sono andati in Australia e Canada» racconta Mark, 23 anni, e un passato come lavoratore edile. «Io sono appena tornato dal Canada, dove sono stato alcuni mesi. Lavoravo in un cinema a staccare i biglietti, ma poi mi è venuta nostalgia. Sono sei mesi che cerco lavoro e non trovo niente. Mi sa che presto devo ripartire».
Il timore è che la fuga dei lavoratori e in particolare dei più giovani rallenti ulteriormente l'uscita dal disastro economico. «Molti se ne vanno dall'Irlanda con l'idea di trovare un lavoro temporaneo all'estero per qualche mese. E quando tornano hanno solo pochi euro messi da parte e vedono che nel frattempo il paese è peggiorato ulteriormente» afferma Karen, una studentessa di 19 anni.
Ma per molti non sembra esserci alternativa alla fuga. «Io gliel'ho detto a mio figlio di andarsene» afferma infuriato Rob, un taxista di 49 anni. «Ha 70.000 euro di debito con le banche e fa fatica a pagare. Vattene in Nuova Zelanda, gli ho detto. Lì in banchieri non ti trovano più al telefono. Così la smettono di chiederti perché non hai pagato l'ultima rata del mutuo».

mercoledì 17 novembre 2010

Londra non ci sta

«Possiamo essere per Cameron quello che la rivolta contro la poll-tax è stato per la Thatcher». Gli animi sono infiammati all’assemblea della rete «Education activist network», che riunisce studenti e professori in lotta contro i tagli. Tra i banchi dell’aula magna del King’s College, sulla centralissima Strand a Londra, gli applausi scrosciano calorosi ogni volta che un oratore fa quadrato nel difendere l’invasione della sede dei conservatori a Millbank di mercoledì scorso, mentre boati risuonano ogni volta che qualcuno pronuncia la parola «violenza».
La parola d’ordine è «unità». La linea: i violenti sono loro, freghiamocene della cattiva stampa. Il più cauto è Alan Whitaker, presidente del sindacato dei professori universitari, University and College Union (Ucu), che si limita a dire che lui i fatti di mercoledì scorso «non li condanna», fatta eccezione per l’estintore tirato dal tetto del palazzo. Decisamente più caldo Mark Bergfeld, consigliere nazionale del sindacato degli studenti, National Union of Students (Nus), afferma che i «veri vandali non sono quelli che hanno rotto un paio di finestre, ma quelli che siedono in parlamento o a Millbank e i Liberaldemocratici che hanno tradito le promesse».
Il grande assente è Aaron Porter, il presidente del sindacato studenti, che non si fa vedere da queste parti dopo aver definito in televisione l’occupazione di Millbank «l’azione vergognosa» di una «minoranza di facinorosi». I fischi della platea vanno a lui, accusato di voler far carriera nel partito laburista. A Downing Street che ha definito «irresponsabili» i docenti del Goldsmiths che in un comunicato avevano applaudito come «magnifici» gli eventi di mercoledì. E alla stampa di destra accusata di alimentare una caccia alle streghe contro gli studenti. Il pensiero vola agli studenti italiani, francesi e tedeschi in mobilitazione contro le politiche di tagli all’università, che ora non vengono più guardati con complesso d’inferiorità. «C’è uno spirito francese nell’aria» proclama uno studente.
Dopo la grande manifestazione contro i tagli all’università del 10 di Novembre, culminata nell’occupazione e nella devastazione della sede del partito Conservatore, a Millbank sulle sponde del Tamigi, il movimento studentesco britannico non si ferma. Mentre in Italia gli studenti ultimavano i preparativi per la grande manifestazione di oggi contro la riforma Gelmini, gli atenei della Gran Bretagna hanno visto decine di assemblee per discutere i prossimi passi della mobilitazione contro i tagli all’università.
La protesta riesploderà mercoledì 24 Novembre, quando la riforma sarà in discussione in parlamento. Gli attivisti vogliono fermare il provvedimento che prevede l’eliminazione completa dei sussidi statali per la didattica universitaria fatta eccezione per le materie scientifiche e tecnologiche, ed un aumento delle tasse universitarie fino a 9.000 sterline all’anno. Nella mattinata studenti e professori abbandoneranno le classi dando vita a scioperi selvaggi ed occupazioni. Poi alle due di pomeriggio partirà un assedio contro la sede del partito Liberaldemocratico, a due passi da Westmintster, per far pagare il «tradimento» al partito di Clegg, che aveva promesso di opporsi agli aumenti delle rette per l’università. In vista della protesta del 24 nei campus inglesi sono cominciate una serie di occupazioni, come successo nei giorni scorsoi alla Sussex University e alla Manchester University, che si prevede moltiplicheranno nei prossimi giorni.
Per studenti come Sean, studente di storia al Goldsmiths il ritrovato antagonismo degli studenti «è una sorpresa gradita, una dimostrazione che gli studenti non si faranno mettere i piedi in testa». Ma non tutti sono d’accordo. «Le azioni di una minoranza di studenti hanno oscurato quelle di molte persone che erano alla loro prima manifestazione» afferma Luka, studentessa di antropologia alla London Schools of Economics. «Molti studenti sono irritati e confusi per quello che è successo mercoledì scorso. Sarà difficile ripetere quello spirito di entusiasmo».
Per evitare l’isolamento, i leader del movimento puntano a un’alleanza che comprenda i sindacati dei pompieri e dei lavoratori della metropolitana che hanno organizzato grandi proteste nelle ultime settimane, ed i sindacati dei lavoratori pubblici. Mark Serwotka segretario del sindacato Pcs, che annovera 320.000 iscritti tra gli impiegati pubblici ha firmato l’appello per l’unità e si è detto disponibile a proteste congiunte. Dichiarazioni di sostegno sono giunte anche dal sindacato degli insegnanti Nut, e si spera che l’alleanza si allarghi progressivamente a tutti i settori colpiti dai tagli. Tanto che in alcune assemblee qualcuno ha pure azzardato un’improbabile alleanza con i sindacati di polizia. In fondo «non verranno anche loro decimati dai tagli?».

venerdì 12 novembre 2010

Cameron se la prende con i disoccupati

Mentre gli operai sono al lavoro per sostituire le vetrine del grattacielo di Millbank, sede dei Tory, distrutte mercoledì da centinaia di studenti infuriati per i tagli all'università, il governo Cameron procede nella sua campagna di lacrime e sangue. Questa volta l'accetta cala sul welfare, per cui l'esecutivo liberal-conservatore ha in serbo una «riforma storica», fatta di una stretta al bilancio per la spesa sociale e di punizioni esemplari contro i disoccupati «scrocconi».

Il piano presentato ieri dal ministro del welfare Ian Duncan Smith ai Commons, promette un futuro da incubo per i 5 milioni di britannici che ricevono sussidi di diverso tipo, da quelli per la disoccupazione, a quelli per malattia e invalidità. La riforma che dovrebbe entrare in vigore nel 2013, prevede innanzitutto di accorpare i diversi sussidi al momento presenti in un unico «credito universale». Stando al governo questa misura permetterebbe di evitare errori amministrativi e truffe da parte dei cittadini.
Ian Duncan Smith si è detto convinto che molti disoccupati continuino ad esserlo perché non gli conviene lavorare, grazie ai lauti sussidi che ricevono. «Voglio recuperare queste persone», ha affermato il ministro, promettendo che d'ora in poi «converrà sempre di più lavorare». Per eliminare la «trappola dei sussidi», che frenerebbe quel milione e mezzo di britannici che non hanno mai lavorato negli ultimi 9 anni, Ian Duncan Smith prevede punizioni draconiane. Dopo due dinieghi ad offerte di lavoro o a richieste di contribuire a lavori per la comunità (simili ai
nostri lavori socialmente utili), ai disoccupati verranno sospesi i sussidi per sei mesi. E se diranno no una terza volta l'assegno di disoccupazione verrà cancellato per tre anni.
Lo spirito della riforma del welfare proposta da Ian Duncan Smith suona fortemente punitivo in tempi di disoccupazione alle stelle. Ma il piano del ministro del welfare si sposa alla perfezione con la campagna di propaganda lanciata negli ultimi mesi dal governo contro i «poveri immeritevoli». «Scrocconi» che vengono oramai additati dalla destra come i veri responsabili della crisi economica e del dissesto delle finanze pubbliche. Più degli «avidi banchieri» della City, contro cui fino a pochi mesi fa si concentrava l'odio popolare.
Con questa riforma il governo punta a risparmiare a regime 5 miliardi di sterline. Ma per le organizzazioni non-governativei risparmi in bilancio andranno a scapito delle famiglie più deboli, che spesso vivono in aree in cui è praticamente impossibile trovare lavoro. Per Kate Wavering, direttrice della campagna contro la povertà della Ong Oxfam «rimuovere i sussidi e lasciare le persone senza reddito causerà forti sofferenze per loro e per le loro famiglie. La maggioranza delle persone che vivono di sussidi desiderano lavorare, e punirle come se fossero criminali non
è il modo giusto per trattarli».

