mercoledì 23 maggio 2012
Viaggio fra una sinistra frammentata, nei quartieri poveri della capitale
Una «battaglia dei muri» condotta strada per strada, tra attacchinaggi e «strappinaggi»,
volantinaggi e contro-volantinaggi. La campagna per le elezioni presidenziali al Cairo è lo
specchio delle linee di spaccatura della società egiziana, e dei complessi conflitti di classe che
la attraversano. Uno scontro combattuto non solo attraverso le frequenze dei canali satellitari e i
flussi di messaggi sulle pagine Facebook. Ma pure sulle strade della capitale egiziana dove
l'addensarsi di manifesti di questo o quel candidato è una spia non solo delle simpatie politiche
ma pure della composizione sociale della zona.
Shubra, zona nord del Cairo. È da qui che un viaggio nella geografia politica della capitale deve partire. Questo quartiere operaio circondato da fabbriche è la roccaforte dei Fratelli musulmani, come rivela l'onnipresente sguardo di rimprovero del loro candidato presidente, il tarchiato ingegner Mohammed Mursi. «Mursi farà ripartire l'economia con una serie di grandi progetti» afferma Khaled 20enne studente di ingegneria, prototipo di militante per un movimento che recluta i propri membri soprattutto tra la classe media privata, tra ragionieri, ingegneri, dottori e i loro figli che puntano a seguire le orme
dei padri. E poi a cascata affonda le radici nella classe operaia impoverita, le cui ristrettezze
vengono periodicamente alleviate dallo zakat , la tassa volontaria della comunità islamica.
Un taxi nero, di quelli senza tassametro, per passare alla sponda destra del Nilo, alle distese dei
disordinati quartieri popolari di Giza. Il rosso dei manifesti di Mursi, ora se la deve vedere con
l'arancione Pisapia dei manifesti di Abu el-Futuh, il candidato islamista moderato cacciato dalla
Fratellanza in uno di quegli intrighi interni che le hanno fatto perdere tanto consenso tra i
giovani. Si entra nelle stradine di Imbaba, simbolo delle ashwayiat , i quartieri abusivi (o
«informali» come li chiamano qui) che ospitano il 40% della popolazione del Cairo, in cui abita
un vasto sottoproletariato composto da disoccupati, ambulanti, muratori a intermittenza, tassisti
abusivi. Qui nel 1992, un gruppo di salafisti dichiarò la nascita dell'Emirato islamico di Imbaba.
Su queste strade ora i «barbuti» fanno campagna per Futuh, sostenuto da una coalizione che
arriva fino alla classe media «liberale» di centro città e agli ultras delle squadre di calcio
cittadine.
Venti chilometri di distanza viaggiando verso sud-est, ma è come se fossero anni
luce. Piazza Roxy è al centro dell'opulento quartiere di Heliopolis, che assieme ad Abbassya e
Nasr City è territorio del pubblico impiego, degli ufficiali dell'esercito, dei lavoratori del vicino
aeroporto, di imprenditori piccoli e grandi. Più isola spartitraffico che piazza vera e propria Roxy
è stata la sede di un contro-sit-in a sostegno della giunta militare succeduta a Mubarak, quando
nel luglio del 2011 Tahrir venne nuovamente occupata. Adesso è il punto di ritrovo dei
sostenitori di Ahmed Shafik, ultimo primo ministro dell'era Mubarak, i cui enormi cartelloni
campeggiano lungo le grandi arterie stradali, fianco a fianco di quelli Amar Mussa, l'ex
segretario della Lega Araba e ex ministro degli esteri di Mubarak che i sondaggi danno come
favorito. Ashraf un medico 52enne ripete uno per uno i concetti chiave della campagna
elettorale. «Shafik è un vero leader». «Abbiamo bisogno di stabilità». «I rivoluzionari sono
criminali». Come lui la pensano in tanti tra negozianti, lavoratori del turismo e familiari di
poliziotti e militari, che assieme agli impiegati pubblici constituiscono i nuclei del gelatinoso
blocco sociale dei cosidetti felul (gli avanzi di regime), quelli che bramano un ritorno all'ordine,
che si chiami Shafik o Mussa poco importa. Islamisti contro Mubarakiani.
E la sinistra dov'è? Fa capolino dai manifesti verdi del nasserista Hamdin Sabbahi, dell'avvocato socialista Khaled Ali e del giudice progressista Hisham Bastawisi che si contendono i muri attorno a Tahrir per poi disperdersi mano a mano che si entra nei quartieri popolari. È una sinistra frammentata, con radicamento malfermo nelle già deboli organizzazioni sindacali e basi territoriali esili. Una
sinistra sconfitta nella battaglia dei muri. E presto anche nelle urne
mercoledì 12 ottobre 2011
Chi sono le "forze oscure"?
Davanti alla cattedrale copta di San Marco ci sono dieci blindati color sabbia dell'esercito egiziano. Identici a quelli che domenica sera hanno fatto strage nella folla, investendo i corpi di decine di manifestanti, spezzando ossa, frantumando crani. Una provocazione inaccettabile per i fedeli in lutto. Si alzano urla contro l'esercito e contro Tantawi, il capo della giunta militare succeduta a Mubarak. Passano pochi minuti e i veicoli abbandonano lo spiazzo. Al loro posto parcheggiano i carri funebri con a bordo le vittime della battaglia di Maspiro.
Il giorno dopo il massacro dei cristiani copti di fronte al grattacielo di Maspiro, sede della televisione pubblica egiziana, negli ospedali si fa ancora il conto dei morti e dei feriti degli scontri più gravi dalla caduta del dittatore Hosni Mubarak, 9 mesi fa. Stando agli ultimi dati del ministero della sanità egiziano i morti sarebbero 29 - 17 manifestanti e 12 tra poliziotti e soldati - mentre i feriti sono piu' di 200. Un bilancio destinato ad aggravarsi: c'e' chi parla di 60 morti, quasi tutti tra i manifestanti. Davanti all'ospedale copto dove sono arrivati la maggior parte dei caduti e dei feriti si radunano parenti e amici. Dentro un sacerdote copto cerca di convincere la gente a chiedere l'autopsia per i propri cari: «E' il solo modo per dimostrare che li ha uccisi l'esercito».
La battaglia tra copti e militari è cominciata domenica sera durante una protesta convocata dopo l'incendio di una chiesa nel distretto di Assuan, nell'Egitto meridionale, la scorsa settimana. Erano partiti in 10.000 da Shubra, quartiere della minoranza copta nella zona nord del Cairo. Nel corteo spiccavano croci, icone religiose e cartelli scritti a mano che chiedevano alle autorità di difendere la libertà di culto e di mettere freno al fondamentalismo islamico. I problemi sono cominciati quando il corteo si è immesso nel tunnel che collega Shubra al centro città. Dai palazzi vicini sono iniziati lanci di pietre, bottiglie e bombe molotov, e si sono uditi colpi di pistola sparati da provocatori (i famigerati baltageya), sospettati di essere manovalanza al servizio della giunta militare.
Verso le sette di sera la testa del corteo ha infine raggiunto la zona di Maspiro, sulla riva destra del Nilo, dove dall'inizio della rivoluzione la comunità copta tiene i propri presidi di protesta. E dopo pochi minuti è cominciato l'inferno. L'esercito ha attaccato frontalmente il corteo. Cariche di blindati lanciati all'impazzata contro la folla, hanno investito chiunque si trovasse sul loro cammino, mentre raffiche di mitre e colpi di fucile hanno mietuto altre vittime. Alcuni manifestanti avrebbero reagito sparando con armi rubate da un camionetta della polizia data alle fiamme. Ma gli organizzatori della protesta insistono che nessuno tra i manifestanti copti ha aperto il fuoco su militari e poliziotti, e accusano gruppi di provocatori e islamisti dell'accaduto.
La battaglia tra manifestanti ed esercito è andata avanti per ore nella zona circostante, compresa la vicina piazza Tahrir che è stata sgomberata attorno alla mezzanotte da plotoni di soldati armati di scudi e bastoni. Poi più o meno alla stessa ora il governo ha dichiarato il coprifuoco in tutta la zona centrale della capitale fino alle sette dell'indomani mattina. Il primo ministro Sharaf è andato in televisione a dichiarare che «forze oscure» sono dietro gli scontri, e che «il paese è in pericolo». E la televisione di stato ha incitato la popolazione a scendere in piazza e a difendere i militari contro gli «assassini» cristiani. Centinaia di salafiti hanno risposto all'appello e sono andati ad attaccare l'ospedale copto dove continuavano ad arrivare i feriti degli scontri.
Il massacro di domenica è l'ultimo in una serie di attacchi contro la minoranza copta in un anno cominciato con la strage islamista del primo gennaio in una chiesa di Alessandria in cui morirono 23 persone. Dalla caduta di Mubarak ci sono state decine di attacchi contro la minoranza copta in diverse zone del paese, di cui alcuni mortali. Ora per i membri della antica setta cristiana, che rappresenta il 9% della popolazione egiziana si profila il rischio di essere stritolati tra il pugno di ferro dell'esercito e il fanatismo dei gruppi salafiti.