giovedì 11 novembre 2010

"Education cuts...?" 50mila studenti londinesi assaltano la Millbank Tower

Vetrine che cadono in frantumi, sotto i colpi di sassi, bastoni, e calci, con i cocci che finiscono sull'asfalto illuminati dal bagliore arancione dei fumogeni e dalle fiamme di un falò alimentato da cartelli e striscioni. Un ostacolo che si infrange sotto la pressione di una folla infuriata, che si fa largo tra poliziotti sguarniti e impauriti e invade l'entrata dell'edificio lanciando grida di gioia e improvvisando danze scalmanate tra poltrone e schermi a cristalli liquidi. Non siamo ai piedi dell'Acropoli, nell'Atene in stato di sommossa permanente, ma a Londra, sulle algide sponde del Tamigi, all'entrata del cupo grattacielo di Millbank, sede del Partito conservatore al governo da poco meno di un anno. È contro questo simbolo della politica di austerità, che migliaia di studenti britannici si sono scagliati ieri pomeriggio, al termine di una grande manifestazione contro i tagli all'università che ha visto la partecipazione di almeno 50 mila persone.

In conclusione di una giornata storica, e una mobilitazione con pochi precedenti in un paese in cui il movimento studentesco è stato tradizionalmente più debole di quello del continente, un gruppo di alcune migliaia di manifestanti ha circondato la sede dei Tory. In duecento sono riusciti ad occupare l'atrio, e una trentina si è inerpicata fino al tetto del palazzo da cui hanno calato striscioni contro il programma di tagli all'università. Solo dopo quattro ore reparti di agenti anti-sommossa sono riusciti a riprendere il controllo della situazione sgomberando l'edificio. In serata la polizia conterà una ventina di feriti tra manifestanti e agenti.

La manifestazione partita a mezzogiorno di fronte a Downing Street, era stata indetta dalla Ucu (University and College Union), il sindacato dei professori universitari, e dalla Nus (National Union of Students), il sindacato unitario degli studenti. Obiettivo: fermare il progetto di tagli da oltre 3 miliardi di sterline al sistema universitario britannico e il piano di aumento delle tasse per gli studenti per cui il governo di coalizione di Conservatori e Liberaldemocratici vuole innalzare il limite massimo a quota 9 mila sterline all'anno.

Nel corteo che passa davanti alle sedi del potere di Wesminster, tra pupazzi di avvoltoi giganti, e volti insanguinati stile Halloween, impazzano gli slogan contro i Tory «schifosi» e contro Clegg il leader dei liberaldemocratici bollato come «traditore». Sally una studentessa ventenne dell'università di Nottingham brandisce un cartello che reca una foto dell'attuale vice-primo ministro libdem quando alla vigilia delle elezioni firmò la promessa che si sarebbe opposto all'aumento delle tasse universitarie. «Aveva promesso di essere diverso. Si è dimostrato bugiardo come gli altri politici se non peggio». Sara, una studentessa al Camberwell College of Arts, è venuta alla manifestazione per protestare contro la decisione di tagliare completamente i fondi alla didattica per le materie umanistiche e sociali - «chi l'ha detto che il paese ha bisogno solo di ingegneri e scienziati?».

A fianco degli studenti molti professori, che rischiano di perdere il posto di lavoro, a causa del piano di riforma. Per Kirsten che sta finendo il dottorato in studi culturali al Goldsmiths College «a pagare più di tutti saranno i giovani ricercatori. Dopo la fatica del dottorato rischio di trovarmi senza lavoro. Stanno trasformando l'educazione universitaria in un grande McDonald».

Gli scontri con la polizia cominciano quando verso le due in duecento valicano il recinto del parlamento, e inscenano un sit-in ai piedi del Big Ben. La polizia che aveva preso sotto gamba la manifestazione, come ammesso in serata dal direttore di Scotland Yard Paul Stephenson, fa fatica a tenerli a bada. Poi verso le due e mezza circa diecimila persone riescono a raggiungere il grattacielo di Millbank dove si trova la sede dei Tory. Né il servizio d'ordine della manifestazione, né i pochi poliziotti messi a guardia dell'edificio riescono ad evitare l'occupazione da parte del blocco più militante del corteo, da cui in serata si dissocieranno gli organizzatori della protesta.

Il successo della manifestazione di ieri è una pessima notizia per Cameron che pure in Cina, dove si trova in visita ufficiale, ha dovuto rispondere a critiche contro il piano di riforma dell'università. I liberaldemocratici, la cui sede è stata presa di mira da alcuni manifestanti si trovano in grandissimo imbarazzo dopo il voltafaccia nei confronti degli studenti. Una ventina di parlamentari libdem hanno annunciato che voteranno contro il piano di riforma quando verrà discusso ai Commons a fine mese. E se il fronte del no dentro i libdem guadagnasse nuovi aderenti per la coalizione Lib-Con potrebbe essere una sconfitta pesantissima e forse l'inizio della fine.

giovedì 21 ottobre 2010

Cameron taglia tutto

Dimenticatevi di Margaret Thatcher, l'ex premier tormento dei lavoratori pubblici, la cui accetta colpiva tutto quanto puzzava di Stato. I tagli alla spesa pubblica presentati ieri dal suo erede spirituale, il cancelliere dello scacchiere George Osborne, sono in termini percentuali più del doppio rispetto a quelli che trent'anni fa contribuirono a rendere la Lady di ferro il simbolo della destra neoliberale e dello «stringiamo la cinghia». E a dispetto della retorica del «conservatorismo compassionevole» sfoggiata dall'esecutivo a rimetterci saranno soprattutto le categorie più deboli: anziani, disoccupati e disabili.
L'attesa «revisione della spesa» (Spending Review), presentata ieri da Osborne alla Camera dei Comuni, tra i mugugni dei parlamentari laburisti, è di fatto la stangata più pesante dalla fine della Seconda guerra mondiale. I tagli, spalmati sui prossimi 5 anni, ammontano a un totale di 83 miliardi. Un piano di lacrime e sangue, quello presentato dall'esecutivo di coalizione Liberal-Conservatore, che fa impallidire le stangate varate nei mesi scorsi in Francia e Germania. L'obiettivo: azzerare, entro la fine del 2014, il maggior deficit a livello continentale, ed evitare che il debito pubblico tocchi quota 100% del PIL, rischiando però che il paese venga sprofondato nella recessione.
La principale vittima del piano di tagli è l'assistenza sociale, da cui, a sorpresa, verranno tolti 7 miliardi in più rispetto agli 11 miliardi annunciati in precedenza. L'età pensionabile verrà portata da 65 a 66 anni entro il 2020, con un risparmio di 5 miliardi di sterline all'anno. Diversi contributi creati durante il decennio Labour per aiutare disabili, anziani, ammalati e madri single, verranno ridotti o eliminati. I sussidi destinati alle famiglie più povere, tra cui quello per la casa, verranno tagliati drasticamente. Una scelta strategica, quella di colpire i più deboli, che contrasta palesemente con la promessa fatta più volte dal governo guidato da David Cameron.
L'assalto frontale alla spesa per l'assistenza sociale ha consentito al cancelliere di presentarsi ai Commons vantando una riduzione dei tagli previsti al bilancio dei diversi ministeri, portati al 19% rispetto al 25% di cui si parlava nei giorni scorsi. Ma questo cambio di programma non basterà a salvare 490.000 posti di lavoro, che stando ai dati presentati dallo stesso esecutivo, verranno eliminati nel settore pubblico nei prossimi 5 anni.
Se il servizio sanitario nazionale e la scuola saranno relativamente risparmiati dall'accetta di Osborne, a soffrire saranno soprattutto i lavoratori dei ministeri, dell'università e gli impiegati degli enti locali per cui si prevedono tagli tra il 30% e il 25%. Circa 11.000 poliziotti potrebbero perdere il posto di lavoro come conseguenza di una riduzione del 25% ai fondi del ministero dell'interno. Meno colpita la spesa militare che con un taglio dell'8% vedrà comunque l'esercito di Sua Maestà perdere caccia, carrarmati e 7.500 soldati.
«Oggi è il giorno in cui la Gran Bretagna fa un passo indietro dal precipizio, il giorno in cui affrontiamo i conti di un decennio di debiti» ha dichiarato Osborne che ha sostenuto che i tagli sono «modesti» e che il governo si darà da fare per «trovare un posto di lavoro agli impiegati pubblici che verranno licenziati». «È una scommessa irresponsabile con le vite dei cittadini» ha replicato il cancelliere ombra laburista Alan Johnson. «Questo piano metterà a rischio la debole ripresa dell'economia britannica e colpirà le famiglie invece delle banche che hanno causato la crisi».

domenica 26 settembre 2010

LABOUR Il 40enne Miliband, sostenuto dai sindacati, eletto segretario

LONDRA. Dei due fratelli Miliband alla fine ha prevalso Ed: il più giovane, il più empatico, il più progressista dei due figli d'arte di Ralph Miliband, teorico marxista, attivista pacifista, tra i fondatori della New Left Review. Con una imprevista rimonta, ed una vittoria giunta alla quarta tornata di votazioni, il primo congresso del Labour dopo la sconfitta del maggio scorso ha incoronato l'ex sottosegretario al cambiamento climatico come successore di Gordon Brown alla guida del partito. Sconfitto il fratello David, di posizioni piu centriste, ex ministro degli esteri, considerato delfino di Tony Blair e dato come grande favorito all'inizio.

Accettando l'incarico di fronte a centinaia di delegati laburisti nel centro conferenze di Manchester, Ed ha promesso di cambiare rotta per tornare a vincere dopo 13 anni di governo. Dopo aver abbracciato ed omaggiato il fratello, il nuovo leader ha ammesso che il partito ha perso la fiducia dell'elettorato e che la strada è in salita. «So che dobbiamo cambiare: oggi una nuova generazione si fa in carico il Partito laburista e raccoglie questo appello al cambiamento», ha gridato con la sua voce un po' gracchiante. Poi ha promesso un ritorno agli obiettivi sociali del partito affermando di volere lottare «per la maggioranza dei britannici che lavora sodo, che rispetta le regole e vuole una Gran Bretagna meno divisa e più prospera», frecciata alla City che ha messo il paese in ginocchio.

Il successore di Gordon Brown, che lo aveva portato nel suo governo, è un uomo di 40 anni con l'aspetto da eterno giovanotto ed i modi da ragazzo di buona famiglia preoccupato per le classi piu deboli. Certo non si tratta di un vulcano di carisma, né di una figura di alta caratura intellettuale. Tuttavia il suo messaggio obamiano di cambiamento e la promessa di un nuovo inizio sembrano aver ben interpretato gli umori di una base che vuole tornare ai valori tradizionali di difesa dei lavoratori dopo la svolta centrista ed il flirt con il mondo del business degli anni blairiani del New Labour.

A favore di Ed ha anche giocato il fatto di potersi presentare come un «uomo nuovo» rispetto al fratello più machiavellico e navigato. Ed Miliband è reduce dalla sua prima legislatura e ha guadagnato fama di politico onesto. Ha la stima degli ecologisti per essere stato uno dei principali sostenitori della politica di radicale riduzione dei gas serra portata avanti dai goveri Blair e Brown, e per l'impegno speso (inutilmente) per arrivare a un accordo globale sul clima al vertice di Copenhagen di dicembre.

Ma a far diventare Ed Miliband successore di Gordon Brown sono stati soprattutto i sindacati che hanno fatto confluire in massa i loro voti su di lui. Il fratello David che pure godeva dell'appoggio della maggior parte dei parlamentari e delle sezioni locali del partito ha avuto l'appoggio solo di 2 sindacati minori. Sulla scorta del sostegno sindacale e dei settori più «movimentisti» del partito, si prevede che ora Ed andrà all'attacco della politica di riduzione del deficit del governo di coalizione liberal-conservatore guidato da David Cameron che sta mettendo a repentaglio diversi servizi pubblici e che rischia di aumentare i disoccupati.

L'elezione di Ed Miliband alla guida del partito giunge all'indomani della nomina dell'ex sindaco di Londra Ken Livingstone, «Ken il rosso» per le sue posizioni socialisti, come futuro sfidante di Boris Johnson, il conservatore che gli è succeduto 2 anni fa. Le vittorie di Livingstone e Miliband, sembrano suggerire un seppur timido ritorno verso la sponda sinistra dell'agone politico, anche per capitalizzare sul dissenso dei lavoratori rispetto alla politica economica del governo Cameron. Così se il New Labour guardava alle classi medie e alla «Middle Britannia», ora il partito si rende conto di doversi riguadagnare la fiducia delle classi popolari, disilluse dalla svolta centrista del partito. Come Ed Miliband ha ripetuto più volte durante la sua campagna per la guida del Labour, «Non possiamo più considerare i lavoratori a basso reddito come nostri elettori automatici. Sono loro che abbiamo perduto e sono loro che dobbiamo recuperare».

venerdì 10 settembre 2010

Kashmir: la Rivolta dei Ragazzi - Intervista con Irene Panozzo su Radio3Mondo

martedì 31 agosto 2010

La rivolta dei «boys», i figli del conflitto

Una famiglia di Pampore, centro del commercio di zafferano nel settentrionale stato indiano di Jammu e Kashmir, è riunita davanti alla tv dove va in onda l'ennesimo musical di Bollywood. E' la scena serale comune a milioni di case indiane, da Calcutta a Bombay, dal meridionale Tamil Nadu alle montagne dell'Himalaya. Qui però alla spensierata musica «filmi» si sovrappongono presto le grida di un] corteo che protesta per la morte di un manifestante ucciso dai soldati indiani. Allo slogan azadi (libertà) Zurbaid, il figlio più giovane, 13 anni, i capelli corti ben pettinati e una t-shirt verde Adidas, si alza di scatto ed esce di casa, senza uno sguardo. Il padre scuote la testa: «Non c'è niente da fare. Questi ragazzi non ci stanno a sentire», dice rassegnato: «They are fearless», non hanno paura di niente, «è impossibile fermare i boys».