«E' difficile descrivere il dolore per quello che è accaduto - afferma Nora Rafea, una ragazza musulmana di 24 anni che è andata ad esprimere solidarietà davanti all'ospedale copto -. Sta succedendo qualcosa di molto inquietante in questo paese. Qualcuno vuole che la rivoluzione si trasformi in una guerra religiosa. La giunta militare vuole aumentare la tensione, e dimostrare che senza di loro il paese finirà nel caos. Continuo ad essere convinta che il popolo egiziano non si farà ingannare da questo complotto». Sarà così?
Il giorno dopo il massacro dei cristiani copti di fronte al grattacielo di Maspiro, sede della televisione pubblica egiziana, negli ospedali si fa ancora il conto dei morti e dei feriti degli scontri più gravi dalla caduta del dittatore Hosni Mubarak, 9 mesi fa. Stando agli ultimi dati del ministero della sanità egiziano i morti sarebbero 29 - 17 manifestanti e 12 tra poliziotti e soldati - mentre i feriti sono piu' di 200. Un bilancio destinato ad aggravarsi: c'e' chi parla di 60 morti, quasi tutti tra i manifestanti. Davanti all'ospedale copto dove sono arrivati la maggior parte dei caduti e dei feriti si radunano parenti e amici. Dentro un sacerdote copto cerca di convincere la gente a chiedere l'autopsia per i propri cari: «E' il solo modo per dimostrare che li ha uccisi l'esercito».
La battaglia tra copti e militari è cominciata domenica sera durante una protesta convocata dopo l'incendio di una chiesa nel distretto di Assuan, nell'Egitto meridionale, la scorsa settimana. Erano partiti in 10.000 da Shubra, quartiere della minoranza copta nella zona nord del Cairo. Nel corteo spiccavano croci, icone religiose e cartelli scritti a mano che chiedevano alle autorità di difendere la libertà di culto e di mettere freno al fondamentalismo islamico. I problemi sono cominciati quando il corteo si è immesso nel tunnel che collega Shubra al centro città. Dai palazzi vicini sono iniziati lanci di pietre, bottiglie e bombe molotov, e si sono uditi colpi di pistola sparati da provocatori (i famigerati baltageya), sospettati di essere manovalanza al servizio della giunta militare.
Verso le sette di sera la testa del corteo ha infine raggiunto la zona di Maspiro, sulla riva destra del Nilo, dove dall'inizio della rivoluzione la comunità copta tiene i propri presidi di protesta. E dopo pochi minuti è cominciato l'inferno. L'esercito ha attaccato frontalmente il corteo. Cariche di blindati lanciati all'impazzata contro la folla, hanno investito chiunque si trovasse sul loro cammino, mentre raffiche di mitre e colpi di fucile hanno mietuto altre vittime. Alcuni manifestanti avrebbero reagito sparando con armi rubate da un camionetta della polizia data alle fiamme. Ma gli organizzatori della protesta insistono che nessuno tra i manifestanti copti ha aperto il fuoco su militari e poliziotti, e accusano gruppi di provocatori e islamisti dell'accaduto.
La battaglia tra manifestanti ed esercito è andata avanti per ore nella zona circostante, compresa la vicina piazza Tahrir che è stata sgomberata attorno alla mezzanotte da plotoni di soldati armati di scudi e bastoni. Poi più o meno alla stessa ora il governo ha dichiarato il coprifuoco in tutta la zona centrale della capitale fino alle sette dell'indomani mattina. Il primo ministro Sharaf è andato in televisione a dichiarare che «forze oscure» sono dietro gli scontri, e che «il paese è in pericolo». E la televisione di stato ha incitato la popolazione a scendere in piazza e a difendere i militari contro gli «assassini» cristiani. Centinaia di salafiti hanno risposto all'appello e sono andati ad attaccare l'ospedale copto dove continuavano ad arrivare i feriti degli scontri.
Il massacro di domenica è l'ultimo in una serie di attacchi contro la minoranza copta in un anno cominciato con la strage islamista del primo gennaio in una chiesa di Alessandria in cui morirono 23 persone. Dalla caduta di Mubarak ci sono state decine di attacchi contro la minoranza copta in diverse zone del paese, di cui alcuni mortali. Ora per i membri della antica setta cristiana, che rappresenta il 9% della popolazione egiziana si profila il rischio di essere stritolati tra il pugno di ferro dell'esercito e il fanatismo dei gruppi salafiti.
«E' difficile descrivere il dolore per quello che è accaduto - afferma Nora Rafea, una ragazza musulmana di 24 anni che è andata ad esprimere solidarietà davanti all'ospedale copto -. Sta succedendo qualcosa di molto inquietante in questo paese. Qualcuno vuole che la rivoluzione si trasformi in una guerra religiosa. La giunta militare vuole aumentare la tensione, e dimostrare che senza di loro il paese finirà nel caos. Continuo ad essere convinta che il popolo egiziano non si farà ingannare da questo complotto». Sarà così?
martedì 11 ottobre 2011
Egitto, dalle curve alle piazze. Gli Ultras nemici fanno pace
Sono decenni che i loro tifosi si fanno la guerra. E ogni derby lascia dietro di sé uno strascico di feriti, arresti, denunce, vetrine spaccate e automobili bruciate, come succede in tanti altri derby noti per la loro violenza: Fenerbahce-Galatasaray a Istanbul, Celtic-Rangers a Glasgow, Roma-Lazio nella nostra capitale. Ma venerdi scorso di fronte all’ambasciata israeliana le tifoserie dell’Al-Ahly e dello Zamalek, le due principali squadre del Cairo, hanno messo temporaneamente da parte la loro rivalità per combattere fianco a fianco contro gli agenti della polizia, come era già successo 7 mesi fa, nei giorni caldi della rivoluzione egiziana.
A fine gennaio e inizio febbraio, gli ultras dello Zamalek e Al-Ahly erano in prima fila a difendere Tahrir square contro l’assalto dei baltageya (i provocatori assoldati dal governo) e dei poliziotti, e hanno avuto un ruolo importante nel riempire il vuoto organizzativo durante i primi giorni di sommossa. A spingere gli ultras dello Zamalek e dell’Al-Ahly, è stato innanzitutto l’odio viscerale per la polizia alimentato da un’esperienza di repressione e soprusi ben nota a tante tifoserie in giro per il mondo.
Prima della rivoluzione il regime vedeva le tifoserie come una delle principali minacce alla sicurezza dello stato, e ci andava giù duro con gas lacrimogeni e manganelli in ogni occasione in cui gli slogan urlati dalla curva nord (quella dell’Al-Ahly) o dalla curva sud (quella dello Zamalek) dello stadio internazionale del Cairo si facessero troppo politici. E questo è proprio quello che è avvenuto la sera del 6 settembre al margine della partita tra Al-Ahly e l’Aswan, club della città sul Nilo nel remoto sud dell’Egitto. Per punire i tifosi dell’Al-Ahly che avevano lanciato slogan ingiuriosi contro l’ex ministro degli interni El-Adly e il deposto presidente Hosni Mubarak, poliziotti in tenuta anti-sommossa hanno preso d’assalto la curva nord, partendo dal basso fino a salire alle ultime file. La battaglia è continuata fino a tarda notte fuori dallo stadio, con un bilancio finale di 130 feriti e decine di arrestati. Di tutta risposta i capi ultras dell’Al-Ahly hanno promesso che avrebbero partecipato in massa alla manifestazione di venerdì contro il regime militare. I rivali dello Zamalek hanno seguito a ruota, suggellando una nuova fase di «tregua rivoluzionaria» con gli arci-rivali. Come avviene per tante altre rivalità calcistiche, l’odio tra tifosi dello Zamalek, e dell’Al-Ahly ha profonde radici politiche e sociali. Zamalek e Al-Ahly sono i due principali club di calcio del Cairo. Lo Zamalek, maglietta bianca con due strisce azzurre, fu fondato nel 1911 da un avvocato belga.Era il team della comunità straniera del Cairo e poi dell’odiato re Farouk deposto dalla rivoluzione di Nasser del 1952. Al-Ahly – considerata la squadra più forte di tutto il continente africano, con 34 titoli nazionali e 6 Coppe d’Africa – rappresentava invece l’impeto di liberazione nazionale, incarnato nei suoi colori sociali, il rosso e il nero della bandiera precoloniale. E se lo stereotipo vuole il tifoso dello Zamalek un intellettuale di classe media, a suo agio con gli “expats” che affollano l’isola in mezzo al Nilo da cui prende il nome, i tifosi dell’Al-Ahly vengono per lo più dalla classe lavoratrice dei quartieri popolari della capitale come Shubra e Giza.
Fu solo nel 2007 che i tifosi dello Zamalek e dell’Al’Ahly diedero vita ai primi veri e propri gruppi di ultras organizzati sul modello autonomo e militante, degli ultras di casa nostra. Così sorsero Gli Ultras White Knights (Uwk) a sostenere lo Zamalek e il gruppo Al-Ahlawy per sostenere i rivali dell’Al-Ahly. L’ultimo incidente grave tra le due tifoserie risale al giugno scorso, quando un gruppo di tifosi dello Zamalek incendiò a colpi di molotov un pulmino su cui si trovavano una decina di tifosi dell’Al’Ahly di ritorno da una trasferta ad Alessandria. Per un pelo non ci scappò il morto, e di tutta risposta un gruppo di autisti del Cairo prese d’assalto la sede dello Zamalek.