Ormai Kashmir tutti li chiamano così, i boys: sono i ragazzini che tirano le pietre, protagonisti di quell'intifada di massa che questa estate è diventata la principale forma di protesta del movimento separatista, ennesima metamorfosi della rivolta cominciata nel 1989 e in cui sono morti ormai 70.000 kashmiri. I boys sono teenagers come Zurbaid, dai 10 ai 18 anni, ma anche bambini di 7, 8, 9 anni. Li vedi radunarsi a nugoli nelle viuzze dei villaggi di montagna o nelle stradine della città vecchia di Srinagar, capitale estiva dello stato di Jammu e Kashmir, per poi uscire in forza sulle strade principali con sassaiole improvvise. Scagliano pietre contro i muri delle caserme, le finestre degli edifici del governo, i sacchi di sabbia dei bunker piazzati a ogni incrocio e gli scudi di bambù dei soldati paramilitari indiani. Pochi minuti e arrivano le divise khaki della Crpf (Central Reserve Police Force) che per disperdere i boys sparano proiettili di gomma, gas lacrimogeni e raffiche di Ak47. Spesso un ragazzo rimane a terra in una pozza di sangue. Alla notizia di morti e feriti i boys si ributtano per strada a sfogare la loro rabbia con nuovi lanci di pietre. I soldati rispondono sparando senza troppi scrupoli, certi della protezione delle leggi speciali. Ogni giorno si aggiungono al conto nuovi morti e feriti che innescano nuove proteste, un circolo vizioso di cui non si vede la fine.

Soldati contro ragazzini

A due mesi e mezzo dall'inizio di questa ondata di proteste i morti sono 64, tutti civili. Oltre la metà dei caduti sono minorenni, tra cui anche tre bambini di 7 anni. A innescare l'intifada di quest'estate è stata del resto proprio l'uccisione di un ragazzo, Tufail Ahmed Mattoo, 17 anni, morto l'11 giugno. Passava accanto a una protesta pacifica contro un episodio di brutalità dell'esercito, tornando a casa dopo una lezione privata, quando è stato colpito in testa da un proiettile di gas lacrimogeno sparato ad alzo zero. Tufail è diventato così il primo di una serie di vittime minorenni: ragazzini come Faizan Rafiq, 13 anni annegato il 17 luglio dopo essere stato stordito dai soldati e poi buttato nel fiume Jhelum che attraversa Srinagar. O bambini come Sameer Ahmad Rah, 7 anni, morto il 2 agosto e diventato il simbolo della brutalità dello stato. Era uscito di casa per comprare della frutta quando è stato inseguito da cani randagi. Vedendolo correre i soldati lo hanno circondato e si sono accaniti su di lui, spezzandogli diverse costole prima di spingergli un bastone in fondo alla gola davanti a passanti terrorizzati.
L'impressionante numero di minorenni uccisi e mutilati dalle forze di sicurezza indiane in quest'estate di sangue è la prova di quello che vanno ripetendo tanti kashmiri adulti, increduli di fronte alla mattanza: che questo conflitto si sta transformando in un attacco ai figli della guerra civile, la generazione di kashmiri nata dopo il 1989. Una generazione cresciuta sotto l'occupazione militare, la cui vita quotidiana è stata segnata dall'ingombrante presenza di 700.000 soldati, ritmata da uccisioni indiscriminate, da storie di stupri e torture, il lutto per la morte di padri e parenti e l'umiliazione delle perquisizioni continue. Questi ragazzi non si sono abituati a vivere sotto il coprifuoco. Disillusi dal fallimento di ogni promessa di risoluzione del conflitto, usano le pietre come lettere di protesta indirizzate a New Delhi, per far sapere che in Kashmir non regna la pace.
Di fronte a ragazzini infuriati, la classe dirigente indiana e kashmira sembra incapace di fornire qualsiasi risposta che non esca dalla canna di un fucile. «Non so bene che cosa sperino di ottenere tirando pietre», ha affermato qualche tempo fa il chief minister (capo del governo) dello stato di Jammu e Kashmir Omar Abdullah, erede della dinastia che da nazionalista kashmira si è trasformata in rappresentante del partito del Congress, quindi dell'attuale governo centrale di New Delhi.

Una generazione senza leader

Farooq ha 17 anni, i capelli alla Ronaldinho sotto una cuffia da rapper, assomiglia ai ragazzi maghrebini, turchi o pakistani che affollano i quartieri popolari di Parigi, Londra e Berlino. Passa le giornate chiuso in casa per il coprifuoco facendo zapping. Poi la sera si incontra con gli amici in centro a Srinagar: va «a tirare le pietre», come ammette senza darsi troppe arie. A volte quando la situazione si fa calda non torna per giorni, provocando l'angoscia della madre, Salima, una delle tante vedove della guerra civile. Il marito, che si era unito alla lotta armata, è scomparso dieci anni fa. Di lui rimane una foto sovraesposta appesa nella piccola stanza che funge da soggiorno e camera da letto. Se i padri, che negli anni '90 hanno imbracciato le armi, sono stati sconfitti militarmente, uccisi, incarcerati o scomparsi, i loro figli sono tutt'altro che rassegnati. «Uccidono una persona in una famiglia e pensano di metterla a tacere», dice Salima. «Ma è l'opposto. Per ogni ucciso due persone si ribellanno».
Oggi i boys non sembrano disposti ad ascoltare i richiami alla calma. «I ragazzini sono incontrollabili», ripetono adulti e anziani. Non sembra avere presa neppure la guida dei due principali leader della Hurriyat conference, il «cartello» delle forze politiche e sociali kashmire che chiedono l'indipendenza, il moderato Mirvaiz Umar Farooq e il radicale Syed Ali Shah Geelani: alcuni boys li tacciano di «venduti». Come tanti altri leader nel passato, primo fra tutti Sheik Abdullah, nonno dell'attuale chief minister, a suo tempo riconosciuto e stimati leader dei kashmiri (fu lui a optare per New Delhi in un quadro di autonomia nel 1947, quando dal vecchio impero coloniale nascevano le due nazioni separate di india e Pakistan): la cui tomba è costantemente presidiata da quattro soldati per evitare profanazioni. «I boys non hanno leader»: lo dicono gli oppositori del movimento per certificarne la follia e giustificarne la repressione, ma lo sostengono gli stessi ragazzi, che ci tengono a non farsi dipingere come le pedine di qualche grande vecchio o come manovalanza dello stato pakistano, pagati 200 rupie al giorno per tirare pietre come sostiene la stampa nazionalista indiana che dietro ogni protesta vede la longa manus dell'Isi, il famigerato servizio segreto di Islamabad.
Una persona per la verità c'è che gode della fiducia di boys, e che la rivolta degli ultimi mesi sta innalzando a nuovo leader del movimento separatista. E' Masarat Allam, leader della Muslim League del Kashmir e vice del venerando Geelani alla guida della fazione radicale della Hurriyat: con i suoi 39 anni non è certo un teenager, ma che con la sua intransigenza si è guadagnato il rispetto dei ragazzini tirapietre. Se il calendario di protesta ufficiale (non è del tutto vero che il movimento non ha riferimenti) è ancora redatto da Geelani, stando ai boys è Allam dal suo rifugio segreto a muovere le fila dell'insurrezione. Ha coniato lui lo slogan «Go India, go back», diventato la parola d'ordine di questo movimento. Dietro la sua lunga barba da ligio musulmano si sta assembrando una generazione intransigente che chiede azadi, libertà.
Ma se chiedi ai boys che cosa intendano esattamente per «azadi» non parlano di indipendenza, autonomia, auto-governo e di altre possibili soluzioni negoziali. «Quello che vogliamo è semplice» dice Farooq: «Che i soldati se ne vadano. Vogliamo vivere senza dover spiegare a un soldato dove stai andando ogni volta che esci di casa, senza essere umiliati. Vogliamo vivere senza paura». Lo dice guardando i due fratelli minori giocare a cricket con una palla di plastica e un asse di legno. E' cosi che tanti boys hanno imparato a prendere la mira. La prossima estate potrebbe essere il loro turno.

Zahid Rafiq: «Sono pacifista, ma li capisco»

«Sono un pacifista, però ora vi spiego perché vorrei andare a tirare le pietre». Così esordisce Zahid Rafiq in un articolo su Tehelka, il settimanale indiano che negli ultimi anni si è affermato come un'autorevole voce critica. Rafiq, 26 anni, è un giornalista kashmiro che sa catturare in profondità la psicologia del conflitto in quella valle percorsa da una rivolta ormai più che ventennale: la rabbia dei ragazzi che tirano le pietre, l'atteggiamento supponente dell'establishment indiano «che si comporta come uno struzzo, nasconde la testa nella sabbia e pensa che non ci sia alcun problema».

Dopo la fine dell'insurrezione armata nel 2003 molti dicevano che i kashmiri si erano rassegnati a essere parte dell'India. Perché il conflitto sta riesplodendo?
Il sentimento di libertà non si è mai spento, neppure durante i quattro anni di relativa calma dopo il 2003. Non può essere schiacciato nel sangue né comprato con i soldi di New Delhi. Il fatto è dopo la vittoria militare delle forze di sicurezza indiane sui guerriglieri il movimento è stato costretto a trasformarsi passando dai fucili alle pietre. E' stato un passaggio complesso che non poteva avvenire in una notte..

Come è cambiato il conflitto in Kashmir rispetto agli anni '90?
Il conflitto in Kashmir è diventato una guerra in cui una parte decide di essere diseguale. Quando un ragazzo prende una pietra e cammina verso un soldato sa che la pietra può soltanto ferire superficialmente il soldato, ma sa pure che se il soldato gli spara lui probabilmente morirà oppure finirà mutilato. Scegliendo la pietra invece del fucile il ragazzo si pone su un piano morale più alto, dove lo scontro non ha più a che fare con la forza fisica ma con la forza morale.

Oltre ai ragazzini, si vedono anche molte donne scendere in piazza e tirare le pietre. Che significa?
Il governo aveva chiesto alle donne di andare alle proteste per fermare i propri figli. Loro sono andate a tirare le pietre. Per le donne kashmire è un atto catartico dopo vent'anni di silenzio, passati vedendo il fratello portato via dalla polizia, il marito maltrattato dai soldati, i funerali passare sotto la finestra. Le donne non potevano essere parte dell'insurrezione armata ma ora sono uscite allo scoperto.

Lo stato indiano risponde alle pietre con gli stessi mezzi con cui ha stroncato i ribelli armati. Perchè una risposta tanto repressiva?
Lo stato indiano continua a voler curare la malattia trattando i sintomi. Non vuole accettare il fatto che la stragrande maggioranza dei kashmiri desidera l'indipendenza. Il dramma per loro è che questo movimento è più difficile da fronteggiare che un'insurrezione armata. Gli indiani preferirebbero risolvere la situazione usando i 700.000 soldati stanziati in Kashmir. Vogliono evitare a tutti i costi manifestazioni politiche perché mettono a nudo il fatto che i separatisti non sono terroristi e hanno richieste legittime.

Si parla molto del rischio di una nuova insurrezione armata di impronta jihadista. Cosa ne pensa?
Dopo l'esperienza dell'insurrezione armata in Kashmir nessuno vuole imbracciare un fucile. Al momento i fondamentalisti musulmani non sono benvenuti in Kashmir, dove non è ricordato con piacere l'arrivo in massa di guerriglieri stranieri durante gli anni '90. Tuttavia con tutti i ragazzini che vengono uccisi uno può immaginare cosa passi per la testa ai loro fratelli, cugini, vicini di casa. Se il massacro continua c'è il rischio che i jihadisti trovino di nuovo spazio e che il Kashmir torni ad essere terreno di battaglia dai fondamentalisti musulmani dopo che gli americani si saranno ritirati dall'Afganistan. E sarebbe una tragedia, sia per l'India che per il Kashmir. I kashmiri si troverebbero a combattere una guerra che non gli appartiene. Al primo colpo sparato contro i soldati indiani questo movimento sarà morto.

martedì 29 giugno 2010

La soluzione alla crisi? L'uomo artigiano

“Sono convinto che la crisi riesploderà presto, perché le cause
strutturali della crisi non sono state affrontate”. Richard ,
studioso del nuovo capitalismo e del lavoro flessibile, nato a Chicago
nel 1943 e professore emerito di sociologia alla London School of
Economics, sostiene che la crisi ha portato ad un aggravamento della
situazione di incertezza e del lavoro flessibile portata dal
neoliberismo. In questa situazione la sinistra è preda della
moderazione proprio nel momento in cui servirebbero soluzioni radicali
come la nazionalizzazione del sistema bancario. Secondo , di cui
in Italia sono stati pubblicati la Cultura del Nuovo Capitalismo,
L’Uomo Flessibile e per ultimo L’Uomo Artigiano, la via di uscita dalla
crisi potrebbe essere un ritorno al manifatturiero, fronte su cui
l’economia italiana può fornire un modello all’economia europea.

*Governi e imprenditori sostengono che siamo fuori dalla crisi. Eppure
le economie stentano a riprendersi e la disoccupazione continua ad
aumentare. Dobbiamo credere a queste sirene?*

La maggioranza dei governi europei ha introdotto misure leggere per
limitare il capitale finanziario, ma non hanno compreso che questa e’
un’attività che è inerentemente distruttiva, che rovina compagnie,
che distrugge posti di lavoro, e non si può semplicemente metterle i
freni. Anche se l’Europa si trascinasse avanti per tre o quattro anni
la crisi succedera’ nuovamente. E penso che la prossima volta l’Europa
avra’ ancora meno margini per riprendersi. Siamo a rischio di
diventare quello che l’America Latina era durante gli anni ’60, un
continente con molte risorse ma assolutamente auto-distruttivo.

*I lavoratori flessibili che tu descrivi nei tuoi libri sono state le
vittime designate di questa crisi, i primi ad essere sacrificati dai
licenziamenti. Siamo di fronte ad una crisi strutturale del modello
del lavoro flessibile?*

Certamente i lavoratori flessibili, quelli che erano l’avanguardia del
nuovo capitalismo, lavoratori nelle industrie hi-tech, industrie
culturali e nella finanza, hanno sofferto in maniera particolare le
conseguenze della crisi. Ma quello che stiamo vedendo è’ piuttosto
un’estremizzazone del sistema di lavoro flessibile. Da un punto di
vista strutturale la cosa piu’ impressionante della crisi è che ha
espanso l’area di lavoro part-time. E quel lavoro part-time è stato
occupato da lavoratori che in precedenza erano occupati a tempo pieno.
Si tratta in particolare lavori nel settore dei servizi, nei
supermercati, nei grandi magazzini, ma pure nei giornali e nelle
industrie culturali.

*Le altre grandi vittime della crisi sono i giovani, che oggi più che
mai scontano l’inefficienza del sistema.*

Stiamo entrando un decennio perduto per le persone giovani, ed avremo
una generazione perduta. Il Giappone ha avuto una prefigurazione
durante gli anni ’90 di quello che sarebbe successo 12 o 15 anni più
tardi in occidente. La finanza che collassa. Persone qualificate che
non trovano lavorare per 6 o 8 anni. Persone che non torneranno mai
piu’ lavorare. Persone che hanno perso un decennio della loro vita. La
generazione che e’venuta dopo ha visto come era la situazione, ed in
molti hanno scelto scuole tecniche piuttosto che l’università. Una
volta tutti cercavano di entrare nelle università prestigiose. Gli
adolescenti giapponesi ora sono molto piu’ realistici. Ed è quello
che succederà da noi. L’Università di Venezia non avrà più
migliaia di studenti di architettura. La nuova generazione è fregata
dal sistema e dovrà inventarsi nuovi modi per sopravvivere.