Il ruolo di primo piano che i gruppi ultras si sono ricavati nella rivoluzione egiziana riflette quanto il tifo calcistico costituisca uno dei pochi ambiti sociali capaci di competere con l’onnipresenza della religione musulmana, in cui lo stadio diventa l’equivalente della moschea come polo di aggregazione, e in cui il rito del venerdì di preghiera se la deve vedere con il rito del venerdì di tifo allo stadio. Non sorprende quindi che, vista la crescente popolarità del calcio nel paese del Nilo, i potenti Fratelli Musulmani, abbiano annunciato nel maggio scorso l’intenzione di formare un proprio club calcistico, nell’arduo tentativo di coniugare religione e tifoseria.
Prima della rivoluzione il regime vedeva le tifoserie come una delle principali minacce alla sicurezza dello stato, e ci andava giù duro con gas lacrimogeni e manganelli in ogni occasione in cui gli slogan urlati dalla curva nord (quella dell’Al-Ahly) o dalla curva sud (quella dello Zamalek) dello stadio internazionale del Cairo si facessero troppo politici. E questo è proprio quello che è avvenuto la sera del 6 settembre al margine della partita tra Al-Ahly e l’Aswan, club della città sul Nilo nel remoto sud dell’Egitto. Per punire i tifosi dell’Al-Ahly che avevano lanciato slogan ingiuriosi contro l’ex ministro degli interni El-Adly e il deposto presidente Hosni Mubarak, poliziotti in tenuta anti-sommossa hanno preso d’assalto la curva nord, partendo dal basso fino a salire alle ultime file. La battaglia è continuata fino a tarda notte fuori dallo stadio, con un bilancio finale di 130 feriti e decine di arrestati. Di tutta risposta i capi ultras dell’Al-Ahly hanno promesso che avrebbero partecipato in massa alla manifestazione di venerdì contro il regime militare. I rivali dello Zamalek hanno seguito a ruota, suggellando una nuova fase di «tregua rivoluzionaria» con gli arci-rivali. Come avviene per tante altre rivalità calcistiche, l’odio tra tifosi dello Zamalek, e dell’Al-Ahly ha profonde radici politiche e sociali. Zamalek e Al-Ahly sono i due principali club di calcio del Cairo. Lo Zamalek, maglietta bianca con due strisce azzurre, fu fondato nel 1911 da un avvocato belga.Era il team della comunità straniera del Cairo e poi dell’odiato re Farouk deposto dalla rivoluzione di Nasser del 1952. Al-Ahly – considerata la squadra più forte di tutto il continente africano, con 34 titoli nazionali e 6 Coppe d’Africa – rappresentava invece l’impeto di liberazione nazionale, incarnato nei suoi colori sociali, il rosso e il nero della bandiera precoloniale. E se lo stereotipo vuole il tifoso dello Zamalek un intellettuale di classe media, a suo agio con gli “expats” che affollano l’isola in mezzo al Nilo da cui prende il nome, i tifosi dell’Al-Ahly vengono per lo più dalla classe lavoratrice dei quartieri popolari della capitale come Shubra e Giza.
Fu solo nel 2007 che i tifosi dello Zamalek e dell’Al’Ahly diedero vita ai primi veri e propri gruppi di ultras organizzati sul modello autonomo e militante, degli ultras di casa nostra. Così sorsero Gli Ultras White Knights (Uwk) a sostenere lo Zamalek e il gruppo Al-Ahlawy per sostenere i rivali dell’Al-Ahly. L’ultimo incidente grave tra le due tifoserie risale al giugno scorso, quando un gruppo di tifosi dello Zamalek incendiò a colpi di molotov un pulmino su cui si trovavano una decina di tifosi dell’Al’Ahly di ritorno da una trasferta ad Alessandria. Per un pelo non ci scappò il morto, e di tutta risposta un gruppo di autisti del Cairo prese d’assalto la sede dello Zamalek.
Il ruolo di primo piano che i gruppi ultras si sono ricavati nella rivoluzione egiziana riflette quanto il tifo calcistico costituisca uno dei pochi ambiti sociali capaci di competere con l’onnipresenza della religione musulmana, in cui lo stadio diventa l’equivalente della moschea come polo di aggregazione, e in cui il rito del venerdì di preghiera se la deve vedere con il rito del venerdì di tifo allo stadio. Non sorprende quindi che, vista la crescente popolarità del calcio nel paese del Nilo, i potenti Fratelli Musulmani, abbiano annunciato nel maggio scorso l’intenzione di formare un proprio club calcistico, nell’arduo tentativo di coniugare religione e tifoseria.
domenica 11 settembre 2011
Piazza Tahrir contro Israele
Di fronte al palazzone che al dodicesimo e tredicesimo piano ospita l'ambasciata israeliana, adesso c'è una fila i blindati dell'esercito egiziano, mitragliatrici spianate, soldati vigili sulla torretta. Ma sull'asfalto ci sono ancora i segni dei roghi, dei bengala, e delle pietre degli scontri che cominciati venerdì sera sono andati avanti fino all'alba di sabato.
Appresso ad uno dei cespugli spinosi della rotonda nella piazza che confina con l'entrata del giardino zoologico e il palazzo dell'ambasciata israeliana, c'è un brandello di una delle centinaia di pagine di documenti ufficiali che venerdì sera sono stati lanciati dalla finestra della sede diplomatica, la stella di Davide che fa capolino sotto una foglia. Su un marciapiede gruppi sparuti di manifestanti continuano a inneggiare contro Israele. Su un altro contro-manifestanti (ancora più sparuti) affermano che l'evento ha messo in cattiva luce l'Egitto e la sua rivoluzione.
In questa piazza senza nome, che nel cuore di tanti rivoluzionari egiziani ha sostituito piazza Tahrir, venerdì notte è stata battaglia tra manifestanti e polizia. Battaglia come non si era vista dai giorni gloriosi della rivoluzione contro Mubarak. Una battaglia che ha lasciato sul terreno tre morti, e 1049 feriti, secondo il bilancio provvisorio stilato dal ministero della salute egiziano, spingendo la giunta militare a dichiarare lo stato di allerta ed il primo ministro Sharaf a rassegnare le dimissioni poi rifiutate. E la crisi non riguarda certo solo la politica interna, dato che l'assalto all'ambasciata ha pure spinto l'ambasciatore israeliano, appena tornato in Egitto a lasciare il paese con un volo militare diretto a Tel Aviv, nella crisi più grave nella storia del trentennale trattato di pace tra i due paesi.
Eppure la giornata di protesta di venerdì era cominciata sotto tono con una manifestazione a Tahrir che era stata ben sotto il milione di persone annunciato dagli organizzatori. Attorno all'enorme rotonda resa celebre dalla rivoluzione erano comparsi di nuovo striscioni e palchi di gruppi e partiti, parenti dei martiri con le foto dei propri cari, al lato di venditori ambulanti, in un'atmosfera rilassata che sapeva più di festa di paese che di rivoluzione.
Poi verso le sette di sera è arrivata la mossa a sorpresa. Il grosso dei manifestanti, con in prima fila i tifosi dei club di calcio cittadini Al-Ahly e Zamalek, è cominciato ad uscire dalla piazza e a scendere lungo il grande corso di Kasr-el-Nil. Dove andassero sarebbe dovuto essere chiaro a tutti, polizia compresa: all'ambasciata israeliana nel quartiere di Giza. Del resto è dal 18 agosto che tutti i giorni lì si concentrano centinaia di manifestanti per far sentire la propria rabbia per l'uccisione di 6 poliziotti di frontiera egiziani. Uccisi dagli israeliani che inseguivano a ridosso del Sinai un gruppo di palestinesi che avevano attaccato un pullman diretto alla località balneare di Eilat, uccidendo 7 civili e 2 soldati.
Il 21 agosto durante una delle proteste uno dei manifestanti era riuscito a scalare fino al 13esimo piano dell'edificio che ospita l'ambasciata di Israele, sostituendo la bandiera di Davide, con quella d'Egitto con al centro la grande aquila dorata di Saladino. Un piccolo assaggio di quello che sarebbe successo pochi giorni dopo. Allertata dall'evento, la giunta militare aveva pure innalzato un muro di protezione intorno all'edificio. Ma la mossa ha solo contribuito a esacerbare gli animi dei manifestanti, a cui quel muro ricordava quello eretto contro i palestinesi.
Per abbatterlo venerdì ai manifestanti ci sono volute poche ore. A partire dalle 4 di pomeriggio hanno cominciato a colpirlo con sbarre di ferro e martelli senza essere troppo impensieriti dalla polizia anti-sommossa. Poi, verso le otto di sera, quando il grosso di manifestanti è arrivato da Tahrir, le esigue linee di polizia messe all'ingresso dell'edificio sono dovute presto battere in ritirata consentendo ad almeno 30 persone di salire le scale dello stabile, fino ai piani più alti in cui si trovano gli uffici diplomatici.
Se l'ambasciata vera e propria sarebbe rimasta indenne, l'ufficio consolare è stato preso d'assalto dai manifestanti, che hanno malmenato un impiegato e hanno messo a soqquadro scaffali e scrivanie. Poi è cominciato il lancio di documenti dalla finestra, con fogli di carta intestata che sono atterrati lentamente sulla piazza di fronte all'ambasciata in una scena surreale che per un attimo ha ammutolito non solo la polizia ma pure i manifestanti, prima dei lanci celebrativi di bengala e delle grida "Horreya! Horreya!" (libertà) e "Tasqot, tasqot Israil" (abbasso Israele).
La polizia ha provato a respingere i manifestanti ed è riuscita a cacciare gli invasori dagli uffici diplomatici di Israele. Ma presto si è vista costretta ad arretrare verso nord, a ridosso della centrale di polizia di Giza, che non è stata data alla fiamme solo grazie all'arrivo dei blindati dell'esercito. La battaglia è andata avanti tutta la notte con ondate continue di attacchi da parte dei manifestanti . Per disperderli non sono bastati lacrimogeni e pallottole di gomma. Il grosso della folla si è ritirato solo dopo che i militari hanno cominciato a sparare in aria raffiche di avvertimento e i blindati della polizia si sono lanciati in caroselli a tutta velocità contro la folla.
Mentre ieri i manifestanti attendevano con trepidazione notizie dalla riunione di emergenza del consiglio militare convocata per la serata, gli egiziani si dividevano tra la gioia e la preoccupazione per le conseguenze dell'evento. Secondo Kamal, un meccanico ventenne di Giza, «questa è la dimostrazione che gli egiziani sono liberi e non si faranno mettere i piedi in testa da nessuno». Ma c'è chi come Mohammed Sharqawi uno studente di scienze politiche vede pericoli profilarsi all'orizzonte. «A noi egiziani non interessa fare la guerra con Israele. Questo è quello che vogliono i salafiti e i fratelli musulmani. Se scoppia una guerra possiamo dire addio alla nostra rivoluzione»
Appresso ad uno dei cespugli spinosi della rotonda nella piazza che confina con l'entrata del giardino zoologico e il palazzo dell'ambasciata israeliana, c'è un brandello di una delle centinaia di pagine di documenti ufficiali che venerdì sera sono stati lanciati dalla finestra della sede diplomatica, la stella di Davide che fa capolino sotto una foglia. Su un marciapiede gruppi sparuti di manifestanti continuano a inneggiare contro Israele. Su un altro contro-manifestanti (ancora più sparuti) affermano che l'evento ha messo in cattiva luce l'Egitto e la sua rivoluzione.
In questa piazza senza nome, che nel cuore di tanti rivoluzionari egiziani ha sostituito piazza Tahrir, venerdì notte è stata battaglia tra manifestanti e polizia. Battaglia come non si era vista dai giorni gloriosi della rivoluzione contro Mubarak. Una battaglia che ha lasciato sul terreno tre morti, e 1049 feriti, secondo il bilancio provvisorio stilato dal ministero della salute egiziano, spingendo la giunta militare a dichiarare lo stato di allerta ed il primo ministro Sharaf a rassegnare le dimissioni poi rifiutate. E la crisi non riguarda certo solo la politica interna, dato che l'assalto all'ambasciata ha pure spinto l'ambasciatore israeliano, appena tornato in Egitto a lasciare il paese con un volo militare diretto a Tel Aviv, nella crisi più grave nella storia del trentennale trattato di pace tra i due paesi.
Eppure la giornata di protesta di venerdì era cominciata sotto tono con una manifestazione a Tahrir che era stata ben sotto il milione di persone annunciato dagli organizzatori. Attorno all'enorme rotonda resa celebre dalla rivoluzione erano comparsi di nuovo striscioni e palchi di gruppi e partiti, parenti dei martiri con le foto dei propri cari, al lato di venditori ambulanti, in un'atmosfera rilassata che sapeva più di festa di paese che di rivoluzione.
Poi verso le sette di sera è arrivata la mossa a sorpresa. Il grosso dei manifestanti, con in prima fila i tifosi dei club di calcio cittadini Al-Ahly e Zamalek, è cominciato ad uscire dalla piazza e a scendere lungo il grande corso di Kasr-el-Nil. Dove andassero sarebbe dovuto essere chiaro a tutti, polizia compresa: all'ambasciata israeliana nel quartiere di Giza. Del resto è dal 18 agosto che tutti i giorni lì si concentrano centinaia di manifestanti per far sentire la propria rabbia per l'uccisione di 6 poliziotti di frontiera egiziani. Uccisi dagli israeliani che inseguivano a ridosso del Sinai un gruppo di palestinesi che avevano attaccato un pullman diretto alla località balneare di Eilat, uccidendo 7 civili e 2 soldati.
Il 21 agosto durante una delle proteste uno dei manifestanti era riuscito a scalare fino al 13esimo piano dell'edificio che ospita l'ambasciata di Israele, sostituendo la bandiera di Davide, con quella d'Egitto con al centro la grande aquila dorata di Saladino. Un piccolo assaggio di quello che sarebbe successo pochi giorni dopo. Allertata dall'evento, la giunta militare aveva pure innalzato un muro di protezione intorno all'edificio. Ma la mossa ha solo contribuito a esacerbare gli animi dei manifestanti, a cui quel muro ricordava quello eretto contro i palestinesi.
Per abbatterlo venerdì ai manifestanti ci sono volute poche ore. A partire dalle 4 di pomeriggio hanno cominciato a colpirlo con sbarre di ferro e martelli senza essere troppo impensieriti dalla polizia anti-sommossa. Poi, verso le otto di sera, quando il grosso di manifestanti è arrivato da Tahrir, le esigue linee di polizia messe all'ingresso dell'edificio sono dovute presto battere in ritirata consentendo ad almeno 30 persone di salire le scale dello stabile, fino ai piani più alti in cui si trovano gli uffici diplomatici.
Se l'ambasciata vera e propria sarebbe rimasta indenne, l'ufficio consolare è stato preso d'assalto dai manifestanti, che hanno malmenato un impiegato e hanno messo a soqquadro scaffali e scrivanie. Poi è cominciato il lancio di documenti dalla finestra, con fogli di carta intestata che sono atterrati lentamente sulla piazza di fronte all'ambasciata in una scena surreale che per un attimo ha ammutolito non solo la polizia ma pure i manifestanti, prima dei lanci celebrativi di bengala e delle grida "Horreya! Horreya!" (libertà) e "Tasqot, tasqot Israil" (abbasso Israele).
La polizia ha provato a respingere i manifestanti ed è riuscita a cacciare gli invasori dagli uffici diplomatici di Israele. Ma presto si è vista costretta ad arretrare verso nord, a ridosso della centrale di polizia di Giza, che non è stata data alla fiamme solo grazie all'arrivo dei blindati dell'esercito. La battaglia è andata avanti tutta la notte con ondate continue di attacchi da parte dei manifestanti . Per disperderli non sono bastati lacrimogeni e pallottole di gomma. Il grosso della folla si è ritirato solo dopo che i militari hanno cominciato a sparare in aria raffiche di avvertimento e i blindati della polizia si sono lanciati in caroselli a tutta velocità contro la folla.
Mentre ieri i manifestanti attendevano con trepidazione notizie dalla riunione di emergenza del consiglio militare convocata per la serata, gli egiziani si dividevano tra la gioia e la preoccupazione per le conseguenze dell'evento. Secondo Kamal, un meccanico ventenne di Giza, «questa è la dimostrazione che gli egiziani sono liberi e non si faranno mettere i piedi in testa da nessuno». Ma c'è chi come Mohammed Sharqawi uno studente di scienze politiche vede pericoli profilarsi all'orizzonte. «A noi egiziani non interessa fare la guerra con Israele. Questo è quello che vogliono i salafiti e i fratelli musulmani. Se scoppia una guerra possiamo dire addio alla nostra rivoluzione»
giovedì 11 agosto 2011
Le gang si organizzano
Felpa col cappuccio e trainers ai piedi sono la loro divisa. I council estates, i casermoni dell'edilizia popolare costruiti tra gli anni Sessanta e i Settanta le loro basi, sorvegliate dalle ringhiere delle balconate, dove fanno il palo i tinies, i membri più giovani. Lo spaccio di droga, in particolare skunk, cocaina e crack, assieme a scippi e rapine le loro principali attività. E il gangsta rap, la colonna sonora di un'esistenza scandita a ritmo di «get rich or dying trying» (diventa ricco o muori provandoci).
I tumulti che hanno visto picchi di fumo innalzarsi su Londra affondano le loro radici nel diffuso disagio sociale e la loro forma di espressione nella «gangsta culture», quella con cui si identificano le bande di ragazzini dei quartieri più disagiati della capitale da Tottenham a Brixton.
Si tratta di gruppi fluidi, ognuno con il suo cappellino, sciarpa o guanti di appartenenza: difendono il territorio che ricade sotto un codice postale. In maggioranza si tratta di ragazzini afro-caraibici di seconda generazione, tra i 10 e i 25 anni. Ma al loro fianco ci sono anche tanti ragazzi bianchi, nati in famiglie disagiate che vivono proprio di quei sussidi che il governo Cameron sta tagliando senza pietà.