*Il capitalismo finanziario è in crisi, ma i sentimenti della gente
sembrano essere riassunti bene da una vignetta comparsa nell’ultimo
numero dell’Economist in cui una folla incoraggia la locomotiva del
capitalismo che sbuffa in salita.*

Questa fiducia è dovuta al fatto che il sistema ha incoraggiato le
persone a credere è che c’è più mobilità sociale in questo
capitalismo flessibile. Ma i dati statistici suggeriscono una
situazione opposta. Negli anni ’50 e ’60, che vengono idenfiticati con
un capitalismo sclerotico e burocratico, i tassi di mobilità verso
l’alto per la classe operaia e la classe media erano decisamente più
alti di quelli degli anni ’90. E la ragione è strutturale. In un
sistema di capitalismo finanziario fondamentalmente si spremono le
classi medie. Saskia Sassen [compagna di e sociologa urbana
ndr] è tornata dalla Cina la scorsa settimana e mi ha detto che ciò
che è veramente interessante nella situazione laggiù è che i cinesi
vogliono diventare classe media ma ciò che vedono è che la promessa
di mobilita’ non viene realizzata dal sistema, ed è per questo che ci
sono tante proteste al momento tra i lavoratori cinesi.

*Nonostante la situazione di sofferenza dei lavoratori, i sindacati non
sembrano essere in grado di reagire adeguatamente all’ondata di tagli.
E’ questo il risultato dell’individualizzazione della forza lavoro
seminata durante gli anni d’oro del neoliberismo?*

La mancanza di risposte collettive alla crisi e’ dovuta esattamente
alla situazione di incertezza in cui si sono messi i lavoratori negli
ultimi anni. I sindacati adesso si chiedono di colpo ma com’è che non
possiamo mobilitare queste persone. Ma la risposta è chiarissima.
Questi lavoratori non possono permettersi di scioperare, perche’ se
scioperano non avranno alcuna protezione. Sono in una condizione
incredibilmente insicura in cui non possono alzare la testa.

*Non solo i sindacati ma anche i partiti di sinistra sembrano incapaci
di cogliere la sfida della crisi. Così in Gran Bretagna come in
Germania sono stati eletti esecutivi liberal-conservatori, che
continuano a sostenere il verbo del neoliberismo.*

Penso che per quanto riguarda la sinistra, abbiamo avuto 50 anni in
cui abbiamo cercato di dimostrare che noi non siamo come quei
cattivoni stalinisti, che siamo gente a modo, che siamo amici del
business, che vogliamo essere parte del mondo moderno. Sono stati
cinquant’anni rivolti al passato. Di fronte ad un sistema distruttivo
la sinistra non ha niente da dire ai lavoratori. Recentemente sono
stato ad un incontro sindacale prima delle elezioni, e mi hanno
chiesto tu cosa faresti? Io ho risposto che se fosse per me
nazionalizzerei l’intero sistema bancario. Penso che bisognerebbe
trattare il sistema finanziario nello stesso modo in cui si tratta la
salute. Una cosa che richiede il controllo dello stato. E ho visto
questi membri del sindacato, e ripeto membri del sindacato che mi
dicevano – non si possono dire queste cose! Abbiamo bisogno di dare
una risposta molto piu’ radicale a quello che sta succedendo. Dobbiamo
abbandonare le pretese di socialdemocrazia. Si continua a voler dare
ai lavoratori un paio di protezioni in piu’, o due spiccioli in piu’
invece che modificare veramente il sistema economico. Dobbiamo tornare
a parlare di socialismo altrimenti la gente non ci capisce.

Come uscire dalla crisi? Quale modello produttivo? In Gran Bretagna si
e’ fatto un gran parlare di un ritorno al settore manifatturiero come
antidoto alla crisi del sistema finanziario. Questa e’ del resto la
soluzione che tu suggerisci nel tuo libro, l’Uomo Artigiano.

Qua in Gran Bretagna ne hanno parlato per gli ultimi due anni, ma non
hanno mai creato alcun programma per incoraggiare i giovani a
diventare artigiani. Era un’idea interessante ma non se ne e’ fatto
niente. Io credo che il settore manifatturiero offra una via di
uscita. E non si tratta solo di una fiducia romantica nell’uomo
artigiano. E’ la storia del successo economico della Cina o del
Giappone. Si tratta di tornare a produrre cose, produrre cose di cui
altre persone hanno bisogno. E in questo senso in Italia voi avete un
sistema produttivo ad alta tecnologia che puo’ trovare una via di
uscita da questa situazione. L’ironia in Italia come altrove queste
imprese manifatturiere che fanno veramente profitto, che stanno sul
mercato ed impiegano molte persone ma sono proprio quelle che fanno
fatica ad ottenere credito. Questa e’ una dimostrazione palese della
follia del sistema.

mercoledì 23 giugno 2010

Tagli da 90 miliardi Spremuto il welfare, niente sull'evasione

LONDRA. La finanziaria più dura degli ultimi 30 anni ha scritto il Times. No. La più dura degli ultimi 60 anni, ha rincarato il premier David Cameron, quasi fosse un motivo di orgoglio. Dopo le manovre correttive annunciate a catena nelle ultime settimane in Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Germania, ieri è andata in scena la nuova austerity made in Britain, con una finanziaria da record presentata dal nuovo governo di coalizione liberal-conservatore. Una stretta pesantissima che secondo alcune stime vale 75 miliardi di sterline, quasi 90 miliardi di euro, poco meno del 6% del Pil. Una finanziaria in cui alle banche si tolgono gli spiccioli mentre si tagliano i servizi, si attaccano i dipendenti pubblici ed aumentano le imposte indirette.
George Osborne, il cancelliere dello scacchiere, ha cercato di presentare l'«emergency budget» alla Camera dei Comuni come una manovra progressista, «dura ma giusta», scatenando un boato dai banchi dell'opposizione laburista. Osborne ha accusato il governo Labour di dissennatezza finanziaria, che ha messo il nuovo governo di fronte ad una scelta obbligata per «fermare il collasso di fiducia nel sistema economico». Una stretta in cui, promette Osborne, «tutti pagheranno, ma coloro che sono in fondo alla scala dei redditi pagheranno di meno».

A dispetto di queste dichiarazioni, Osborne ha presentato solo tagli su tagli. Tagli che vanno a coprire quasi l'80% della somma sottratta all'economia. Il welfare viene spremuto a fondo, con un risparmio di 11 miliardi dal congelamento e dalla riforma dei contributi per invalidi, bambini, abitazione ed anziani. A questi si sommano 17 miliardi di tagli alla spesa per i diversi ministeri, che vedono ridurre il proprio bilancio del 20%. Viene congelato per due anni lo stipendio dei dipendenti pubblici che guadagnano più di 21.000 sterline, e vengono bloccate le assunzioni. A essere colpiti sono pure i consumatori che devono fare fronte ad un aumento dell'Iva di 2.5 punti che la porta al 20%, con maggiori entrate per 20 miliardi di sterline. Si tratta di un ulteriore carico per la spesa delle famiglie che già fanno fronte ad un costo della vita che nonostante la crisi è rimasto alle stelle, a fronte di un minore reddito e meno posti di lavoro. Unica nota positiva il fatto che 850.000 lavoratori a basso reddito vengono esentati dalle imposte, primo passo incontro alla richiesta liberal-democratica di creare una no-tax zone per i redditi sotto le 10.000 sterline.