Le gangs di Londra che hanno fatto da traino ai tumulti di questi giorni, vengono da una tradizione che risale agli i anni Trenta quando nell'East End gli inglesi Hoxton Boys e gli ebrei Yiddishes lottavano con le mob italiane guidate da Charles «Darby» Sabini per il controllo di bische e bordelli, ma se la vedevano pure con le camicie nere di Oswald Mosley. Poi nel dopoguerra fu la volta dei Teddy Boys, dei Mods, dei Rockers e degli Skinheads, fenomeni a cavallo tra sottocultura e malavita, fino ad arrivare alla gangsta culture dei giorni nostri.
Negli ultimi anni una serie di studi avevano lanciato l'allarme: le gang sono in crescita, sempre più organizzate, sempre più violente. Stando a un rapporto realizzato nel 2007 da Scotland Yard solo a Londra ci sono 169 gang per lo più localizzate nelle zona periferiche Nord e Sud, guarda caso proprio nelle aree di maggior emarginazione sociale. Quell'anno 26 ragazzi furono uccisi nella capitale in scontri tra bande. Un nuovo avvertimento fu suonato nel 2009 dalla ong filo-conservatrice Centre for Social Justice, secondo cui 50.000 ragazzi britannici erano affiliati alle gang. La soluzione? «Tolleranza zero verso i capi-banda».
Un face, o capo-banda era proprio Mark Duggan il «martire», la cui uccisione da parte della polizia ha scatenato l'ondata di tumulti. Duggan era cresciuto nei palazzoni popolari di Broadwater Farm, dove nel 1985 si scatenò una rivolta che ricorda da vicino la sommossa di questi giorni, e in cui fu ucciso l'agente Keith Blakelock. Il ragazzo, ventinove anni, di famiglia caraibica, era salito velocemente al vertice degli Star, uno dei sotto-gruppi dei Tottenham Man Dem, il cui territorio è cifrabile nel codice postale N17 e i cui nemici tradizionali sono gli Hackney boys, e gli Shankstarz del vicino sobborgo di Edmonton.
Se la storia delle gang britanniche è sempre stata una storia di faide territoriali, i tumulti degli ultimi giorni suggeriscono che adesso le bande stanno facendo fronte contro il nemico comune: i cops, ovvero gli sbirri. L'offensiva lanciata dalla polizia negli ultimi mesi contro di loro, sembra aver spinto diverse bande a mettere da parte almeno temporaneamente le rivalità, come nel famoso film del 1979 The Warriors o come nei Los Angeles riots del 1992. Ma questa volta c'è qualcosa di più.
Per strada negli ultimi giorni si sono visti anche tanti ragazzi (e ragazze, le riots girl) che anche se non affiliati alle gang, vedono nella «gangsta culture», una forma di rivincita esistenziale contro uno società che considera gli abitanti dei quartieri poveri come dei «parassiti» a cui tagliare i sussidi. Le gang si stanno insomma guadagnando un rolo che se non è propriamente politico, quantomeno è pre-politico. Il controllo del territorio diventa così una sfida allo stato che non solo non offre lavoro ma soffoca pure l'economia criminale del traffico di droga e dei piccoli furti che dà da mangiare a tante famiglie.
Infine l'elemento etnico. In molti hanno tracciato paralleli con i riots di Brixton, dei primi anni Ottanta in cui la comunità caraibica si ribellava contro una polizia razzista. Ma nelle nelle foto di questi giorni a mancare non sono tanto i ragazzini bianchi, ma piuttosto i coetanei pachistani e bangladesi, che vivono simili situazioni di emarginazione, e sono anche loro organizzati in gang, come i Cannon Street Boys di Shadwell a Londra.
La morte di tre ragazzi asiatici investiti da un auto durante i tumulti a Birmingham, rischia di essere la scintilla capace di trasformare questi riots anti-stato in uno scontro inter-etnico (neri e bianchi contro asiatici) dalle conseguenze imprevedibili.
I tumulti che hanno visto picchi di fumo innalzarsi su Londra affondano le loro radici nel diffuso disagio sociale e la loro forma di espressione nella «gangsta culture», quella con cui si identificano le bande di ragazzini dei quartieri più disagiati della capitale da Tottenham a Brixton.
Si tratta di gruppi fluidi, ognuno con il suo cappellino, sciarpa o guanti di appartenenza: difendono il territorio che ricade sotto un codice postale. In maggioranza si tratta di ragazzini afro-caraibici di seconda generazione, tra i 10 e i 25 anni. Ma al loro fianco ci sono anche tanti ragazzi bianchi, nati in famiglie disagiate che vivono proprio di quei sussidi che il governo Cameron sta tagliando senza pietà.
Le gangs di Londra che hanno fatto da traino ai tumulti di questi giorni, vengono da una tradizione che risale agli i anni Trenta quando nell'East End gli inglesi Hoxton Boys e gli ebrei Yiddishes lottavano con le mob italiane guidate da Charles «Darby» Sabini per il controllo di bische e bordelli, ma se la vedevano pure con le camicie nere di Oswald Mosley. Poi nel dopoguerra fu la volta dei Teddy Boys, dei Mods, dei Rockers e degli Skinheads, fenomeni a cavallo tra sottocultura e malavita, fino ad arrivare alla gangsta culture dei giorni nostri.
Negli ultimi anni una serie di studi avevano lanciato l'allarme: le gang sono in crescita, sempre più organizzate, sempre più violente. Stando a un rapporto realizzato nel 2007 da Scotland Yard solo a Londra ci sono 169 gang per lo più localizzate nelle zona periferiche Nord e Sud, guarda caso proprio nelle aree di maggior emarginazione sociale. Quell'anno 26 ragazzi furono uccisi nella capitale in scontri tra bande. Un nuovo avvertimento fu suonato nel 2009 dalla ong filo-conservatrice Centre for Social Justice, secondo cui 50.000 ragazzi britannici erano affiliati alle gang. La soluzione? «Tolleranza zero verso i capi-banda».
Un face, o capo-banda era proprio Mark Duggan il «martire», la cui uccisione da parte della polizia ha scatenato l'ondata di tumulti. Duggan era cresciuto nei palazzoni popolari di Broadwater Farm, dove nel 1985 si scatenò una rivolta che ricorda da vicino la sommossa di questi giorni, e in cui fu ucciso l'agente Keith Blakelock. Il ragazzo, ventinove anni, di famiglia caraibica, era salito velocemente al vertice degli Star, uno dei sotto-gruppi dei Tottenham Man Dem, il cui territorio è cifrabile nel codice postale N17 e i cui nemici tradizionali sono gli Hackney boys, e gli Shankstarz del vicino sobborgo di Edmonton.
Se la storia delle gang britanniche è sempre stata una storia di faide territoriali, i tumulti degli ultimi giorni suggeriscono che adesso le bande stanno facendo fronte contro il nemico comune: i cops, ovvero gli sbirri. L'offensiva lanciata dalla polizia negli ultimi mesi contro di loro, sembra aver spinto diverse bande a mettere da parte almeno temporaneamente le rivalità, come nel famoso film del 1979 The Warriors o come nei Los Angeles riots del 1992. Ma questa volta c'è qualcosa di più.
Per strada negli ultimi giorni si sono visti anche tanti ragazzi (e ragazze, le riots girl) che anche se non affiliati alle gang, vedono nella «gangsta culture», una forma di rivincita esistenziale contro uno società che considera gli abitanti dei quartieri poveri come dei «parassiti» a cui tagliare i sussidi. Le gang si stanno insomma guadagnando un rolo che se non è propriamente politico, quantomeno è pre-politico. Il controllo del territorio diventa così una sfida allo stato che non solo non offre lavoro ma soffoca pure l'economia criminale del traffico di droga e dei piccoli furti che dà da mangiare a tante famiglie.
Infine l'elemento etnico. In molti hanno tracciato paralleli con i riots di Brixton, dei primi anni Ottanta in cui la comunità caraibica si ribellava contro una polizia razzista. Ma nelle nelle foto di questi giorni a mancare non sono tanto i ragazzini bianchi, ma piuttosto i coetanei pachistani e bangladesi, che vivono simili situazioni di emarginazione, e sono anche loro organizzati in gang, come i Cannon Street Boys di Shadwell a Londra.
La morte di tre ragazzi asiatici investiti da un auto durante i tumulti a Birmingham, rischia di essere la scintilla capace di trasformare questi riots anti-stato in uno scontro inter-etnico (neri e bianchi contro asiatici) dalle conseguenze imprevedibili.
mercoledì 9 marzo 2011
Gente di Dublino, le vittime della crisi
Dopo lo scoppio della bolla immobiliare e la crisi dei mutui, la periferia della capitale irlandese è piena di case appena costruite e abbandonate. E di architetti senza tetto costretti a rivolgersi alla mensa dei poveri. Paradossi del neoliberismo al collasso in un paese europeo a rischio bancarotta. Viaggio tra la «middle class homelessness»
«Sono 8 mesi che sono senza una sistemazione. Facevo l'architetto in uno studio qui a Dublino. E vivevo con la mia ragazza a Ranelagh. Purtroppo quando è cominciata la crisi nel settore costruzioni mi hanno licenziato assieme a diversi colleghi. E nel frattempo è finita la relazione con la mia ragazza. L'affitto era troppo alto per pagarlo da solo. Ho cominciato a stare a corto di soldi. Ho dovuto lasciare la casa. È così che sono diventato homeless».