Se lavoratori pubblici e consumatori vengono colpiti pesantemente a farla franca sono proprio i responsabili della crisi economica, ed in particolare banche e super-ricchi. Dopo il muso duro mostrato all'impopolare City, per tutta la campagna elettorale, conservatori e liberal-democratici ci sono andati leggeri, e si sono accontentati di prelevare appena 2 miliardi di sterline dalle banche. Niente di fatto anche sul fronte dell'evasione fiscale, stimata a 100 miliardi di sterline all'anno, con tanti facoltosi contribuenti tra cui lo stesso vice-ministro del tesoro Danny Alexander che risultano domiciliati all'estero per ragioni fiscali.
Una manovra lacrime e sangue che però secondo Osborne permetterà di ridurre fortemente il deficit nei prossimi 5 anni il deficit, portandolo dall'attuale 10% all'1%. Stando alle stime del governo l'economia registrerà una mini-ripresa dell'1.2% quest'anno e il 2.8% nel 2012, e anche la disoccupazione scenderà e dopo il picco dell'8% di quest'anno passerà al 6% nel 2012. Il Labour e i sindacati hanno accolto con disapprovazione la manovra correttiva. Harriet Harman che funge da primo ministro ombra per il Labour, in attesa che il congresso del partito elegga un nuovo leader, dopo il discorso di Osborne ha affermato che la manovra aumenterà la disoccupazione e bloccherà l'economia. Per il segretario della Trade unions Brendan Barber «la manovra dimostra l'incomprensione dello stato dell'economia». Ma nonostante i tagli e le parole la risposta politica e sociale non si vede.

giovedì 13 maggio 2010

Giallo-blu a Downing street

«Se volete, fatevi pure sedurre da Nick Clegg. Ma sappiate che alla fine vi ritroverete sposati con David Cameron». La profezia agitata dal «principe delle tenebre», il machiavellico politico laburista Peter Mandelson, durante la campagna elettorale, si è avverata ieri sul prato del giardino interno di Downing Street, dove i due sposini di centro-destra, il leader dei Conservatori Cameron, e quello dei Liberaldemocratici Clegg, hanno celebrato di fronte alla stampa, l'insediamento del primo governo di coalizione dai tempi di Winston Churchill, in cui fungeranno rispettivamente da primo ministro e da vice primo ministro. «Un governo che durerà cinque anni», hanno promesso i due, nonostante la diffidenza dei rispettivi partiti, il malumore della base, e lo scetticismo dei bookmakers, che già puntano sul ritorno alle urne entro un anno.
Dopo aver ottenuto l'incarico martedì sera dalla Regina Elisabetta, mezz'ora dopo che il laburista Gordon Brown aveva frettolosamente lasciato Downing Street accompagnato da moglie e bambini, il 43enne Cameron aveva promesso di costruire una «società giusta» basata sulla responsabilità. Ieri, presentando l'esecutivo in compagnia di Clegg, il leader dei «New Tory», ha affermato che «toglierà il potere ai politici e lo metterà nelle mani della gente», dando vita ad una «grande società» al posto del «grande governo» coltivato dal New Labour. Clegg gli ha fatto da sponda, affermando che il nuovo governo sarà «riformatore e progressista» e che «vedrà il debutto di un nuovo modo di fare politica: una politica diversa e plurale». «Non solo un nuovo governo ma pure una nuova politica», hanno affermato i due all'unisono.
Nella squadra giallo-blu svelata ieri pomeriggio, i liberaldemocratici deludono le attese, accontentandosi di una manciata di poltrone. I ministeri importanti vanno quasi tutti ai Conservatori. L'aristrocratico George Osborne, che come Cameron fu membro dell'esclusivo Bullingdon club ai tempi degli studi a Oxford, diventa cancelliere dello scacchiere, ovvero ministro del Tesoro. Il torvo William Hague, già leader dei Tory, e tenace anti-europeista, si prende il ministero degli esteri. Il bonario Ken Clarke, veterano degli esecutivi Thatcher e Major, va al ministero della giustizia. Al militarista Liam Fox viene affidata la Difesa. All'amico delle cliniche private Andrew Lansley viene concessa la Sanità. Il ministero degli Interni infine viene dato a Theresa May, unica donna nell'esecutivo: un evidente passo indietro rispetto all'era New Labour. I Liberaldemocratici si accontentano del ministero per la Scozia, assegnato a Danny Alexander, di quello dell'Energia affidato a Chris Huhne, e del dicastero dell'Industria con delega alle banche, messo in mano al vulcanico libdem Vincent Cable, noto per le critiche al sistema finanziario.
I Tory sono stati più generosi verso i novelli alleati libdem sul programma di governo. Passa la richiesta del partito di Clegg per un referendum sul sistema elettorale, che potrebbe aprire le porte ad un sistema misto proporzionale/maggioritario: una concessione significativa dato che i conservatori difendono tenacemente il maggioritario secco. Viene annunciata pure la creazione di una no-tax zone per le famiglie con reddito sotto le 10.000 sterline, ed investimenti per i bambini disagiati, proposti dai Libdem durante la campagna elettorale. Si promettono un alt all'espansione degli aeroporti, e investimenti per l'energia solare ed eolica. Differenze da colmare rimangono sulla guerra in Afghanistan, con i Libdem che vorrebbero accelerare l'uscita dal conflitto e sull'Europa dove le posizioni dei due partiti sono difficilmente conciliabili.
Il protocollo d'intesa siglato da Tory e Libdem, lascia pure intendere come il partito di Clegg abbia accettato a testa bassa la linea Tory sull'economia con tagli pesanti alla spesa pubblica per fare fronte al deficit. Viene annunciata una finanziaria di emergenza entro 50 giorni che dovrebbe produrre 6 miliardi di «risparmi» per fare felice la City. Si prospettano misure draconiane sui disoccupati, che presto saranno costretti ad accettare qualsiasi lavoro venga offerto loro per non rimanere senza contributi, e licenziamenti a raffica per i dipendenti pubblici. Interventi che rischiano di mandare la disoccupazione alle stelle e ributtare il paese in una seconda recessione, come paventato dagli stessi Libdem durante la campagna elettorale.
Dentro il partito liberaldemocratico l'accordo con i Conservatori ha fatto infuriare diversi attivisti, e tanti intellettuali di sinistra che disgustati da 13 anni di New Labour avevano deciso di appoggiare Clegg alle ultime elezioni, senza sospettare che cosi rifacendo si sarebbero ritrovati a nozze con i Tory. Così per i liberaldemocratici alla prima esperienza di governo da diversi decenni, lo sposalizio con i Conservatori potrebbe rivelarsi un abbraccio mortale.

mercoledì 12 maggio 2010

Brown si dimette, incarico a Cameron

«Grazie e arrivederci». Dopo cinque giorni di resistenza in cui è rimasto in trincea a Downing Street, cercando di scongiurare a tutti i costi l'entrata dei Tory di David Cameron, ieri Gordon Brown ha presentato ufficialmente le dimissioni da primo ministro alla regina Elisabetta e ha chiesto al sovrano di invitare il leader dei Conservatori Cameron a formare un nuovo esecutivo.

La decisione di Brown è giunta a seguito del fallimento della trattativa tra laburisti e liberaldemocratici, spenta sul nascere dall'opposizione interna di diversi esponenti Labour. In tarda serata tutti prevedevano che a brevissimo, forse già nella nottata, sarebbe stata annunciata la formazione di un esecutivo guidato da David Cameron, con al suo interno diversi ministri liberaldemocratici, nella prima coalizione giallo-blu della recente storia britannica.

Sin dalla mattinata si percepiva che quella di ieri sarebbe stata la giornata decisiva, dopo cinque giorni di trattative febbrili per creare un nuovo esecutivo, seguite ad elezioni che avevano restituito al paese un parlamento appeso, con nessun partito con la maggioranza dei seggi.

Di prima mattina Cameron aveva lanciato un ultimatum a Clegg, definendo la giornata di ieri il «giorno delle decisioni», e per tutta risposta Clegg si era detto impaziente di porre fine alla situazione di incertezza. A sbloccare la trattativa tra Libdem e Tory, è stato il fallimento dei colloqui paralleli tra libdem e i laburisti.

Cercando di approfittare dello stallo nei negoziati tra liberaldemocratici e conservatori, ieri Brown si era detto disposto a farsi da parte, per persuadere i Libdem, restii ad unirsi ad un governo da lui capeggiato, a venire a patti con i laburisti. Ma il tentativo di Brown si è presto infranto di fronte alla resistenza di diversi esponenti del Labour, tra cui il ministro alla salute David Burnham che ieri mattina ha affermato che il «Labour deve rispettare i risultati delle elezioni e prepararsi all'opposizione», e l'ex ministro degli interni Blunkett che ha chiamato i libdem «prostitute».