Tom O' Kelly ha 32 anni e porta una giacca di tweed grigia di buona fattura e abbastanza ben tenuta se non fosse per gli orli consumati. Non è difficile immaginarselo ben rasato e con la camicia pulita e stirata, mentre di mattina aspetta il tram per andare in ufficio, come faceva ogni giorno durante gli anni del boom immobiliare. Come facevano tanti altri barboni di classe media (middle class homeless) che cercano di sopravvivere sulle strade di Dublino. In un paese se negli anni buoni era noto come la "tigre celtica" per la sua crescita rampante, dopo la crisi dei mutui tossici si è ritrovato imprigionato nella gabbia del Fondo Monetario e Banca Centrale Europea a cui l'Irlanda deve un prestito da 85 miliardi di euro. E interessi.
Alla mensa di frate Kevin
Tom lo incontro in coda per prendere il biglietto gratuito da consegnare alle cuoche del Capuchin Day Centre, la più grande mensa per i poveri di Dublino, gestita dall'anziano frate cappuccino Kevin Crowley. Ogni giorno qui viene servita una media di mille pasti a chi non ha soldi per sfamarsi: numero più che raddoppiato rispetto agli anni prima della crisi quando ne servivano un massimo di quattrocento. Simili aumenti ci sono stati anche per le colazioni, e i sacchetti di provviste che il centro distribuisce una volta alla settimana.
È la terza volta che negli ultimi anni vado a visitare la mensa di frate Kevin. E ogni volta che vengo il salone sembra essere sempre più gremito e la coda fuori più lunga, anche se per fortuna dall'altro lato ci sembrano anche essere sempre più cuoche in azione e cibo a sufficienza. «Da quando vengo qui il numero di persone è aumentato considerevolmente», conferma Simona, una ragazza siciliana che lavora come maestra di tango e fa la volontaria al Capuchin Centre. Testimonianze che sembrano contraddire la Homeless People Unit, ente per l'assistenza ai poveri della città di Dublino, secondo cui il numero di senzatetto sarebbe invariato rispetto ai censimenti fatti prima della crisi.
Frate Kevin, che ha aperto il centro alla fine degli anni '60, invece non ha dubbi. «Nella mia vita non avevo mai visto un periodo più nero di questo, con più angoscia e disperazione sulle strade di Dublino. Con più persone che avessero bisogno di aiuto e con tante persone benestanti cadute in disgrazia». E se chiedi a frate Kevin chi siano le persone che si siedono alla sua mensa, lui risponde: «Noi non facciamo domande alle persone che vengono qui perché pensiamo che sia già abbastanza difficile la situazione in cui si trovano. Però talvolta le persone ci raccontano le loro storie e da quello si può vedere che questa crisi non ha risparmiato nessuno». Insomma non solo i «soliti sospetti» come disoccupati e operai poco qualificati, o persone con problemi di droga, alcolismo e malattia mentale, ma pure «architetti, ingegneri, avvocati». «Noi li chiamiamo i nuovi poveri».
Classe media allo sbando
La crisi dei mutui spazzatura non è la prima crisi ne sarà l'ultima che si abbatte sulle coste dell'Irlanda. I più anziani ricordano ancora con amarezza quella «terribile» degli anni '80, quando tanti irlandesi si trovarono costretti a emigrare a frotte. Come ai vecchi tempi. La differenza è che se in quel caso a essere colpiti furono soprattutto operai e minatori, vittime della de-industrializzazione, questa crisi è arrivata dappertutto, colpendo pesantemente la classe media di impiegati e liberi professionisti. Neppure gli «eroi economici» degli anni del boom immobiliare, gli architetti e ingegneri impegnati nei progetti infrastrutturali e residenziali che fino a pochi anni disseminavano di gru il paesaggio urbano, sono stati risparmiati dal tritacarne.
Il settore delle costruzioni è uscito dalla crisi pressoché dimezzato, con decine di migliaia di muratori finite nelle liste di disoccupazione che hanno superato quota 400.000. Tra le fila dei progettisti, architetti ed ingegneri, addirittura un terzo è finito licenziato tra il 2008 e il 2009. La perdita del lavoro ha colto molti tra questi professionisti (specie i più giovani) senza risparmi e con il peso di mutui contratti nel periodo di massima espansione della bolla immobiliare, con rate che sono diventate di colpo insostenibili anche per lavoratori altamente qualificati per cui ormai non c'era prospettiva di trovare lavoro. C'è chi è riuscito a salvarsi facendo affidamento a parenti e amici o emigrando all'estero come hanno fatto 200.000 irlandesi dall'inizio della crisi. Ma in tanti, specie quelli rimasti senza reti sociali a cui aggrapparsi, si sono ritrovati di colpo poveri. Talvolta senza neppure un posto dove dormire al riparo dalla pioggia e dal freddo.
Seduto ad uno dei tavoli del Capuchin Day Centre trovo Nick, un uomo di 35 anni con i capelli castani un po' imbiancati. Originario di Cork, lavorava come ingegnere civile, occupandosi di gestione del cantiere per una compagnia edilizia di Dublino. «Ho fatto male i calcoli con i soldi che avevo e con il costo della vita. Quando ho perso il lavoro mi sono reso conto che non riuscivo a pagare le rate del mutuo e ho cominciato a vivere dove capitava, in case abbandonate. A volte pure per strada. Gli ostelli per i poveri non mi piacciono», racconta tenendo stretta la forchetta con cui si porta alla bocca roastbeef e purè di patate. Poi mi spiega con puntiglio da buon ingegnere come ci si arrangia nella vita per strada. «Bisogna mettere diversi strati di cartone sotto il sacco a pelo per dormire bene. Perché se no ti entra il freddo del marciapiede. E bisogna cercare un posto dove non ci sia vento e dove la gente non vada a pisciare. Dopo un po' ci si abitua anche a quello».
«Sentiamo tante storie di gente che prima stava bene e adesso non sanno come la cavarsela e come fare a pagare le rate del mutuo», spiega frate Kevin. Secondo gli ultimi dati 45.000 famiglie irlandesi si trovano in arretrato di 3 mesi sulle rate del mutuo, per un valore complessivo di 8,5 miliardi di euro di «mutui tossici». Si tratta spesso di persone che stavano relativamente bene prima della crisi, ma che non hanno messo da parte «il penny per il giorno di pioggia» come consiglia un proverbio popolare. E che ora devono fare fronte alla minaccia di sfratti di massa. Specie se come temono in molti nei prossimi mesi le banche irlandesi che fino ad ora hanno ricorso limitatamente agli sfratti contro le famiglie in arretrato, decidano di andarsi a prendere le case che nel frattempo hanno perso più un terzo del valore che avevano prima della crisi. Per cercare di venderle e recuperare il possibile.
La casa: da sogno a incubo
Gli «architetti senza tetto» che si incontrano alla mensa di padre Kevin sono la dimostrazione che il sogno del neoliberalismo del mattone made in Ireland si è trasformato in un incubo. Un incubo che ha sullo sfondo l'immagine delle lunghe file di case appena costruite e già abbandonate nella periferia di Dublino, Cork, Galway e tante altre città. E in primo piano l'immagine di un uomo impiccato alla casetta di legno del suo giardino. «Un mio collega era andato a fare visita ad un signore che era in arretrato sulle rate del mutuo. La moglie gli ha detto che non c'era e di tornare tra due ore», racconta Andrew, un ragazzo che lavora in una banca immobiliare a Dublino. Prima della crisi siglava mutui. Adesso è stato spostato insieme a molti colleghi al reparto recupero crediti. «Quando il mio collega è tornato lo ha trovato morto. Nei prossimi mesi la mia banca potrebbe chiedermi di essere più aggressivo con le persone che sono in arretrato sui pagamenti. E io non so se ne sono capace».
La casa da formidabile fonte di speculazione si è trasformata in una dannazione per le banche dei mutui a go-go, e in una meta irraggiungibile per tante persone, come quelle che ogni giorno fanno la fila alla mensa di padre Kevin. «Quello che vorrei è avere una casa e non avere più bisogno della droga. Non chiedo tanto», afferma sorridendo Stuart, 42 anni, americano d'origine, con 3 anni passati nell'esercito. Adesso dorme in un ostello per i poveri del comune di Dublino. Di lavoro fino a un anno fa faceva l'avvocato ed era sposato con una donna irlandese con cui viveva in una casa spaziosa nel Nord di Dublino. Dopo problemi di alcolismo e la separazione con la moglie, anche lui si è trovato senza risparmi. Ha avuto problemi ad ottenere il sussidio di disoccupazione e per l'abitazione, «perché per avere il sussidio devi risiedere da qualche parte», e si è trovato anche lui assieme come tanti altri professionisti, un tempo stimati e ben pagati, a dormire dove capita e a mangiare alla mensa per i poveri.
«Io spero vivamente che la situazione migliori - afferma frate Kevin - ma a vedere quello che sta succedendo temo che nei prossimi mesi possano aumentare ancora le persone che hanno bisogno di aiuto. E potrebbe diventare difficile dare da mangiare a tutti quelli che hanno bisogno». Il Capuchin Day Centre spende ogni anno 1,3 milioni euro, di cui 430.000 sono coperti dallo stato e il resto da offerte. Il timore è che il nuovo governo della coalizione Fine Gael e Labour che ha vinto le elezioni di fine febbraio possa tagliare quei fondi come minacciava già di farlo il precedente governo liberista del Fianna Fail. «Dobbiamo amare il nuovo governo, sperando che ci continui ad aiutare» sospira frate Kevin con una vena di amarezza prima di tornare a supervisionare il traffico di piatti e pentole dell'indaffaratissima cucina.
«Sono 8 mesi che sono senza una sistemazione. Facevo l'architetto in uno studio qui a Dublino. E vivevo con la mia ragazza a Ranelagh. Purtroppo quando è cominciata la crisi nel settore costruzioni mi hanno licenziato assieme a diversi colleghi. E nel frattempo è finita la relazione con la mia ragazza. L'affitto era troppo alto per pagarlo da solo. Ho cominciato a stare a corto di soldi. Ho dovuto lasciare la casa. È così che sono diventato homeless».
Tom O' Kelly ha 32 anni e porta una giacca di tweed grigia di buona fattura e abbastanza ben tenuta se non fosse per gli orli consumati. Non è difficile immaginarselo ben rasato e con la camicia pulita e stirata, mentre di mattina aspetta il tram per andare in ufficio, come faceva ogni giorno durante gli anni del boom immobiliare. Come facevano tanti altri barboni di classe media (middle class homeless) che cercano di sopravvivere sulle strade di Dublino. In un paese se negli anni buoni era noto come la "tigre celtica" per la sua crescita rampante, dopo la crisi dei mutui tossici si è ritrovato imprigionato nella gabbia del Fondo Monetario e Banca Centrale Europea a cui l'Irlanda deve un prestito da 85 miliardi di euro. E interessi.
Alla mensa di frate Kevin
Tom lo incontro in coda per prendere il biglietto gratuito da consegnare alle cuoche del Capuchin Day Centre, la più grande mensa per i poveri di Dublino, gestita dall'anziano frate cappuccino Kevin Crowley. Ogni giorno qui viene servita una media di mille pasti a chi non ha soldi per sfamarsi: numero più che raddoppiato rispetto agli anni prima della crisi quando ne servivano un massimo di quattrocento. Simili aumenti ci sono stati anche per le colazioni, e i sacchetti di provviste che il centro distribuisce una volta alla settimana.
È la terza volta che negli ultimi anni vado a visitare la mensa di frate Kevin. E ogni volta che vengo il salone sembra essere sempre più gremito e la coda fuori più lunga, anche se per fortuna dall'altro lato ci sembrano anche essere sempre più cuoche in azione e cibo a sufficienza. «Da quando vengo qui il numero di persone è aumentato considerevolmente», conferma Simona, una ragazza siciliana che lavora come maestra di tango e fa la volontaria al Capuchin Centre. Testimonianze che sembrano contraddire la Homeless People Unit, ente per l'assistenza ai poveri della città di Dublino, secondo cui il numero di senzatetto sarebbe invariato rispetto ai censimenti fatti prima della crisi.
Frate Kevin, che ha aperto il centro alla fine degli anni '60, invece non ha dubbi. «Nella mia vita non avevo mai visto un periodo più nero di questo, con più angoscia e disperazione sulle strade di Dublino. Con più persone che avessero bisogno di aiuto e con tante persone benestanti cadute in disgrazia». E se chiedi a frate Kevin chi siano le persone che si siedono alla sua mensa, lui risponde: «Noi non facciamo domande alle persone che vengono qui perché pensiamo che sia già abbastanza difficile la situazione in cui si trovano. Però talvolta le persone ci raccontano le loro storie e da quello si può vedere che questa crisi non ha risparmiato nessuno». Insomma non solo i «soliti sospetti» come disoccupati e operai poco qualificati, o persone con problemi di droga, alcolismo e malattia mentale, ma pure «architetti, ingegneri, avvocati». «Noi li chiamiamo i nuovi poveri».
Classe media allo sbando
La crisi dei mutui spazzatura non è la prima crisi ne sarà l'ultima che si abbatte sulle coste dell'Irlanda. I più anziani ricordano ancora con amarezza quella «terribile» degli anni '80, quando tanti irlandesi si trovarono costretti a emigrare a frotte. Come ai vecchi tempi. La differenza è che se in quel caso a essere colpiti furono soprattutto operai e minatori, vittime della de-industrializzazione, questa crisi è arrivata dappertutto, colpendo pesantemente la classe media di impiegati e liberi professionisti. Neppure gli «eroi economici» degli anni del boom immobiliare, gli architetti e ingegneri impegnati nei progetti infrastrutturali e residenziali che fino a pochi anni disseminavano di gru il paesaggio urbano, sono stati risparmiati dal tritacarne.
Il settore delle costruzioni è uscito dalla crisi pressoché dimezzato, con decine di migliaia di muratori finite nelle liste di disoccupazione che hanno superato quota 400.000. Tra le fila dei progettisti, architetti ed ingegneri, addirittura un terzo è finito licenziato tra il 2008 e il 2009. La perdita del lavoro ha colto molti tra questi professionisti (specie i più giovani) senza risparmi e con il peso di mutui contratti nel periodo di massima espansione della bolla immobiliare, con rate che sono diventate di colpo insostenibili anche per lavoratori altamente qualificati per cui ormai non c'era prospettiva di trovare lavoro. C'è chi è riuscito a salvarsi facendo affidamento a parenti e amici o emigrando all'estero come hanno fatto 200.000 irlandesi dall'inizio della crisi. Ma in tanti, specie quelli rimasti senza reti sociali a cui aggrapparsi, si sono ritrovati di colpo poveri. Talvolta senza neppure un posto dove dormire al riparo dalla pioggia e dal freddo.
Seduto ad uno dei tavoli del Capuchin Day Centre trovo Nick, un uomo di 35 anni con i capelli castani un po' imbiancati. Originario di Cork, lavorava come ingegnere civile, occupandosi di gestione del cantiere per una compagnia edilizia di Dublino. «Ho fatto male i calcoli con i soldi che avevo e con il costo della vita. Quando ho perso il lavoro mi sono reso conto che non riuscivo a pagare le rate del mutuo e ho cominciato a vivere dove capitava, in case abbandonate. A volte pure per strada. Gli ostelli per i poveri non mi piacciono», racconta tenendo stretta la forchetta con cui si porta alla bocca roastbeef e purè di patate. Poi mi spiega con puntiglio da buon ingegnere come ci si arrangia nella vita per strada. «Bisogna mettere diversi strati di cartone sotto il sacco a pelo per dormire bene. Perché se no ti entra il freddo del marciapiede. E bisogna cercare un posto dove non ci sia vento e dove la gente non vada a pisciare. Dopo un po' ci si abitua anche a quello».
«Sentiamo tante storie di gente che prima stava bene e adesso non sanno come la cavarsela e come fare a pagare le rate del mutuo», spiega frate Kevin. Secondo gli ultimi dati 45.000 famiglie irlandesi si trovano in arretrato di 3 mesi sulle rate del mutuo, per un valore complessivo di 8,5 miliardi di euro di «mutui tossici». Si tratta spesso di persone che stavano relativamente bene prima della crisi, ma che non hanno messo da parte «il penny per il giorno di pioggia» come consiglia un proverbio popolare. E che ora devono fare fronte alla minaccia di sfratti di massa. Specie se come temono in molti nei prossimi mesi le banche irlandesi che fino ad ora hanno ricorso limitatamente agli sfratti contro le famiglie in arretrato, decidano di andarsi a prendere le case che nel frattempo hanno perso più un terzo del valore che avevano prima della crisi. Per cercare di venderle e recuperare il possibile.
La casa: da sogno a incubo
Gli «architetti senza tetto» che si incontrano alla mensa di padre Kevin sono la dimostrazione che il sogno del neoliberalismo del mattone made in Ireland si è trasformato in un incubo. Un incubo che ha sullo sfondo l'immagine delle lunghe file di case appena costruite e già abbandonate nella periferia di Dublino, Cork, Galway e tante altre città. E in primo piano l'immagine di un uomo impiccato alla casetta di legno del suo giardino. «Un mio collega era andato a fare visita ad un signore che era in arretrato sulle rate del mutuo. La moglie gli ha detto che non c'era e di tornare tra due ore», racconta Andrew, un ragazzo che lavora in una banca immobiliare a Dublino. Prima della crisi siglava mutui. Adesso è stato spostato insieme a molti colleghi al reparto recupero crediti. «Quando il mio collega è tornato lo ha trovato morto. Nei prossimi mesi la mia banca potrebbe chiedermi di essere più aggressivo con le persone che sono in arretrato sui pagamenti. E io non so se ne sono capace».
La casa da formidabile fonte di speculazione si è trasformata in una dannazione per le banche dei mutui a go-go, e in una meta irraggiungibile per tante persone, come quelle che ogni giorno fanno la fila alla mensa di padre Kevin. «Quello che vorrei è avere una casa e non avere più bisogno della droga. Non chiedo tanto», afferma sorridendo Stuart, 42 anni, americano d'origine, con 3 anni passati nell'esercito. Adesso dorme in un ostello per i poveri del comune di Dublino. Di lavoro fino a un anno fa faceva l'avvocato ed era sposato con una donna irlandese con cui viveva in una casa spaziosa nel Nord di Dublino. Dopo problemi di alcolismo e la separazione con la moglie, anche lui si è trovato senza risparmi. Ha avuto problemi ad ottenere il sussidio di disoccupazione e per l'abitazione, «perché per avere il sussidio devi risiedere da qualche parte», e si è trovato anche lui assieme come tanti altri professionisti, un tempo stimati e ben pagati, a dormire dove capita e a mangiare alla mensa per i poveri.