Le dimissioni di Brown promettono di accelerare la formazione di un governo di coalizione tra Conservatori e Liberaldemocratici, a cui ieri sera mancava solo il timbro finale dell'approvazione dei rispettivi gruppi parlamentari. L'accordo raggiunto tra liberaldemocratici e Conservatori coprirebbe un periodo di tre anni, prima del ritorno alle urne. Dopo le dure resistenze iniziali i Conservatori hanno offerto ai Liberaldemocratici un referendum per cambiare il sistema elettorale in senso più proporzionale. Al partito di Clegg verrebbero inoltre affidati sei dicasteri, e a Clegg stesso andrebbe la carica di vice primo ministro. I Libdem porterebbero a casa pure la no-tax zone sotto le 10.000 sterline, una proposta chiave del loro manifesto programmatico. I Libdem non otterrebbero il cancelliere dello scacchiere che probabilmente andrà al liberal Tory Ken Clarke. Ma avrebbero voce sui tagli alla spesa pubblica da effettuare per diminuire il deficit, giunto ormai a quota 12%. I Conservatori si sono dimostrati sorprendentemente disponibili ad abbandonare una serie di provvedimenti sbandierati in campagna elettorale tra cui l'eliminazione della tassa di successione sopra la soglia di 300.000 sterline, e agevolazioni fiscali per le coppie sposate. Tuttavia non hanno lasciato spazio sull'immigrazione. I liberaldemocratici avrebbero accantonato la loro richiesta di regolarizzazione per i clandestini che si trovino nel paese da 10 anni, in cambio di concessioni in altri settori.

Il nuovo esecutivo potrebbe prendere possesso del numero 10 di Downing Street già questa mattina, dopo un trasloco lampo di Brown e del suo cancelliere Darling. David Cameron si presenterebbe poi di fronte alla camera dei Comuni nel giorno di apertura del nuovo parlamento, il 18 di maggio prossimo e non dovrebbe avere alcun problema ad ottenere il voto di fiducia, dato che Conservatori e Liberaldemocratici assieme, hanno una maggioranza di circa 30 voti.

Tuttavia rimangono incognite sulla tenuta a lungo termine di una coalizione Lib-Con, perché molti esponenti di spicco del partito liberaldemocratico tra cui i decani Menzies Campbell, Charles Kennedy e Vincent Cable hanno detto che avrebbero preferito un accordo con il Labour Party, e l'accordo con i Tory sarà pure difficile da far digerire alla base. Ciò che si prospetta alla coalizione di governo è un futuro tutt'altro che invidiabile, disseminato di tagli alla spesa pubblica e scelte impopolari. Una situazione in cui, come devono avere pensato gli esponenti del Labour che hanno messo fine alla trattativa con il partito di Clegg, è meglio trovarsi all'opposizione che al governo.

giovedì 6 maggio 2010

Dagenham e Barking, la destra razzista spera in due collegi

«Vai in giro per le strade e sono tutti stranieri: nessuno parla inglese. Se non sbaglio qui siamo in Inghilterra». Roger ha venti anni, una camicia bianca, una cravatta blu e rossa come la Union Jack, occhiali da sole impenetrabili. Non dice esplicitamente di votare il British National Party (Bnp), «perché se no poi dicono che sono razzista». Ad ascoltarlo sembra di sentire un improbabile proclama del Bnp sulla purificazione etnica della Gran Bretagna ed il rimpatrio degli immigrati. Dice che il Labour ha spalancato le frontiere e rimpiange un passato in cui «la comunità era molto più unita, perché non c'erano così tanti stranieri».

Eppure gli amici venuti con lui a vedere le celebrazioni per la festa di San Giorgio patrono d'Inghilterra, con tanto di finto drago di cartapesta, falconieri e figuranti in costumi medievali, non sono esattamente gli «indigeni di pura razza britannica» che il Bnp vorrebbe come soli legittimi abitanti della Gran Bretagna. Al suo fianco sul prato di Dagenham Park ci sono una ragazza italiana, un albanese e due lituani che lo ascoltano senza tradire troppo imbarazzo. «Il problema non sono gli europei», spiega di fronte alla mia perplessità. «Il problema sono i neri e gli asiatici che vengono e si riproducono rapidamente».

Siamo nel sobborgo di Barking e Dagenham, all'estrema periferia est di Londra, una tradizionale roccaforte Labour, dove la metropoli si disperde nella campagna dell'Essex, territorio Tory. Qui aveva sede quella che per un tempo fu la piu' grande industria europea: una fabbrica della Ford che dava lavoro a migliaia di lavoratori, ridimensionata negli anni '80 fino ad essere chiusa nel 2002. Con la crisi del settore manifatturiero la zona si e' impoverita rapidamente. Oggi ha il reddito medio pro-capite piu' basso di Londra, ed un bambino su tre nasce in una famiglia povera. È anche una delle aree con il più rapido cambiamento demografico nella Gran Bretagna. Migliaia di immigrati, specialmente africani, si sono trasferiti qui negli ultimi anni, contribuendo a portare a quota 50.000 persone, la lista di attesa per le case popolari, ridotte all'osso durante l'era Thatcher e rimaste al palo sotto il Labour.

È in questa area marginale sulla sponda del Tamigi che si gioca una partita importante delle elezioni di oggi. Nei due collegi elettorali di Dagenham e Barking, il Bnp spera di consolidare l'avanzata delle ultime elezioni europee in cui ottene il 6,2% dei voti. A Barking è schierato il leader del partito, l'europarlamentare Nick Griffin, personaggio inquietante con un occhio di vetro e la scriminatura alla Adolf Hitler, che da giovane ebbe come mentore Roberto Fiore, segretario di Forza Nuova, rifugiatosi a Londra dopo la strage di Bologna. In un'elezione dominata dal tema immigrazione, la vittoria del Bnp a Barking e Dagenham sembrava inevitabile. Eppure l'entrata in parlamento potrebbe sfumare anche stavolta, a causa delle lotte interne che stanno divorando il partito, in cui cova l'insofferenza verso il padre-padrone Griffin.
I problemi per il Bnp sono cominciati a novembre: a sorpresa Griffin volle per sé il collegio di Dagenham dove avrebbe dovuto competere Richard Barnbrook, consigliere comunale Bnp a Londra. A inizio aprile i disappori interni furono esposti al pubblico ludibrio: Griffin fu minacciato di morte da Mark Collett, responsabile per la comunicazione del partito, disgustato per le spese folli di Griffin. Poi lo scandalo del comunicato elettorale che esponeva in sovraimpressione un barattolo di Marmite, la crema salata che è la Nutella della classe operaia inglese. A suggellare il disastro ci ha pensato ieri Simon Bennett, webmaster del sito del partito, che infuriato contro la dirigenza Bnp ha rinviato i visitatori sul proprio sito dove era pubblicato un comunicato che definiva Griffin un «personaggio patetico».

Ora, nonostante la leggendaria insipienza della dirigenza del partito, per le strade di Barking e Dagenham le tante bandiere inglesi esposte in giardini, negozi e finestre lasciano intendere che oggi qui in molti voteranno Bnp. «Tutti quanti i miei amici voteranno Bnp» - afferma Simon un muratore trentenne. «E anche io ci sto pensando perché ci sono troppi nigeriani da queste parti». Su Barking High Street in un ristorante giamaicano, incontro alcuni di questi «famigerati» nigeriani. Natalie ha 18 anni, la sua famiglia è di Lagos, ma è nata a Parigi. Con lei a mangiare agnello al curry e riso con fagioli ci sono altre due amiche nigeriane, una nata in Portogallo, l'altra in Spagna. «Il razzismo c'è ma non si vede» - mi dice per minimizzare. Poi però mi racconta che durante la notte di Halloween un gruppo di ragazzi bianchi le tirarono uova urlandole «negre» e che un giorno una signora anziana la invitò ad andare a sedersi in fondo al bus, «come facevano in Sud Africa al tempo dell'Apartheid». «Il fatto che questo posto è una noia mortale. Non c'è niente da fare. Per quello che la gente diventa razzista». Sogna di andarsene in un posto piu accogliente. "Magari in Italia. Da voi non c'è razzismo, vero?».