«Io spero vivamente che la situazione migliori - afferma frate Kevin - ma a vedere quello che sta succedendo temo che nei prossimi mesi possano aumentare ancora le persone che hanno bisogno di aiuto. E potrebbe diventare difficile dare da mangiare a tutti quelli che hanno bisogno». Il Capuchin Day Centre spende ogni anno 1,3 milioni euro, di cui 430.000 sono coperti dallo stato e il resto da offerte. Il timore è che il nuovo governo della coalizione Fine Gael e Labour che ha vinto le elezioni di fine febbraio possa tagliare quei fondi come minacciava già di farlo il precedente governo liberista del Fianna Fail. «Dobbiamo amare il nuovo governo, sperando che ci continui ad aiutare» sospira frate Kevin con una vena di amarezza prima di tornare a supervisionare il traffico di piatti e pentole dell'indaffaratissima cucina.
domenica 27 febbraio 2011
Vince Fine Gael, laburisti tentati dalla coalizione
Ieri l'Irlanda ha celebrato per via elettorale una versione celtica e composta del «giorno della rabbia» rifilando una batosta al sistema di potere politico ed economico retto per 14 anni dal partito di governo Fianna Fail, che con la sua complicità con investitori immobiliari e banchieri irresponsabili ha portato il paese al collasso economico e all'umiliazione del prestito di salvataggio del Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea.
Stando ai dati parziali che emergono dagli scrutini delle prime preferenze (in Irlanda gli elettori possono esprimerne fino a otto in ordine di gradimento) resi disponibili nella tarda serata di ieri per il partito repubblicano Fianna Fail, si prospetta il peggiore risultato di una storia cominciata nel lontano 1927. Il partito del primo ministro Brian Cowen, che ha deciso di non ripresentarsi per evitare un'umiliazione, ottiene in base alle proiezioni circa il 17% delle preferenze: un terzo del risultato ottenuto nelle ultime elezioni nazionali nel 2007.
A guadagnarne sono soprattutto i cugini centristi del Fine Gael che con il Fianna Fail hanno monopolizzato la scena politica irlandese. Con il 36% dei voti la formazione diventa il partito proietta il proprio leader, il timido Enda Kenny alla poltrona di primo ministro. Festeggiando i risultati Kenny ha promesso di formare un «governo forte del popolo e per il popolo» accusando il Fianna Fail di aver spezzato il legame di fiducia tra cittadini e istituzioni.
Ma per avere la maggioranza in parlamento il Fine Gael, che a Bruxelles è affiliato al partito popolare europeo dovrà quasi certamente fare i conti con i laburisti di Eamon Gilmore, tradizionalmente molto deboli in terra d'Irlanda, che però questa volta segnano un record storico conquistando circa il 20% dei voti. L'alternativa per il Fine Gael sarebbe cercare voti tra i deputati indipendenti. Ma questa viene ritenuta un'opzione troppo costosa e inaffidabile.
Le elezioni vedono anche un'ottima affermazione del Sinn Fein di Gerry Adams che sembra destinato a superare la soglia del 10%, guadagnando seggi anche fuori dalle sue tradizionali roccaforti al confine con l'Irlanda del Nord. A soffrire sono invece i Verdi che pagano la partecipazione al governo Fianna Fail con un consenso dimezzato al 2%. Uno dei dati più significativi di queste elezioni è poi il grande numero di prime preferenze andato a candidati indipendenti e piccoli partiti che assieme raggiungono quota 15%. Tra questi candidati di centro-destra che non si volevano affiliare con il Fianna Fial visto come «partito tossico», ma anche esponenti dei piccoli partiti di sinistra, il Socialist Party e People Before Profit che alleati nella coalizione United Left Alliance riuscirebbero a guadagnare ben 7 seggi al Dail, la camera bassa del parlamento irlandese.
Nella nottata sono già cominciati i contatti tra Fine Gael e Labour per formare un governo di coalizione. Ma tra Labour e Fine Gael non sarà facile limare le differenze emerse durante la campagna elettorale e prima di tutto il modo in cui gestire il prestito da 85 miliardi di Fmi e Bce a cui il governo di Dublino si è dovuto piegare nel novembre scorso per evitare lo scatenamento di una crisi monetaria a livello europeo.
Il leader Labour Gilmore vuole che sia ritoccato il tasso di interesse sulla parte del prestito messa a disposizione dai funzionari di Francoforte, che è stato fissato a un «punitivo» 5,8%: quasi un punto percentuale in più rispetto al prestito concesso alla Grecia. Ma vorrebbe pure un piano di rientro più lento sul deficit, rispetto a quello sostenuto dal Fine Gael che vuole acconsentire alle pesanti richieste di Bruxelles di ridurlo al 3% entro il 2014. Così il risultato delle elezioni irlandesi e le condizioni poste dal Labour per entrare nel governo non potranno che destare preoccupazione nel cancelliere tedesco Angela Merkel terrorizzata dalla prospettiva di un'Irlanda restia ai voleri di Bruxelles e tentata a risfoderare la minaccia dell'insolvenza per ottenere condizioni più favorevoli.
Stando ai dati parziali che emergono dagli scrutini delle prime preferenze (in Irlanda gli elettori possono esprimerne fino a otto in ordine di gradimento) resi disponibili nella tarda serata di ieri per il partito repubblicano Fianna Fail, si prospetta il peggiore risultato di una storia cominciata nel lontano 1927. Il partito del primo ministro Brian Cowen, che ha deciso di non ripresentarsi per evitare un'umiliazione, ottiene in base alle proiezioni circa il 17% delle preferenze: un terzo del risultato ottenuto nelle ultime elezioni nazionali nel 2007.
A guadagnarne sono soprattutto i cugini centristi del Fine Gael che con il Fianna Fail hanno monopolizzato la scena politica irlandese. Con il 36% dei voti la formazione diventa il partito proietta il proprio leader, il timido Enda Kenny alla poltrona di primo ministro. Festeggiando i risultati Kenny ha promesso di formare un «governo forte del popolo e per il popolo» accusando il Fianna Fail di aver spezzato il legame di fiducia tra cittadini e istituzioni.
Ma per avere la maggioranza in parlamento il Fine Gael, che a Bruxelles è affiliato al partito popolare europeo dovrà quasi certamente fare i conti con i laburisti di Eamon Gilmore, tradizionalmente molto deboli in terra d'Irlanda, che però questa volta segnano un record storico conquistando circa il 20% dei voti. L'alternativa per il Fine Gael sarebbe cercare voti tra i deputati indipendenti. Ma questa viene ritenuta un'opzione troppo costosa e inaffidabile.
Le elezioni vedono anche un'ottima affermazione del Sinn Fein di Gerry Adams che sembra destinato a superare la soglia del 10%, guadagnando seggi anche fuori dalle sue tradizionali roccaforti al confine con l'Irlanda del Nord. A soffrire sono invece i Verdi che pagano la partecipazione al governo Fianna Fail con un consenso dimezzato al 2%. Uno dei dati più significativi di queste elezioni è poi il grande numero di prime preferenze andato a candidati indipendenti e piccoli partiti che assieme raggiungono quota 15%. Tra questi candidati di centro-destra che non si volevano affiliare con il Fianna Fial visto come «partito tossico», ma anche esponenti dei piccoli partiti di sinistra, il Socialist Party e People Before Profit che alleati nella coalizione United Left Alliance riuscirebbero a guadagnare ben 7 seggi al Dail, la camera bassa del parlamento irlandese.
Nella nottata sono già cominciati i contatti tra Fine Gael e Labour per formare un governo di coalizione. Ma tra Labour e Fine Gael non sarà facile limare le differenze emerse durante la campagna elettorale e prima di tutto il modo in cui gestire il prestito da 85 miliardi di Fmi e Bce a cui il governo di Dublino si è dovuto piegare nel novembre scorso per evitare lo scatenamento di una crisi monetaria a livello europeo.
Il leader Labour Gilmore vuole che sia ritoccato il tasso di interesse sulla parte del prestito messa a disposizione dai funzionari di Francoforte, che è stato fissato a un «punitivo» 5,8%: quasi un punto percentuale in più rispetto al prestito concesso alla Grecia. Ma vorrebbe pure un piano di rientro più lento sul deficit, rispetto a quello sostenuto dal Fine Gael che vuole acconsentire alle pesanti richieste di Bruxelles di ridurlo al 3% entro il 2014. Così il risultato delle elezioni irlandesi e le condizioni poste dal Labour per entrare nel governo non potranno che destare preoccupazione nel cancelliere tedesco Angela Merkel terrorizzata dalla prospettiva di un'Irlanda restia ai voleri di Bruxelles e tentata a risfoderare la minaccia dell'insolvenza per ottenere condizioni più favorevoli.
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